“Hai solo cinque anni”- dice Franco Marcoaldi al suo cane- “ma penso di
continuo alla tua morte.” E lui ribatte ”Con
tutto quello che possiamo fare: rincorrerci, annusarci, baciarci con la lingua,
giocare con i gatti, cacciare le
lucertole, mangiare. Dai retta a me, padrone mio, pensa di meno a te e
asseconda il vento. Svuotato l’io, sarai
pieno di vita: importa poco se per un anno, dieci o cento”(Animali in versi). Già: la
fa facile il cane: ma come lo svuotiamo l’IO da tutti i suoi fantasmi, come
facciamo a vivere un presente incontaminato? No, noi anche quando giochiamo e
ridiamo, il vento non lo assecondiamo proprio: ci lottiamo contro, proviamo a contrastare il
tempo che lui ci porta, restando in
compagnia di quella angoscia che è paura senza oggetto, paura
dell’ineluttabile, di dover sapere che tutto questo finirà: perché, dopo, la morte arriva di sicuro.
venerdì 13 dicembre 2013
giovedì 5 dicembre 2013
RISPOSTE ARTICOLATE A TRE DOMANDE SEMPLICI: perché amiamo i cani, mangiamo i maiali, indossiamo le mucche.
di Annamaria Manzoni
“Non ci sono domande più
pressanti delle domande ingenue” dice Wistawa Szymborska. E “Perché amiamo i
cani, mangiamo i maiali, indossiamo le mucche”, le tre domande che Melanie Joy
si pone (e pone a titolo del suo libro-Sonda 2012), sono essenziali
nella loro capacità di andare dritte al cuore del problema.
Sui motivi per cui amiamo i cani non
ci sono problemi: siamo in grado di rispondere in modo eccitato, perché vengono
toccate nostre corde scoperte e diventiamo subito incontenibili nel fornire
motivazioni che attengono alle doti di fedeltà, intelligenza, amorevolezza che
i nostri animali preferiti, ne siamo certi,
posseggono, e su cui non abbiamo neppure un dubbio che qualche ruolo lo
giochi la proiezione. Che se anche
fosse, del resto, che importa? Va bene così.
Sono gli altri due interrogativi a provocare
in genere più di un momento di latenza,
necessario a riordinare le idee per andare a cercare argomentazioni, davvero
faticose, a sostegno di ciò che appare talmente ovvio da farci giudicare le
domande irragionevoli, provocatorie nella misura in cui sollecitano spiegazioni
su ciò che non ne contempla. Proprio qui risiede il fulcro delle articolate
argomentazioni di Melanie Joy: nel non potere, le risposte a queste
domande, essere trovate se non all’interno di una spiegazione tautologica riferita al fatto che la ragione ultima e
vera del nostro nutrirci e servirci degli animali si trova semplicemente nella considerazione che non
esiste nessuna ragione se non quella, disarmante, che semplicemente le cose
stanno così. Nel fatto, cioè, che
siamo talmente immersi in una cultura che, in fatto di rapporto con gli animali,
stabilisce regole di riferimento basate sul loro regolare, continuo, scontato
sfruttamento, che , pure educati come siamo a mettere in discussione in modo
disincantato ogni comportamento, tanto da sottoporre a una ruminazione dubbiosa
persino le ragioni della scelta del dentifricio al supermercato, non ci poniamo
domande davanti al piatto di carne che consumiamo, e ci asteniamo da riflessioni
sulla sua origine ed essenza, che pure vanno a confliggere con realtà immense per grandezza, importanza,
implicita violenza e sofferenza.
sabato 2 novembre 2013
E PER TESTIMONIAL UN MAIALE ARROSTO
Non è facile trovare le parole : straziante è
comunque la sensazione che deriva e colpisce allo stomaco, alla mente e al
cuore davanti all’immagine (Repubblica, 01.11.2013):
un maiale arrostito, disteso intero su un tavolo, con il muso in primo piano e il corpo legato da una corda che gli gira intorno. Immagine già di per sé insopportabile; ma non basta: un cuoco appoggia una mano sulla sua schiena, ma a farla da padrone con il suo valore aggiunto è un signore in abito scuro e camicia chiara, che gli pizzica la testa con le dita, piegandosi in avanti: sorride e guarda compiaciuto l’obiettivo. Neppure in un safari l’animale ucciso sarebbe proposto al fotografo con maggiore compiacimento per il proprio operato.
un maiale arrostito, disteso intero su un tavolo, con il muso in primo piano e il corpo legato da una corda che gli gira intorno. Immagine già di per sé insopportabile; ma non basta: un cuoco appoggia una mano sulla sua schiena, ma a farla da padrone con il suo valore aggiunto è un signore in abito scuro e camicia chiara, che gli pizzica la testa con le dita, piegandosi in avanti: sorride e guarda compiaciuto l’obiettivo. Neppure in un safari l’animale ucciso sarebbe proposto al fotografo con maggiore compiacimento per il proprio operato.
sabato 12 ottobre 2013
CAPITINI E GLI ANIMALI
Scritto da Annamaria Manzoni per il festival della Nonviolenza, dedicato ad Aldo Capitini, filosofo della nonviolenza, vegetariano, cofondatore della Società Vegetariana Italiana. www.festivalnonviolenza.it
“Il vegetarianesimo è in stretto rapporto con i problemi morali e religiosi, ed anzitutto con il problema dei fini e dei mezzi.”
(Da "Aspetti dell’educazione alla non violenza")
Aldo Capitini diventò vegetariano nel 1932, in pieno regime fascista e mentre cominciavano a soffiare venti di guerra: non fu un caso perché la decisione era parte della sua opposizione al clima di sopraffazione in atto e a quanto si preparava ad avvenire; era infatti sua precisa convinzione che, se si fosse imparato a non uccidere gli animali, a maggiore ragione si sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini.
Da questo fondamentale assunto il suo pensiero prese a snodarsi,
anche nel campo dei rapporti interspecifici, in senso assolutamente
avanzato, pacifista, controcorrente: parlò dei doveri morali che abbiamo nei confronti degli altri animali, con i quali abbiamo innegabili vincoli di parentela,
e sottolineò come la scelta nonviolenta nei loro confronti abbia delle
ricadute sul nostro modo di essere e di percepirci, sulla nostra stessa
disposizione d’animo, che diventa più benevola, sulla nostra
autopercezione come persone più franche, calme, affettuose. Porre fine alla leggerezza sterminatrice e alla freddezza utilitaria normalmente impiegate nello sterminio degli animali si riflette in accrescimento di valore interiore.
mercoledì 25 settembre 2013
COME LA LA ROMANIA L'UCRAINA 2012
L’attesa per l’inizio dei campionati europei di calcio sta per concludersi, e con lei, speriamo,
la strage delle migliaia di cani da cui le strade dell’Ukraina
dovevano essere ripulite per l’arrivo degli dei del pallone e dei loro
fans, uomini duri sì, ma amanti dell’ordine e della pulizia. Visto che
solo la “conclusione dei lavori” ha consentito la fine del massacro
non si può non parlare di grave sconfitta di tutte le iniziative che
hanno avuto luogo per mesi contro questo sterminio: proteste, striscioni
subito oscurati e multati perché non si fa, lettere, appelli,
petizioni, diffusione di foto e di video, nella convinzione che
davanti alle immagini dell’orrore di sicuro qualcosa sarebbe successo.
Niente da fare: le cose hanno seguito il corso stabilito da chi,
manovrando le leve del potere, ha proseguito imperterrito, certo di
poter contare se non sul silenzio del mondo del pallone, di certo
sull’assenza di iniziative che andassero oltre una pacata protesta.
Niente di diverso dal sospiro di sollievo che, quando arriva Pasqua,
sottolinea che non si uccidono più agnelli, perché sono morti tutti, o,
alla fine del periodo natalizio, ci consola perchè finalmente la gente,
abbuffata e satolla, magari per un po’ si asterrà dal mangiare altri
animali.
martedì 24 settembre 2013
DALLA ROMANIA CON DOLORE
“Uomini chiamati
rosticcieri-trattori si mettono in mezzo alla strada per affondare il coltello
nel dorso di un agnello belante (….); poi si abbandona lo sventurato animale
che, dopo avere perduto il sangue goccia a goccia, spira con una lunga agonia.
Questa scena, che si rinnova a tutte le ore del giorno, ha per spettatori tutti
i bambini del vicinato i quali, già
intrepidi come il vittimario[1],
insultano l’agnello immolato”.
