E’ recente la cronaca fiorentina del cavallo che ha cercato una via d’uscita dal giogo a cui era costretto: si è ribellato ed è fuggito nelle strade e fin nella loggia dei Mercanti, creando scompiglio e sconcerto intorno.
E’ stato bravo quel cavallo perché, buttando all’aria furiosamente la botticella (carrozzella? Fiacchera?), ha scosso l’indifferenza nei suoi confronti dei passanti, lì a Firenze: come già era successo in seguito alla morte di un suo conspecifico, stramazzato sotto il sole nei giardini della reggia di Caserta, o allo svenimento di altri per caldo e fatica nelle trafficate strade romane o nei roventi viali palermitani. Ogni volta si sono registrate le reazioni di chi chiede che si ponga finalmente fine all’anacronistico uso di animali per trasportare persone, reazioni ben tollerate dalle autorità, fiduciose in un rapido esaurirsi della rabbia e in un altrettanto veloce ritorno alla normalità, senza ricadute a livello legislativo: sdegnatevi pure, tanto nulla cambia. Di fatto, ad oggi il parlamento si è ben guardato dal legiferare al proposito e le amministrazioni locali si dividono tra quelle del tutto disinteressate alla cosa e quelle che, pur più disponibili, appaiono giuridicamente impossibilitate a proibirne l’uso.
A fronte del numero non grande di animali coinvolti, grande è invece il significato di quella che è una lunga tradizione di sfruttamento: oltre al dolore di ogni singolo soggetto, è l’esposizione della sottomissione di esseri indifesi a costituire scandalo morale. I cavalli sono aggiogati e chiusi tra due sbarre, lo sguardo è limitato dai paraocchi, la bocca è ostruita dal morso, i movimenti del collo sono governati dalle redini; l’impossibilità di muovere un passo, tra una corsa e l’altra, è assoluta; il carico da portare, ad un trotto più o meno sostenuto, può essere pesante, ma anche pesantissimo. In altri termini, si tratta del ritratto vivente di schiavi, la cui sottomissione è malcelata sotto pennacchi colorati e accessori leziosi, ulteriori oltraggi alla loro animalità.
L’abituale indifferenza dei passanti, che non degnano di uno sguardo quelli che sono veri e propri monumenti alla prevaricazione di chi è forte su chi è (reso) debole, è il risultato pericoloso dell’assuefazione allo stato delle cose e della mistificazione in atto: si guarda l’immagine dolente di un animale ridotto in schiavitù e si vede un elemento pittoresco del panorama urbano, delizia dei turisti e gioia dei bambini, che gli animali li amano tanto e apprezzano lo scampanellare gioioso che accompagna il rumore degli zoccoli sul selciato: di certo, piace loro crederlo, quei cavalli sono felici di farsi letteralmente carico della stanchezza o della pigrizia altrui, quasi si trattasse di una propensione naturale, di libera scelta. Proprio come le mucche, così contente di offrirci il latte, sottratto ai loro figli mandati al macello.
Una riflessione si impone: l’attribuzione di falsi significati, la narrazione fuorviante dello stato delle cose è uno strumento potente di alterazione della conoscenza, in grado di sdoganare come piacevole, normale, naturale ciò che è invece prepotenza, sfruttamento, crudeltà. Il sistema di valori intorno, la cosiddetta cultura, il marchio di legalità plasmano il pensiero e deresponsabilizzano.
E’ infinita l’attesa che la politica assolva i suoi mandati e prenda atto, buon ultima, che ormai anche la scienza, non solo la sensibilità individuale, riconosce agli animali capacità di sentire desideri, dolore, gioia, e che ciò implicherebbe il dovere da parte nostra di agire in modo conseguente, vale a dire rispettandoli nei loro bisogni, fisici ed emotivi. L’immobilismo da contrastare è però anche quello degli altri attori sulla scena: sono gli utenti, i turisti, tutti quelli che quei cavalli aggiogati li usano, come fossero taxi a motore sempre acceso, e, consapevoli o meno che siano, sono di fatto gli utilizzatori finali dello sfruttamento in atto, che, in assenza del loro apporto, non potrebbe che avere termine. Il principio a cui attenersi è semplice: non tutto ciò che è legale è civile, è etico, è giusto. Anzi.
Il cavallo fiorentino, ribelle come già era stata Tornasol, rifiutatasi in mondovisione di correre il palio a Siena, ci ha gettato in faccia il suo dolore e la sua esasperazione: la risposta non può essere ancora e sempre una reazione di breve stupore da far precipitare nell’oblio ancora prima che la botticella sia rimessa in sesto. Se non sappiamo reagire alla sonnolenta normalità del male, facciamoci almeno scuotere dall’audacia di chi osa andare contro e usciamo da quella indifferenza, che cronicizza tanta parte della sofferenza che ci circonda.