“Hai solo cinque anni”- dice Franco Marcoaldi al suo cane- “ma penso di
continuo alla tua morte.” E lui ribatte ”Con
tutto quello che possiamo fare: rincorrerci, annusarci, baciarci con la lingua,
giocare con i gatti, cacciare le
lucertole, mangiare. Dai retta a me, padrone mio, pensa di meno a te e
asseconda il vento. Svuotato l’io, sarai
pieno di vita: importa poco se per un anno, dieci o cento”(Animali in versi). Già: la
fa facile il cane: ma come lo svuotiamo l’IO da tutti i suoi fantasmi, come
facciamo a vivere un presente incontaminato? No, noi anche quando giochiamo e
ridiamo, il vento non lo assecondiamo proprio: ci lottiamo contro, proviamo a contrastare il
tempo che lui ci porta, restando in
compagnia di quella angoscia che è paura senza oggetto, paura
dell’ineluttabile, di dover sapere che tutto questo finirà: perché, dopo, la morte arriva di sicuro.
venerdì 13 dicembre 2013
giovedì 5 dicembre 2013
RISPOSTE ARTICOLATE A TRE DOMANDE SEMPLICI: perché amiamo i cani, mangiamo i maiali, indossiamo le mucche.
di Annamaria Manzoni
“Non ci sono domande più
pressanti delle domande ingenue” dice Wistawa Szymborska. E “Perché amiamo i
cani, mangiamo i maiali, indossiamo le mucche”, le tre domande che Melanie Joy
si pone (e pone a titolo del suo libro-Sonda 2012), sono essenziali
nella loro capacità di andare dritte al cuore del problema.
Sui motivi per cui amiamo i cani non
ci sono problemi: siamo in grado di rispondere in modo eccitato, perché vengono
toccate nostre corde scoperte e diventiamo subito incontenibili nel fornire
motivazioni che attengono alle doti di fedeltà, intelligenza, amorevolezza che
i nostri animali preferiti, ne siamo certi,
posseggono, e su cui non abbiamo neppure un dubbio che qualche ruolo lo
giochi la proiezione. Che se anche
fosse, del resto, che importa? Va bene così.
Sono gli altri due interrogativi a provocare
in genere più di un momento di latenza,
necessario a riordinare le idee per andare a cercare argomentazioni, davvero
faticose, a sostegno di ciò che appare talmente ovvio da farci giudicare le
domande irragionevoli, provocatorie nella misura in cui sollecitano spiegazioni
su ciò che non ne contempla. Proprio qui risiede il fulcro delle articolate
argomentazioni di Melanie Joy: nel non potere, le risposte a queste
domande, essere trovate se non all’interno di una spiegazione tautologica riferita al fatto che la ragione ultima e
vera del nostro nutrirci e servirci degli animali si trova semplicemente nella considerazione che non
esiste nessuna ragione se non quella, disarmante, che semplicemente le cose
stanno così. Nel fatto, cioè, che
siamo talmente immersi in una cultura che, in fatto di rapporto con gli animali,
stabilisce regole di riferimento basate sul loro regolare, continuo, scontato
sfruttamento, che , pure educati come siamo a mettere in discussione in modo
disincantato ogni comportamento, tanto da sottoporre a una ruminazione dubbiosa
persino le ragioni della scelta del dentifricio al supermercato, non ci poniamo
domande davanti al piatto di carne che consumiamo, e ci asteniamo da riflessioni
sulla sua origine ed essenza, che pure vanno a confliggere con realtà immense per grandezza, importanza,
implicita violenza e sofferenza.
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