Questo passo fu scritto da
Sylvain Marechal, giornalista e scrittore, verso la fine del 1700; descrive la
situazione della città di Parigi, in cui i macelli erano all’aperto, e
operavano in continuazione sotto gli occhi di tutti, fornendo uno spettacolo
straziante a cui rispondeva da una parte l’indifferenza dei passanti, dall’altra
il tifo per il più forte da parte dei bambini, lì ad imparare la lezione
quotidianamente impartita.
domenica 8 settembre 2013
IL BAMBINO GIORGIO. E TUTTI GLI ALTRI
Giorgio, il bambino di tre mesi,
in ospedale perché papà e forse mamma
gli hanno spaccato le ossa, quelle del cranio comprese, resterà cieco e sordo
per tutta la vita. Commenti? Il linguaggio sempre più spesso è inadeguato, non
possiede le parole per dire quello che la mente non vuole pensare: barbarie,
crudeltà, ferocia sono termini abusati, non bastano, e altri non se ne trovano.
Epoche antiche, dittature sanguinarie, luoghi di guerra ci hanno fornito esempi
memorabili di performance di questo tipo, ma in questo caso,
nella Palermo dei nostri giorni, all’interno di una famiglia di certo
fortemente disturbata, ma non di quelle avvolte in quel degrado economico e
sociale che a volte sembra fornire inaccettabili alibi, l’orrore riesce a
diventare ancora un po’ più forte: perché quando tutta la possibile crudeltà viene rivolta contro il
proprio bambino, reo di avere pianto, quando, dopo, l'unica preoccupazione
sembra quella di trovare il mezzo per cavarsela, perché una pena non si ha
proprio voglia di affrontarla, non resta che tacere.
Tacere e agire. Cosa che ha fatto
un imprenditore milanese, anonimo per
suo volere, che ha dato la disponibilità ad occuparsi vita natural durante di
quel bambino, offrendogli tutte le possibili cure: non saranno sufficienti per
ripagarlo di ciò che non potrà vedere né di ciò che non potrà sentire; non
basteranno perché possa convivere senza sfaldarsi con l’insostenibile
consapevolezza di essere stato oggetto di tanta malvagità da parte di chi aveva
il dovere di proteggerlo; non basteranno: ma di certo conteranno molto.
Molti sono i pensieri che nascono
a proposito delle istanze contenute in questa generosissima azione: per
tollerare gli abissi della sconcertante oscenità che il male può raggiungere
bisogna fare gesti che lo contrastino, che diano la possibilità di credere che,
se il male è così grande, altrettanto lo può essere il bene. Soltanto così si
può provare a rendere tollerabile a se
stessi e agli altri l’appartenenza al genere umano, altrimenti in quell’abisso
non potremo non essere trascinati.
Al di là dell’enorme pena per un
bimbo, devastato oltre l’immaginabile, e del senso di incolmabile ingiustizia, a
muovere il signore di Milano c’è forse più in generale una ribellione contro la presenza del male nel mondo.
In modi diversi e in altre situazioni, non sono poche le persone che, come ha fatto lui, oppongono una resistenza ed una rivolta ad
oltranza alle ingiustizie, anche a quelle che non hanno luogo sotto i loro
occhi, andando a ripararle là dove più violentemente vengono compiute. Lo fanno
medici, infermieri e personale tutto nelle zone di guerra; lo fanno missionari nelle
missioni più sperdute; lo fanno tanti cittadini che trovano nel volontariato
una struttura in cui il non ricevere alcun compenso per le proprie azioni di aiuto le rende schiette e
incontaminate.
E’ importante ricordare che altre
persone fanno parte di questa schiera: sono tutti coloro che raccolgono per la
strada cani feriti, affetti dalle peggio malattie, mezzo morti di fame; che
spendono tutti i loro soldi per sfamare ogni giorno colonie di gatti ; che dedicano
tempo preziosissimo ad un maiale o una mucca salvati dal macello. Credo che,
oltre ad essere risposta immediata, empatica e compassionevole alla sofferenza
di un singolo animale, comportamenti tanto
assoluti da condizionare una vita intera testimonino del bisogno, dell’urgenza, dell’ineluttabilità di opporre all’infinito male che
quotidianamente viene inferto a un numero altrettanto infinito di animali il
bene che si è in grado di produrre, con azioni che il mondo non lo salveranno, ma in qualche modo
flebilissimo e fondamentale lo renderanno un posto un po’ migliore. Di certo non si sposta di molto l’ago della bilancia
che resta bene inchiodato sul negativo; per un animale messo al riparo, ve ne sono schiere sterminate che subiscono una
sorte atroce. Ma proprio in questo genere di gesti riparatori è forse contenuta la forza
che rende possibile continuare a stare, nonostante tutto, su questa terra. “Mi
vergogno di essere parte dell’umanità” è esclamazione comune di fronte alle
ingiustizie commesse contro gli animali esattamente come contro tutti gli
esseri deboli e indifesi. E’ come se esistesse una sorta di responsabilità
personale in atti compiuti da altri, di cui ci si sente compartecipi e colpevoli in quanto, come membri della stessa specie, si è contaminati dalla
stessa natura potenzialmente spietata . Non è necessariamente sotto i nostri sensi che avviene ciò che
ci sconvolge, ma esiste nell’inconscio collettivo di cui il nostro inconscio è
partecipe. La risposta allora può essere quella di lasciare scaturire dal cordoglio, dalla sofferenza, dal senso di
colpa la spinta ad un gesto riparatore,
che possa ridurre la responsabilità, ristabilire una forma di armonia,
ripristinare un’integrità necessaria. La spinta etica diventa mezzo di
sopravvivenza psicologica.
A volte la sproporzione tra le
forze in campo travolge e la riva depressiva diventa l’unico approdo, perché
nessun risarcimento sembra bastare: non sono pochi coloro che, spinti da una
necessità imperiosa a mettersi al
servizio di altri animali, travalicano
ogni limite personale: nulla sembra bastare davanti al proprio giudizio
implacabile. Bisogna fare sempre di più a rischio dell’annullamento, fisico o
psichico, di se stessi e scendere in abissi di sofferenza, dove non
c’è possibilità di dare sollievo ad un senso di colpa cosmico, che si trasforma
in volontà di espiazione e di annientamento.
Bello sarebbe se ci fossero, ma
non ci sono, strade già segnate: forse la capacità di indignarsi resta l’arma
più potente, se l’indignazione non resta vacua parola ma diventa strumento per
cambiare le cose del mondo. O, molto più semplicemente, per fare la propria
parte nel contrastare le cose di questo mondo: in difesa di tutti gli indifesi,
di qualsiasi specie siano.
domenica 28 luglio 2013
DAL PORCELLUM ALLA PORCHETTA: IL PASSO è BREVE
Fu l’onorevole Calderoli a
definire "porcata", da cui poi il termine invalso di "porcellum", il sistema elettorale da lui stesso sostenuto
nel momento in cui cominciò a considerarlo una sozzeria, un abominio, un
disastro. Prescindendo dalla spensieratezza con cui un uomo politico prende atto dei propri
errori e
serenamente resta dov’è, non può
non colpire la determinazione con cui l’onorevole pesca nel suo bestiario interiore in cerca di metafore ad hoc. E se è nel
mondo dei primati che trova immagini che,
nel suo pensiero, sono utili a denigrare la gente di colore, è di quello dei
suini che si serve per connotare lo
sprezzo per ciò che ritiene innegabilmente idiota: una vera porcata, insomma.
lunedì 22 luglio 2013
L’ONOREVOLE E L’ORANGO
I PENSIERI
E LE PAROLE
L’onorevole
(a quando la messa al bando degli ossimori?!?) Calderoli che pensa ad un orango
quando guarda il ministro Kienge è l’occasione per alcune riflessioni sul
linguaggio. Linguaggio che non è mai casuale: veicola informazioni, idee, modi di pensare
non solo attraverso l’elaborazione del pensiero, ma anche grazie all’uso dei
termini che sempre sono carichi di un significato che va oltre il letterale per
includere il suggerito, il metaforico, il simbolico.
Il mondo
animale, in questo senso, è un pozzo senza fondo di idee, qualche volta frutto
di associazioni logiche, molto più spesso legate alla rappresentazione che
degli animali abbiamo costruito, altre volte ancora connesse ad una distorsione
di pensiero.
Si può
cominciare dalla constatazione che metafore dal mondo animale sono regolarmente
e sapientemente utilizzate nel corso delle guerre, antiche e moderne, quando la necessità di solleticare i peggiori
istinti, di animare un odio che stenta a svilupparsi perché non è nutrito da
alcuna ragione, connota con epiteti animali il nemico: lo scopo, purtroppo
raggiunto, è quello che l’altro viene disumanizzato, abbassato al rango di
animale non umano, e in questo modo reso più facile vittima di una violenza irragionevole.
“Prima di morire, la vittima deve essere degradata, affinchè l’uccisore senta
meno il peso della sua colpa” commenta lucidamente
Primo Levi (“I sommersi e i
salvati”, Einaudi 1986) cercando l’introvabile senso degli orrori di
Auschwitz. L’elenco è quanto mai vasto: era Churchill a parlare del “cane
giapponese”, i giapponesi definivano “maiali” i cinesi, “topi di fogna” erano gli ebrei durante il
nazismo, “scarafaggi” i tutsi nel massacro a colpi di machete in Ruanda, “tacchini”
gli iracheni in fuga nella guerra del golfo; topi drogati, nel linguaggio di
Gheddafi, i ribelli che lo stavano spodestando nella guerra civile del 2011.
giovedì 4 luglio 2013
LA PELLICCIA DI LUCIO DALLA E LE CORNACCHIE CONDANNATE A MORTE
Alla morte di Lucio Dalla, nel marzo
del 2012, tra le tante fotografie pubblicate, due lo vedono, in tempi diversi, avvoltolato
in pellicce di imprecisati animali
C’è una fotografia di Lucio Dalla che obbliga a tanti pensieri, quella in cui appare avvolto in una pelliccia, di animale non bene identificato. Superfluo tessere le lodi di Lucio Dalla e ricordare che lui è stato molto di più di un cantante, è stato il cantore di un’umanità sconfitta, ha guardato nelle pieghe delle ingiustizie sociali e ne ha colto la sofferenza; ha visto la pena dei carcerati e ne ha condiviso gli aneliti a vivere la propria umanità nei sentimenti umiliati da una giustizia disumanizzante. Il soldato che, in Itaca, combatte una guerra che darà vanto solo al suo capitano ha la stessa profondità del povero di Bertol Brecht, che, qualunque sarà l’esito della guerra, sarà sempre un vinto.
L’AMBIGUA FASCINAZIONE DELLE ARMI
Negli Stati Uniti un bambino di due anni uccide per sbaglio sua madre con la pistola che lei teneva nella borsetta: e si torna a parlare della diffusione delle armi.
La vendita di armi è
commercio internazionale che non conosce crisi, in cui gli italiani-brava-gente occupano posizioni di tutto
rispetto: se non è recente la notizia degli indiani dello stato del Madhya Pradesh, disposti a farsi sterilizzare se il
compenso è un’arma, è invece ciclica quella che le annuali fiere
delle armi in varie città italiane registrano un numero sempre crescente di visitatori (lì i
papà ci portano anche i bambini in gita); mai sopite richieste di norme meno restrittive per la concessione
del porto d’armi a privati cittadini
fanno da eco ad ogni argomentazione sul bisogno di sicurezza; se sono
addirittura superflue le osservazioni sulle tragedie sempre in onda negli Stati Uniti, anche in Italia di tanto in tanto si legge che in varie città ”è corsa al porto d’armi”.
Insomma, per motivi solo in parte
coincidenti, il fascino delle armi si esercita sulle nazioni e sugli individui.
Le considerazioni sulla loro diffusione per uso bellico richiedono argomentazioni
politiche, sociali, economiche: ma, quando si tratta di difesa personale, sarebbe
importante non misconoscere la prospettiva
psicologica e concedere attenzione alle disposizioni e reazioni personali, punto di
partenza di ogni altra analisi. Anche i fatti dell’India, il cui governatore, soddisfatto
dell’inaspettato risultato della sua iniziativa, aveva affermato di avere “disinnescato il mito
maschile della virilità con quello ben più forte delle armi”, aiutano ad una
lettura a 360 gradi delle complesse dinamiche che restano vivaci dietro l’invocazione
al diritto alla legittima difesa.
mercoledì 3 luglio 2013
ZOO, CIRCHI, SAGRE
Foto di Wei Seng Chen
Zoo, circhi, sagre, sono contesti in cui gli animali vengono tenuti
imprigionati, costretti in condizioni incompatibili con la loro natura, obbligati a
performances estranee alle loro inclinazioni, allo scopo esclusivo di divertire il pubblico.
Il fenomeno non è di poco conto se si considera che in Italia i circhi sono circa 300, che
gli zoo vanno aumentando pur nelle forme di zooparchi, che hanno ancora luogo annualmente un
migliaio di sagre di Paese dove, ad un certo punto, la folla per divertirsi maltratta quache
animale.
Non possiamo fingere di non sapere che gli orsi in bicicletta, le tigri che attraversano
cerchi infuocati, i leoni seduti sugli sgabelli, gli elefanti che danzano a ritmo di musica
nei circhi sono il risultato di tecniche di ammaestramento crudelissime. Un percorso che ha
sempre il suo prologo con un rapimento, la sottrazione forzata di questi animali dai loro
luoghi di origine con l'inevitabile uccisione di molti esemplari e la morte accidentale di
tanti altri. Una sottomissione che prosegue poi con metodi per indebolire la volontà degli
animali prigionieri. Con la privazione di acqua e cibo, con gli ordini impartiti alle povere
bestie percosse con fruste, bastoni e ferri roventi. Non hanno difficoltà ad ammetterlo gli
stessi circensi, i "domatori" secondo cui la libertà e la bellezza della natura
sono sacrificabili al gusto di un addomesticamento forzato.
TOPI CHE RIDONO E MAIALI CHE PROVANO NOSTALGIA
Chiunque abbia un animale sa perfettamente a cosa ci si riferisce quando si parla dei loro sentimenti e delle loro emozioni; conosce l'imbarazzante capacità del proprio cane di immensamente gioire per ogni ritorno quotidiano del suo compagno umano rimasto lontano solo per poche ore come quella di farsi invadere dall'angoscia con crisi di inappetenza al solo vedere ricomparire valigie che risvegliano il ricordo di separazioni inaccettabilmente prolungate; distingue il miagolio di protesta da quello di pigra soddisfazione del micio di famiglia; addirittura si accorge quando gli scatti del suo pesce nell'acquario testimoniano inquietudine e nervosismo o invece, sinuosi e lenti, lo rivelano appagato e tranquillo.
Insomma, la conoscenza e la familiarità, mediati dall'affetto, consentono di prendere atto dell'esistenza articolata di un mondo interiore degli altri animali, fatto per altro già evidenziato alla metà del 1800 da Darwin, che aveva riconosciuto che essi provano emozioni di tutti i tipi: sono gelosi e nostalgici, sentono simpatie ed antipatie, sanno divertirsi e desiderano giocare.
domenica 30 giugno 2013
IL TOPO FABRIZIO
Siccome non c'è niente di nuovo sotto
il sole, ma corsi e ricorsi storici, dejavu stancamente si ripetono, la recente polemica del richiamo dell'onorevole Calderoli all'orango, alla vista del ministro Kienge, richiama alla mente pari pari la campagna (2010) della
Confederazione Elvetica contro gli
stranieri che rubano il posto di lavoro a chi è nato sul suolo patrio: si intitolava
BALAIRATT, ballano i topi, e l'immagine di tre topastri veniva usata per incarnare lo sporco spregevole che
sempre viene da fuori, dalle altrui fogne: la soluzione? Ovvio: derattizzare.
Di tutto si può accusare questa
campagna tranne che di originalità: l’altro, il diverso, lo straniero, e poi
piano piano a seguire il nemico, quello da cui guardarsi e quello da eliminare,
ha le fattezze di un animale. Il meccanismo è funzionale ad accentuare le
differenze: tanto maggiori queste sono, tanto più forte è l’identificazione con
il proprio gruppo di appartenenza, che
spesso non ha altri elementi di coesione se non la distanza da altri.
Tali metafore divampano
soprattutto nel corso delle guerre, quando i freni inibitori di qualsiasi tipo
collassano, e la necessità di sollecitare aggressività e violenza diventa
fondamentale, ma non sempre facile, dal momento che il nemico è identificato come
tale dalla classe al potere, ma non da chi deve andare a ucciderlo.
SBATTI LA CARNE IN PRIMA PAGINA
Se
uno dei quotidiani più diffusi mette sulla copertina del suo inserto
l’immagine di tre grossi pezzi di carne rossa con striature di grasso
sotto il titolo "Carne al TOP", la tipologia stessa dell’immagine, più
adatta alla vetrina di una macelleria che ad un settimanale, qualche
riflessione la impone.
Il piatto è ghiotto, per restare in tema,
ed è bene individuare gli ingredienti. Che i media, con il loro potere
culturale, sociale, politico ed economico, non mostrino aperture alla
difesa del mondo animale è cosa nota e spiegabile: lo sfruttamento
animale nelle sue variegate forme dà lavoro e/o arricchisce un infinito
numero di persone, allevatori, aziende, commercianti, ricercatori, case
farmaceutiche. Ce ne è quanto basta per uno schieramento senza se e
senza ma dalla parte "giusta", quella che nega, rimuove, svilisce la
sofferenza degli animali. Ma loro sono ubiquitari nelle nostre vite,
necessari, irrinunciabili. I media, che non lo
ignorano, si
occupano solo di alcuni e solo in determinati contesti: non vi è
giornale che non dedichi spazi inteneriti a vicende di cani in attesa
del proprio padrone scomparso o alla vecchia signora che spende la
pensione per nutrire i gatti; il veterinario dice la sua su come
evitasre la carie al coniglietto e tutti sanno quanto funziona la
pet-therapy.
Contestualmente un pietosissimo velo di silenzio è
steso sul non politicamente corretto, cioè sui tragici costi pagati
dagli animali all’alimentazione "normale", basata sul consumo di carne:
la pubblicità è pervasiva, ma attenta a scindere nelle parole e nelle
immagini il prodotto finito dalla sua origine: troppo sensibile ormai
gran parte dei consumatori che mangiano di gusto, ma si ribellano al
ricordare l’origine di tante prelibatezze. Decantare il tonno in scatola
non è rischioso, perché, poveretto, pressato com’è nella scatoletta,
non reca traccia della sua morte cruenta e crudelissima. Così noi, anime
belle del mondocivilizzato, ad eccezione di un po’ di machi che
come sport praticano la caccia, di tanti vivisettori che si esercitano
in quella che autorevoli riviste scientifiche hanno definito "cattiva
scienza", di tanti operatori che fanno in prima persona il lavoro sporco
e, con le parole di Coetzee, hanno avvolto la loro anima nel carapece,
pur sostenendo con il nostro stile alimentare il massacro degli animali,
abbiamo eliminato dal nostro repertorio mentale i riferimenti al loro
olocausto: davvero una nuova sensibilità si è andata instaurando, grazie
ad una progressiva eliminazione di spettacoli di violenza, crudeltà,
accanimento brutale, alla cui esposizione si deve un processo di
spegnimento della pietà.
PERCHE' MANGIAMO CARNE
L'analisi psicologica di ANNAMARIA MANZONI nell'intervista di Elena Bernabè, www.eticamente.net
All'interno
del suo libro, "Noi abbiamo un sogno", vi è un'analisi psicologica
illuminante riguardo le motivazioni che spingono le persone a mangiare
carne: ce le può riassumere brevemente?
Il discorso è articolato e complesso e poco adatto ad una sintesi che inevitabilmente trascura elementi importanti. In ogni caso,focalizzando il problema della violenza sugli animali non umani sul “mangiar carne”, si va diritti al cuore della questione perché grandissima parte di tale violenza non è agita da persone sadiche e malvagie, ma è consentita e supportata da quelle “normali”, per bene, che con il proprio stile di vita, la propria alimentazione , il proprio modo di vestire sono la causa del martirio quotidiano di uno sconfinato numero di loro.
Se fare fronte e contrastare l’aggressività può essere compito complesso, ma per il quale nel corso del tempo sono stati approntati strumenti, frutto di molti approfondimenti sulla sua eziologia, più complicato è occuparsi di quella banalità del male, di cui il mangiar carne è chiaro esempio, che proprio in quanto banale viene accettata nella sua pretesa normalità, senza nemmeno essere riconosciuta come male.
Da sottolineare quanto la psicologia sia ancora oggi omissiva al riguardo: le ragioni vanno ricercate, io credo, nel fatto che coloro che dovrebbero essere gli studiosi di questo fenomeno sono in genere essi stessi oggetto dello studio che dovrebbero condurre. In altri termini: gli psicologi, meglio: noi psicologi siamo parte del problema esattamente come lo sono tutte le altre persone, quando non riconosciamo come prodotto di prepotenza e predominio il mangiare gli animali, nonostante il corollario di schiavizzazione e uccisione che ciò comporta, non mettiamo a fuoco la situazione , non ci rendiamo conto della tragedia quotidiana in atto, rispetto alla quale dovremmo sentirci chiamati a intervenire per cercare di decodificarla, dal momento che, per formazione e professione, possediamo , o dovremmo possedere, gli strumenti per farlo. Per altro tutte le forme di violenza legittima intraspecifica, vale a dire all’interno della specie umana, (si pensi alla pena di morte, alle punizioni fisiche sui bambini…) sono davvero poco studiate, in se stesse e nelle loro conseguenze, se non in modo indiretto, come per esempio con l’interpretazione degli studi di Milgram sulla obbedienza distruttiva; esattamente come succede per quanto riguarda la violenza legittima interspecifica, quella contro gli altri animali.
Di fatto sono molti i meccanismi che consentono il perpetuarsi dell’attuale stato di cose, permettendo di non riconoscere il male, per legalizzato che sia, insito nel nostro rapporto con gli altri animali: si tratta di meccanismi inconsci, definiti di difesa proprio in quanto assolvono il compito di proteggerci dall’angoscia che potrebbe esplodere se la realtà in atto venisse riconosciuta. In primo luogo non si può prescindere dal nostro essere totalmente immersi in una cultura antropocentrica, per cui il concetto stesso di animale è svilito e identificato non con quello di essere vivente, sofferente e senziente, ma con quello di entità che è di fatto reificata, ridotta allo stato di cosa. Solo questa rappresentazione dell’animale permette per esempio che la gente possa tranquillamente accordarsi per “andare a mangiare il pesce”, oppure organizzi gioiose grigliate o celebri con soddisfazione piatti stagionali come lenticchie con zampone o polenta con capriolo. I termini sono scollegati dall’animale che sono, le vittime indifese non sono neppure pensate, non vivono nemmeno nell’immaginario, non possiedono esistenza propria. Si pensi a quell’immagine tanto spesso pubblicizzata, in cui la sagoma di una mucca è divisa in parti corrispondenti ad altrettanti “pezzi” destinati a variegati trattamenti culinari: l’essenza stessa dell’animale è negata in favore della sua riduzione a cibo. Tradizioni filosofiche e convincimenti religiosi teorizzano la liceità di tutto ciò: agli animali non umani ancora oggi non è stata attribuito il possesso dell’anima, e questo basta alla scellerata giustificazione di ogni male contro di loro: per attribuirla alle donne sono state necessarie lunghissime riflessioni (da parte degli uomini), per gli schiavi è stato più complicato ancora. La cinica osservazione che tenere categorie di esseri viventi in condizioni di inferiorità procura enormi vantaggi a chi detiene il potere non rende ottimisti sul tempo necessario a che una salutare rivisitazione del nostro rapporto con gli animali dia loro la dignità che loro neghiamo, siano o meno contenitori di quell’anima che pare essere il salvacondotto per ogni attribuzione di dignità.
A questa imprescindibile cornice cognitiva, entro la quale ci poniamo come razza padrona di altre specie, si affiancano molte altre dinamiche. Un forte ruolo lo giocano la dittatura della consuetudine, la pervasività stessa del fenomeno che induce a delle non scelte: l’abitudine si riproduce e si propaga nelle nostre vite inducendoci a reiterare gesti e comportamenti senza che emerga il bisogno di interrogarci al proposito. E così si continua a mangiare ciò che si è sempre mangiato. E’ tra l’altro provato che, non solo dal punto di vista psicologico ma anche da quello fisiologico, esiste un adattamento positivo ai gusti e ai sapori a cui da sempre siamo assuefatti: per rendersene conto, basta il confronto quotidiano con tanta variegata immigrazione, che ci mostra come le persone portino con sè dai loro paesi d’origine consuetudini alimentari, da cui tendono a non staccarsi, non solo per proteggere un filo di continuità con un passato e un luogo pregno di affetti, ma perché i loro stessi sensi, il gusto, l’olfatto si sono programmati ad apprezzarli. Allo stesso modo staccarsi da una pratica alimentare in cui i prodotti di origine animale sono potentemente presenti (e questa, nel mondo occidentale, è la norma nell’educazione dei bambini) richiede una scelta a fronte della sua perpetuazione che procede “in automatico”, tanto più semplice perchè frutto di inerzia. Quando nuove consapevolezze, a cui è davvero impossibile sottrarsi, inducono a prendere atto della realtà di indicibile dolore che questo comporta, altri meccanismi arrivano in salvataggio dal rischio di sperimentare intollerabili sensi di colpa: il fatto che si tratti di un’abitudine del tutto condivisa, ubiquitaria, “normale” induce a non assumere il senso della propria responsabilità, talmente parcellizzata da risultare incorporea. Per altro il percorso che porta la carne in tavola è facile da ignorare: non conservando traccia visibile e percepibile dell’animale da cui proviene, la gran parte dei cibi cucinati facilita marcatamente i meccanismi salvifici di rimozione e di negazione: il salame si è materializzato lì sul bancone del supermercato, il tonno è sempre stato nella scatoletta e se un passato è riconosciuto al pollo è al massimo quello del tempo trascorso nel forno. E così possono essere i bambini stessi, nel mondo pubblicitario, gli sponsor di questi “prodotti”, bambini che con tanta facilità sono indotti ad ignorare il dietro le quinte di tutto ciò, bambini rispetto ai quali gli adulti compiono dei veri disastri nel trasformare quella che è la loro naturale attrazione affettiva verso gli animali in quell’appiattimento sullo status quo, che passa dalla negazione del problema alla sua progressiva accettazione attraverso un processo di desensibilizzazione.
Non si può dimenticare come le società, le culture si preoccupino delle propria sopravvivenza riproponendo valori sempre uguali a se stessi: l’educazione, la scuola trasmettono riferimenti che perpetuano l’esistente e sostengono come valore quello dell’obbedienza, dell’adattamento alle norme. Disobbedire, cambiare lo stato delle cose, ribaltare le abitudini, sconvolgere le convinzioni richiede invece la capacità di dare corso al proprio sentire anche quando questo segue direzione contraria al sentire dei più, richiede fiducia in sé stessi e nei propri pensieri, richiede il coraggio dell’essere contro.
Il pensiero divergente deve sempre difendersi dagli attacchi del conformismo, che si serve di innumerevoli strumenti per affermare se stesso: chiunque si occupi di difesa attiva degli altri animali , per esempio, ha inevitabilmente dovuto fare i conti con il “confronto vantaggioso”, si è in altri termini sentito obbligato a giustificarsi davanti all’accusa che ben altri sono i problemi del mondo che meritano dispiegamento di energie, le guerre e la fame, le donne violentate e i bambini sfruttati: ma l’ingiustizia in qualunque luogo è una minaccia per l’ingiustizia in qualunque altro luogo, diceva Martin Luther King in tempi in cui l’utopia sembrava essere ad un passo dalla realtà. E Che Guevara esortava ad essere sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia contro chiunque, in qualunque parte del mondo. Quei chiunque sono sempre e dovunque anche e soprattutto gli animali non umani, tanto disconosciuti come vittime; purtroppo, ed è amarissima considerazione , anche chi della difesa dei deboli sembra fare ragione di vita oggi sembra ignorarlo.
Non va dimenticata poi la mistificazione della realtà, quella sorta di etichettamento eufemistico che ci parla di mucche felici (di vedersi sottratto il vitellino appena nato, che viene allontanato urlante e disperato), che ci mostra maialini danzanti ( per essere stati evirati,amputati appena nati di denti e coda), che definisce la caccia “buona” (perché stermina a pallettoni animali in sovrappiù per il gioioso piacere di uomini – e donne!- in assetto di guerra), di macellazione umanitaria (ma gli ossimori sono per definizione termini incompatibili tra di loro):il mondo non sarebbe quel disastro che è se venissero usati termini corretti per descrivere la realtà, dice Tom Regan in “Gabbie vuote”. Purtroppo non chiediamo di meglio che sentirci rassicurati: così accettiamo con sollievo la mistificazione della realtà, la negazione di ciò che risulta insopportabile: bisognerebbe invece ricordare che , come dice il filosofo Galimberti, la negazione è la prima radice, la più profonda dell’immoralità collettiva: perché il rifiuto a riconoscere le grandi ingiustizie evita la reazione che potrebbe avere luogo se venissero riconosciute. Molti dei grandi massacri della storia non avrebbero forse potuto essere portati a termine se non fossero rimasti inerti coloro che avrebbero potuto intervenire.
Il discorso si complica con tante altre considerazioni che vanno a includere il tema della violenza che non può essere distinta a seconda di chi ne è l’oggetto: perché un link indissolubile, a livello sia di responsabilità che di conseguente sofferenza, lega quella esercitata contro chiunque: uomini, donne, bambini, animali. Invece ci nutriamo di affermazioni generali (“la violenza è da rifiutare”) , i comandamenti sono assoluti (“non uccidere” ), ma poi è insito nelle convinzioni che gigantesche eccezioni possono serenamente essere elevate al rango di norma: sui bambini la violenza, che è il vero nome delle punizioni fisiche, è considerata ancora oggi educativa anche in alcuni paesi del mondo occidentale, come se i bambini non fossero persone, i più deboli tra le persone; e uccidere gli animali non umani non è peccato.
2- Secondo lei è possibile cambiare questa mentalità "carnivora"? se si in che modo?
A questa domanda credo si possa rispondere solo richiamando il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo del cuore: la realtà è devastante e il compito di cambiarla ciclopico, perché, diceva Saramago, premio Nobel per la letteratura, questo mondo è sbagliato, non imperfetto: sbagliato.
Quali siano i modi più utili per fare la propria parte nell’incidere sull’esistente è difficile stabilirlo; sono comunque tanti e ognuno di essi contiene la possibilità di modificare lo stato di cose. E’ in circolazione in rete un filmato spagnolo, che mostra l’ operatore di un reparto macelleria che, dopo avere offerto ai clienti assaggi di pasticci di carne, molto apprezzati, chiede loro se vogliano la salsiccia fresca da cucinare e, al loro assenso, si china a raccogliere da un cesta un maialino vivo, lì insieme ai suoi fratellini, che lui infila in una macchina tritacarne da cui escono salsicce già belle pronte. Si tratta, inutile dirlo, di finzione perché il maialino viene in realtà messo in salvo tra le braccia di una ragazza, ma ciò che vedono i clienti non lo lascia supporre: interessante la reazione dei clienti, che guardano quello che il macellaio va facendo dapprima stupiti poi costernati: cercano di fermarlo, lo coprono di insulti :nessuno accetta più di acquistare quello che prima era parso un prodotto prelibato. Il filmato rende evidente l’ ignoranza e la disinformazione che avvolgono il mondo dello sfruttamento animale, inverosimile in epoca di internet, ma reale: persino persone di ottima cultura, di certo non escluse dall’accesso all’informazione, spesso si meravigliano per esempio di venire a sapere che il latte che bevono è quello sottratto al vitello, quasi le mucche lo producessero in automatico, essendo “animali da latte”. Dato lo stato delle cose, sollevare il velo sulle nefandezze è necessario, come lo è una corretta controinformazione sulla percorribilità del veganesimo senza rischi per la salute.
Ma, al di là delle singole strategie, il discorso vero è quello della necessità di un rivolgimento esistenziale, filosofico, di pensiero che rimetta in gioco dalle fondamenta il nostro modo di essere: la cultura che può opporsi all’attuale stato di cose è la cultura della solidarietà, dell’ empatia, della comprensione dell’altro, tutti valori che non possono fermarsi sul confine di specie, che è un confine fittizio, ma devono inglobare nel proprio orizzonte etico tutti gli esseri viventi. Una cultura consapevole che le relazioni devono essere costruite sulla collaborazione e non sull’antagonismo, sulla cooperazione e non sulla prevaricazione. Una cultura che riesca a vedere gli animali non umani come, con le parole di Henry Beston “altri universi captati insieme a noi, nella rete della vita e del tempo; nostri compagni di prigionia nello splendore e nel travaglio di questa terra”. E che si giochi sulla grande partita che ha inizio dall’educazione dei bambini, che deve essere prima di tutto educazione alla non violenza e al rispetto, e si propaghi poi in ogni piega della società in cui amplissimi mezzi per ingenerare il cambiamento di certo sono appannaggio di chi detiene il potere: ma non potendo avere soverchie illusioni al proposito, dal momento che tanto spesso il medico è esso stesso parte della malattia, è necessario recuperare la consapevolezza della possibilità di ognuno di poter incidere in modo impensato sulla realtà. Non bisogna dimenticare che “l’ingiustizia è negligenza individuale”, che sulla scena del crimine, oltre a carnefice e vittima , c’è un terzo personaggio che è lo spettatore, da cui tanta parte del finale dipende. Allora è fondamentale, se spettatori siamo, non essere silenziosi, diventare noi il cambiamento, agire contro ogni infamia, recuperando il senso di vicinanza con tutte le forme di vita, anche attraverso la disubbidienza alle leggi degli uomini, nel rispetto di un’etica che arriva in luoghi pacificati, che tali leggi, oggi, non sanno nemmeno immaginare.
3- Psicologia e vegetarismo: quale delle due ha dato inizio al suo libro?
E’ stata la convinzione che gli altri animali, quelli non umani, non sono esclusi dall’interesse psicologico: vivono in numero enorme all’interno delle relazioni con la loro presenza, anche quando non riconosciuti perché ridotti a cibo: è inaccettabile relegarli, come facciamo con l’eccezione dei cosiddetti animali da compagnia, allo stato di silenzio e di invisibilità. Se è vero che ogni esperienza incide su di noi, sul nostro modo di essere, modificando persino la nostra realtà cerebrale, è fondamentale prendere atto del ruolo degli altri animali nelle nostre vite, prendere atto di loro anche come oggetti di studio, oltre che, e questo viene al primo posto, di stupita fascinazione, se solo si ha voglia di guardarli nell’incredibile ricchezza delle loro vite
Per quanto mi riguarda, posso solo dire che da sempre conosco i nomi di Firpo, Ras, Laika, cani vissuti molto prima che io nascessi e che la memoria di mio padre mi ha consegnato con tanta dolcezza, negli aneddoti della sua infanzia molte volte ripetuti, da farli entrare nel mio mondo psichico : che di persone e di animali è popolato .
Il discorso è articolato e complesso e poco adatto ad una sintesi che inevitabilmente trascura elementi importanti. In ogni caso,focalizzando il problema della violenza sugli animali non umani sul “mangiar carne”, si va diritti al cuore della questione perché grandissima parte di tale violenza non è agita da persone sadiche e malvagie, ma è consentita e supportata da quelle “normali”, per bene, che con il proprio stile di vita, la propria alimentazione , il proprio modo di vestire sono la causa del martirio quotidiano di uno sconfinato numero di loro.
Se fare fronte e contrastare l’aggressività può essere compito complesso, ma per il quale nel corso del tempo sono stati approntati strumenti, frutto di molti approfondimenti sulla sua eziologia, più complicato è occuparsi di quella banalità del male, di cui il mangiar carne è chiaro esempio, che proprio in quanto banale viene accettata nella sua pretesa normalità, senza nemmeno essere riconosciuta come male.
Da sottolineare quanto la psicologia sia ancora oggi omissiva al riguardo: le ragioni vanno ricercate, io credo, nel fatto che coloro che dovrebbero essere gli studiosi di questo fenomeno sono in genere essi stessi oggetto dello studio che dovrebbero condurre. In altri termini: gli psicologi, meglio: noi psicologi siamo parte del problema esattamente come lo sono tutte le altre persone, quando non riconosciamo come prodotto di prepotenza e predominio il mangiare gli animali, nonostante il corollario di schiavizzazione e uccisione che ciò comporta, non mettiamo a fuoco la situazione , non ci rendiamo conto della tragedia quotidiana in atto, rispetto alla quale dovremmo sentirci chiamati a intervenire per cercare di decodificarla, dal momento che, per formazione e professione, possediamo , o dovremmo possedere, gli strumenti per farlo. Per altro tutte le forme di violenza legittima intraspecifica, vale a dire all’interno della specie umana, (si pensi alla pena di morte, alle punizioni fisiche sui bambini…) sono davvero poco studiate, in se stesse e nelle loro conseguenze, se non in modo indiretto, come per esempio con l’interpretazione degli studi di Milgram sulla obbedienza distruttiva; esattamente come succede per quanto riguarda la violenza legittima interspecifica, quella contro gli altri animali.
Di fatto sono molti i meccanismi che consentono il perpetuarsi dell’attuale stato di cose, permettendo di non riconoscere il male, per legalizzato che sia, insito nel nostro rapporto con gli altri animali: si tratta di meccanismi inconsci, definiti di difesa proprio in quanto assolvono il compito di proteggerci dall’angoscia che potrebbe esplodere se la realtà in atto venisse riconosciuta. In primo luogo non si può prescindere dal nostro essere totalmente immersi in una cultura antropocentrica, per cui il concetto stesso di animale è svilito e identificato non con quello di essere vivente, sofferente e senziente, ma con quello di entità che è di fatto reificata, ridotta allo stato di cosa. Solo questa rappresentazione dell’animale permette per esempio che la gente possa tranquillamente accordarsi per “andare a mangiare il pesce”, oppure organizzi gioiose grigliate o celebri con soddisfazione piatti stagionali come lenticchie con zampone o polenta con capriolo. I termini sono scollegati dall’animale che sono, le vittime indifese non sono neppure pensate, non vivono nemmeno nell’immaginario, non possiedono esistenza propria. Si pensi a quell’immagine tanto spesso pubblicizzata, in cui la sagoma di una mucca è divisa in parti corrispondenti ad altrettanti “pezzi” destinati a variegati trattamenti culinari: l’essenza stessa dell’animale è negata in favore della sua riduzione a cibo. Tradizioni filosofiche e convincimenti religiosi teorizzano la liceità di tutto ciò: agli animali non umani ancora oggi non è stata attribuito il possesso dell’anima, e questo basta alla scellerata giustificazione di ogni male contro di loro: per attribuirla alle donne sono state necessarie lunghissime riflessioni (da parte degli uomini), per gli schiavi è stato più complicato ancora. La cinica osservazione che tenere categorie di esseri viventi in condizioni di inferiorità procura enormi vantaggi a chi detiene il potere non rende ottimisti sul tempo necessario a che una salutare rivisitazione del nostro rapporto con gli animali dia loro la dignità che loro neghiamo, siano o meno contenitori di quell’anima che pare essere il salvacondotto per ogni attribuzione di dignità.
A questa imprescindibile cornice cognitiva, entro la quale ci poniamo come razza padrona di altre specie, si affiancano molte altre dinamiche. Un forte ruolo lo giocano la dittatura della consuetudine, la pervasività stessa del fenomeno che induce a delle non scelte: l’abitudine si riproduce e si propaga nelle nostre vite inducendoci a reiterare gesti e comportamenti senza che emerga il bisogno di interrogarci al proposito. E così si continua a mangiare ciò che si è sempre mangiato. E’ tra l’altro provato che, non solo dal punto di vista psicologico ma anche da quello fisiologico, esiste un adattamento positivo ai gusti e ai sapori a cui da sempre siamo assuefatti: per rendersene conto, basta il confronto quotidiano con tanta variegata immigrazione, che ci mostra come le persone portino con sè dai loro paesi d’origine consuetudini alimentari, da cui tendono a non staccarsi, non solo per proteggere un filo di continuità con un passato e un luogo pregno di affetti, ma perché i loro stessi sensi, il gusto, l’olfatto si sono programmati ad apprezzarli. Allo stesso modo staccarsi da una pratica alimentare in cui i prodotti di origine animale sono potentemente presenti (e questa, nel mondo occidentale, è la norma nell’educazione dei bambini) richiede una scelta a fronte della sua perpetuazione che procede “in automatico”, tanto più semplice perchè frutto di inerzia. Quando nuove consapevolezze, a cui è davvero impossibile sottrarsi, inducono a prendere atto della realtà di indicibile dolore che questo comporta, altri meccanismi arrivano in salvataggio dal rischio di sperimentare intollerabili sensi di colpa: il fatto che si tratti di un’abitudine del tutto condivisa, ubiquitaria, “normale” induce a non assumere il senso della propria responsabilità, talmente parcellizzata da risultare incorporea. Per altro il percorso che porta la carne in tavola è facile da ignorare: non conservando traccia visibile e percepibile dell’animale da cui proviene, la gran parte dei cibi cucinati facilita marcatamente i meccanismi salvifici di rimozione e di negazione: il salame si è materializzato lì sul bancone del supermercato, il tonno è sempre stato nella scatoletta e se un passato è riconosciuto al pollo è al massimo quello del tempo trascorso nel forno. E così possono essere i bambini stessi, nel mondo pubblicitario, gli sponsor di questi “prodotti”, bambini che con tanta facilità sono indotti ad ignorare il dietro le quinte di tutto ciò, bambini rispetto ai quali gli adulti compiono dei veri disastri nel trasformare quella che è la loro naturale attrazione affettiva verso gli animali in quell’appiattimento sullo status quo, che passa dalla negazione del problema alla sua progressiva accettazione attraverso un processo di desensibilizzazione.
Non si può dimenticare come le società, le culture si preoccupino delle propria sopravvivenza riproponendo valori sempre uguali a se stessi: l’educazione, la scuola trasmettono riferimenti che perpetuano l’esistente e sostengono come valore quello dell’obbedienza, dell’adattamento alle norme. Disobbedire, cambiare lo stato delle cose, ribaltare le abitudini, sconvolgere le convinzioni richiede invece la capacità di dare corso al proprio sentire anche quando questo segue direzione contraria al sentire dei più, richiede fiducia in sé stessi e nei propri pensieri, richiede il coraggio dell’essere contro.
Il pensiero divergente deve sempre difendersi dagli attacchi del conformismo, che si serve di innumerevoli strumenti per affermare se stesso: chiunque si occupi di difesa attiva degli altri animali , per esempio, ha inevitabilmente dovuto fare i conti con il “confronto vantaggioso”, si è in altri termini sentito obbligato a giustificarsi davanti all’accusa che ben altri sono i problemi del mondo che meritano dispiegamento di energie, le guerre e la fame, le donne violentate e i bambini sfruttati: ma l’ingiustizia in qualunque luogo è una minaccia per l’ingiustizia in qualunque altro luogo, diceva Martin Luther King in tempi in cui l’utopia sembrava essere ad un passo dalla realtà. E Che Guevara esortava ad essere sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia contro chiunque, in qualunque parte del mondo. Quei chiunque sono sempre e dovunque anche e soprattutto gli animali non umani, tanto disconosciuti come vittime; purtroppo, ed è amarissima considerazione , anche chi della difesa dei deboli sembra fare ragione di vita oggi sembra ignorarlo.
Non va dimenticata poi la mistificazione della realtà, quella sorta di etichettamento eufemistico che ci parla di mucche felici (di vedersi sottratto il vitellino appena nato, che viene allontanato urlante e disperato), che ci mostra maialini danzanti ( per essere stati evirati,amputati appena nati di denti e coda), che definisce la caccia “buona” (perché stermina a pallettoni animali in sovrappiù per il gioioso piacere di uomini – e donne!- in assetto di guerra), di macellazione umanitaria (ma gli ossimori sono per definizione termini incompatibili tra di loro):il mondo non sarebbe quel disastro che è se venissero usati termini corretti per descrivere la realtà, dice Tom Regan in “Gabbie vuote”. Purtroppo non chiediamo di meglio che sentirci rassicurati: così accettiamo con sollievo la mistificazione della realtà, la negazione di ciò che risulta insopportabile: bisognerebbe invece ricordare che , come dice il filosofo Galimberti, la negazione è la prima radice, la più profonda dell’immoralità collettiva: perché il rifiuto a riconoscere le grandi ingiustizie evita la reazione che potrebbe avere luogo se venissero riconosciute. Molti dei grandi massacri della storia non avrebbero forse potuto essere portati a termine se non fossero rimasti inerti coloro che avrebbero potuto intervenire.
Il discorso si complica con tante altre considerazioni che vanno a includere il tema della violenza che non può essere distinta a seconda di chi ne è l’oggetto: perché un link indissolubile, a livello sia di responsabilità che di conseguente sofferenza, lega quella esercitata contro chiunque: uomini, donne, bambini, animali. Invece ci nutriamo di affermazioni generali (“la violenza è da rifiutare”) , i comandamenti sono assoluti (“non uccidere” ), ma poi è insito nelle convinzioni che gigantesche eccezioni possono serenamente essere elevate al rango di norma: sui bambini la violenza, che è il vero nome delle punizioni fisiche, è considerata ancora oggi educativa anche in alcuni paesi del mondo occidentale, come se i bambini non fossero persone, i più deboli tra le persone; e uccidere gli animali non umani non è peccato.
2- Secondo lei è possibile cambiare questa mentalità "carnivora"? se si in che modo?
A questa domanda credo si possa rispondere solo richiamando il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo del cuore: la realtà è devastante e il compito di cambiarla ciclopico, perché, diceva Saramago, premio Nobel per la letteratura, questo mondo è sbagliato, non imperfetto: sbagliato.
Quali siano i modi più utili per fare la propria parte nell’incidere sull’esistente è difficile stabilirlo; sono comunque tanti e ognuno di essi contiene la possibilità di modificare lo stato di cose. E’ in circolazione in rete un filmato spagnolo, che mostra l’ operatore di un reparto macelleria che, dopo avere offerto ai clienti assaggi di pasticci di carne, molto apprezzati, chiede loro se vogliano la salsiccia fresca da cucinare e, al loro assenso, si china a raccogliere da un cesta un maialino vivo, lì insieme ai suoi fratellini, che lui infila in una macchina tritacarne da cui escono salsicce già belle pronte. Si tratta, inutile dirlo, di finzione perché il maialino viene in realtà messo in salvo tra le braccia di una ragazza, ma ciò che vedono i clienti non lo lascia supporre: interessante la reazione dei clienti, che guardano quello che il macellaio va facendo dapprima stupiti poi costernati: cercano di fermarlo, lo coprono di insulti :nessuno accetta più di acquistare quello che prima era parso un prodotto prelibato. Il filmato rende evidente l’ ignoranza e la disinformazione che avvolgono il mondo dello sfruttamento animale, inverosimile in epoca di internet, ma reale: persino persone di ottima cultura, di certo non escluse dall’accesso all’informazione, spesso si meravigliano per esempio di venire a sapere che il latte che bevono è quello sottratto al vitello, quasi le mucche lo producessero in automatico, essendo “animali da latte”. Dato lo stato delle cose, sollevare il velo sulle nefandezze è necessario, come lo è una corretta controinformazione sulla percorribilità del veganesimo senza rischi per la salute.
Ma, al di là delle singole strategie, il discorso vero è quello della necessità di un rivolgimento esistenziale, filosofico, di pensiero che rimetta in gioco dalle fondamenta il nostro modo di essere: la cultura che può opporsi all’attuale stato di cose è la cultura della solidarietà, dell’ empatia, della comprensione dell’altro, tutti valori che non possono fermarsi sul confine di specie, che è un confine fittizio, ma devono inglobare nel proprio orizzonte etico tutti gli esseri viventi. Una cultura consapevole che le relazioni devono essere costruite sulla collaborazione e non sull’antagonismo, sulla cooperazione e non sulla prevaricazione. Una cultura che riesca a vedere gli animali non umani come, con le parole di Henry Beston “altri universi captati insieme a noi, nella rete della vita e del tempo; nostri compagni di prigionia nello splendore e nel travaglio di questa terra”. E che si giochi sulla grande partita che ha inizio dall’educazione dei bambini, che deve essere prima di tutto educazione alla non violenza e al rispetto, e si propaghi poi in ogni piega della società in cui amplissimi mezzi per ingenerare il cambiamento di certo sono appannaggio di chi detiene il potere: ma non potendo avere soverchie illusioni al proposito, dal momento che tanto spesso il medico è esso stesso parte della malattia, è necessario recuperare la consapevolezza della possibilità di ognuno di poter incidere in modo impensato sulla realtà. Non bisogna dimenticare che “l’ingiustizia è negligenza individuale”, che sulla scena del crimine, oltre a carnefice e vittima , c’è un terzo personaggio che è lo spettatore, da cui tanta parte del finale dipende. Allora è fondamentale, se spettatori siamo, non essere silenziosi, diventare noi il cambiamento, agire contro ogni infamia, recuperando il senso di vicinanza con tutte le forme di vita, anche attraverso la disubbidienza alle leggi degli uomini, nel rispetto di un’etica che arriva in luoghi pacificati, che tali leggi, oggi, non sanno nemmeno immaginare.
3- Psicologia e vegetarismo: quale delle due ha dato inizio al suo libro?
E’ stata la convinzione che gli altri animali, quelli non umani, non sono esclusi dall’interesse psicologico: vivono in numero enorme all’interno delle relazioni con la loro presenza, anche quando non riconosciuti perché ridotti a cibo: è inaccettabile relegarli, come facciamo con l’eccezione dei cosiddetti animali da compagnia, allo stato di silenzio e di invisibilità. Se è vero che ogni esperienza incide su di noi, sul nostro modo di essere, modificando persino la nostra realtà cerebrale, è fondamentale prendere atto del ruolo degli altri animali nelle nostre vite, prendere atto di loro anche come oggetti di studio, oltre che, e questo viene al primo posto, di stupita fascinazione, se solo si ha voglia di guardarli nell’incredibile ricchezza delle loro vite
Per quanto mi riguarda, posso solo dire che da sempre conosco i nomi di Firpo, Ras, Laika, cani vissuti molto prima che io nascessi e che la memoria di mio padre mi ha consegnato con tanta dolcezza, negli aneddoti della sua infanzia molte volte ripetuti, da farli entrare nel mio mondo psichico : che di persone e di animali è popolato .
venerdì 21 giugno 2013
ZOOSAFARI
Di certo uno zoosafari non è uno
zoo: non ci son gabbie, gli animali non vanno avanti e indietro con movimenti
stereotipati che manifestino la loro sofferenza; non si incrociano gli sguardi
immobili di quelli che sembrano avere abdicato persino ai desideri ed hanno
smesso di lottare per una irraggiungibile libertà.
Eppure, anche se quelli che vi
sono portati a vivere non sono assoggettati alle peggiori limitazioni, tante
cose non appaiono condivisibili in
questi luoghi, in cui di naturale non si trova nulla. Il fatto è che qui la loro
presenza è finalizzata a fungere da merce, da attrazione per futuri potenziali
visitatori, grandi e soprattutto piccoli;
in uno spazio delimitato vengono immessi animali di specie diversificate, i più svariati, a seconda
delle decisioni e delle convenienze del proprietario, che li fa nascere a
questo preciso scopo e abitare luoghi che
sono lontanissimi e diversi da quelli d’origine; qui devono restare in una
sorta di arca di Noè allargata in cui molte sono le specie che devono essere
rappresentate e possibilmente tenute in condizioni che ne favoriscano la riproduzione,
ma senza esagerare.
La grande maggioranza degli animali che popolano
gli zoosafari, quando si trovano nei luoghi dove sarebbero deputati a vivere se
lasciati in santa pace, conducono un’esistenza sociale complessa, in gruppi
speciespecificamente organizzati in cui esistono relazioni parentali, di coppia,
amicali; in cui gli anziani svolgono un ruolo importante per i più giovani; in
cui i piccoli crescono con l’apporto di tanti diversi adulti in ruoli
differenti. La vita e la morte lì seguono altri ritmi, sono estremamente composite, affascinanti e
tragiche al tempo stesso, perché passano attraverso la lotta per la
sopravvivenza, la difficoltà delle condizioni naturali, le differenze marcate
dalla propria forza o dalla propria debolezza. Di tutto ciò uno zoosafari non
può certo dare conto, imbrigliate come sono le esistenze degli animali lì trattenuti;
è scontato che le condizioni originarie non possono essere fittiziamente
riprodotte, e di conseguenza ogni intento conoscitivo è destinato ad abortire
sul nascere; meglio ancora: non è neppure perseguito, perchè l’unico vero scopo è miniaturizzare contesti di vita ben lontani
dall’originale, secondo le leggi di un
mercato teso a fornire non conoscenza, ma superficiale divertimento. Non è edificante lo spettacolo di macchine e
pullman che attraversano questi spazi sputacchiando i loro gas di scarico; lo è
ancor meno quello di vocianti ragazzini che, tra un panino e l’altro, allungano
ogni tipo di junk food a quelli tra gli animali che, proprio come loro, dovrebbero invece poter contare su
scelte alimentari sensate.
giovedì 20 giugno 2013
SAGRA "DEI OSEI"
SPETTACOLO VIETATO AI
MINORI
L’empatia è la capacità di
mettersi nei panni degli altri, di sentire in una sorta di risonanza interna
quello che l’altro sente: è facoltà formidabile perché dà la possibilità di
prendere atto di qualche cosa che sta succedendo ad un altro, indipendentemente
da un’analisi critica e razionale, per la quale si possono non avere adeguate
competenze, e di fornire un tipo di conoscenza completa, perché immette nel
mondo delle emozioni e dei sentimenti, che sono parte imprescindibile della
possibilità di capire.
Gli studi al proposito, proprio
in virtù dell’enorme importanza che essa riveste a livello personale e
relazionale, procedono incessantemente: la più recente scoperta a cui hanno
condotto, in Giappone, è che bimbi di 10 mesi (esatto: di dieci mesi!) sono in grado non solo di cogliere nessi di
causalità tra diverse azioni, ma addirittura, in situazioni adeguatamente
strutturate, di esprimere preferenza e tifo per chi rappresenta la vittima
rispetto a chi è tormentatore: in altri
termini le radici primigenie dell’empatia e del senso di giustizia sarebbero
precocissime, inscritte nella nostra natura biologica.
L’informazione è tale da
modificare in senso vagamente ottimistico l’idea svilita e mortificata di noi
stessi e dell’umanità in generale di fronte al disastro ben visibile intorno a
noi e a noi del tutto imputabile. Accanto alle ottime considerazioni che ci
consentono di pensare ( illuderci?) che, stando così le cose, forse non tutto è
perduto, che c’è ancora spazio per tentare un riscatto dal male profondo che
popola questo nostro mondo, l’informazione comporta anche una doverosa presa
d’atto della responsabilità che abbiamo verso le nuove generazioni che, biologicamente
in grado di rendere il mondo un posto migliore di quello che è, possono d’altro
canto a causa nostra divenire bersagli di input tali da invertire malauguratamente la rotta.
Anche la sagra dei osei in questa
dinamica fa la sua parte, parte che sarebbe ingiusto sottovalutare. Questa, come
tutte le sagre, è anche luogo di ritrovo e di festa dove portare i bambini, che
ne costituiscono di conseguenza pubblico privilegiato. Mettiamoci allora per un
po’ dal loro punto di vista, usando quell’empatia di cui anche noi adulti, per
quanto deteriorati possiamo essere, non possiamo non conservare traccia: cosa vedono i loro occhi? Vedono
“osei”, alias uccelli, uccellini, volatili di ogni specie, grandezza e tipo
chiusi dentro gabbie; gabbie numerose, l’una sopra all’altra e l’una di fianco
all’altra, a formare un enorme reticolato che separa la vita articolata e ricca
del di fuori dalla coercizione e dai limiti del di dentro. Vedono animali variamente stipati, a volte immobili, a volte soggetti
a stereotipati nervosi movimenti del
capino; vedono bestioline ferite e
lasciate lì; altre che si indovinano collassate dal caldo; altre ancora che
sbattono infinite volte contro il metallo delle gabbie. Vedono una realtà fatta di reclusione, imprigionamento, isolamento dal
contesto naturale; di impossibilità a fare quello che gli uccelli per
definizione fanno: volare, che è di
certo cosa buona e bella, tanto che noi
umani gliela invidiamo e in mille modi cerchiamo artificiosamente di
riproporla, pur non essendo certo stati attrezzati dalla natura a farlo. E
invece no, a loro non glielo facciamo fare: sole, luce, rami da raggiungere,
giochi a rincorrersi, amoreggiare e litigare nell’aria, tutto rigorosamente
vietato a tutto vantaggio di una stolida carcerazione di loro che sono detenuti
senza colpa. Magari vedono, i bambini, anche
un prezzo esposto sulla gabbia, tanto per fugare ogni dubbio: noi gli uccelli
li vendiamo e li comperiamo, li rinchiudiamo e li spostiamo dove vogliamo.
SAGRA DI SACILE
TRADIZIONI SENZA VALORE
“..Nella caccia non vedo che un
atto inumano e sanguinario, degno di uomini che conducono una vita senza
coscienza, che non si armonizza con la civiltà e col grado di sviluppo , a cui
noi ci crediamo arrivati. Basta immaginare la condotta dell’uomo durante la
caccia per convincersi che, lasciando libero il passo ai suoi peggiori istinti,
egli compie atti che, al solo pensarvi lo farebbero arrossire in altre
situazioni. La sopraffazione, la perfidia,le trappole, l’imboscata, l’assalto
di molti a uno solo, del forte contro il debole, il ratto dei piccini ai
genitori e viceversa, sono altrettanti atti vili per se stessi…. compiuti
apertamente durante la caccia”: si può
proseguire parlando di costante suicidio morale perseguito dai cacciatori, dell’assenza
di pietà, della gioia crudele di provocare dolore. Sono solo alcune delle
espressioni usate nel 1891 da Leone Tolstoj , che la caccia ben la conosceva
per averla praticata prima che una salutare riflessione lo inducesse ad
allontanarsene per sempre con il rimorso per quello che non aveva capito prima.
La connotazione della caccia come attività crudele e incivile è oggi nel nostro paese estremamente diffusa,
tanto che i cacciatori sono oggi una
minoranza del tutto esigua, non più di 7/800 mila: una progressiva consapevolezza ha indotto un
numero sempre crescente di persone non solo a non praticarla in prima persona,
ma ad esprimerne una secca e definitiva
condanna. Incredibilmente una classe politica sorda alle istanze dei cittadini
di cui dovrebbe essere l’espressione e intrepretare la volontà è succube e
prona di una minoranza aggressiva e astorica. Di conseguenza è necessario
ancora mobilitarsi per far valere i
propri diritti di cittadini, ma ancora di più di tutti quegli animali, senza
diritti e senza voce, che ne sono le
vittime incolpevoli.
Su questa scia si situa la sagra
degli osei, celebrata con orgoglio a Sacile, provincia di Pordenone, che mette
in mostra ogni 2 di agosto migliaia di “uccelli da richiamo”: espressione già
di per sé latrice di una realtà di sopraffazione e inganno: già perché questi
uccelli , privati della libertà, rinchiusi in gabbie anguste, obbligati a
spezzare il proprio volo contro le sbarre che incontrano cercando un sud, che è
iscritto nei loro geni, nei periodi di
migrazione, devono servire a loro insaputa e loro malgrado a richiamare con un
canto, che è di desiderio, altri uccelli, e così portarli giusto giusto sulla traiettoria dei
pallettoni dei cacciatori, di quelle persone, cioè, bardate come per la guerra,
armate fino ai denti, pronte ad atterrare con immane prova di coraggio esseri
di pochi grammi, incantati nel loro volo dalle lusinghe inconsapevoli di altre
vittime.
Non credo occorrano commenti: la
realtà di prepotenza, sopraffazione, crudeltà e cinismo è talmente evidente che
ogni parola suonerebbe superflua. Vale allora solo la pena di fare poche
riflessioni sull’orgoglio esibito dai cittadini di Sacile, che celebrano con
soddisfazione quella chiamano festa
della natura con migliaia di uccelli
rinchiusi in gabbie piccole e sovraffollate: il tutto per , vantare la tradizione, che 738 anni di storia non hanno
scalfitto.
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