Pubblicato su Comune-info, 22 marzo 2022
C’è l’Ucraina delle persone comuni, coloro che da anni vivono in una
condizione fortemente precaria e difficile. Ci sono tanti bambini e
bambine, ma anche ragazzi e ragazze che vivono negli orfanotrofi. Poi ci
sono giovani come Igor, che all’uscita dall’orfanotrofio ha trovato
aperta una strada solo, arruolarsi nell’esercito ed essere ucciso nel
Donbass. Infine ci sono donne e uomini migranti che ogni tanto ritornano
nel paese. Fermi immagine di una full immersion, datata 2019,
da diverse località dell’Ucraina, luoghi dai quali oggi arrivano notizie
di persone in fila per il pane, di ospedali pediatrici bombardati, di
infiniti allarmi antiaereo, di milioni di persone in fuga senza più
nulla.
Sono 550 i kilometri che si
percorrono da Kiev da Kherson. Si lascia
una città ben poco diversa da tante altre sparse in Europa: peculiari sono
chiese e munumenti, esposizioni di foto che richiamano le sofferenze e gli
eroismi di battaglie e rivolte recenti, mentre l’umanità che popola le strade gode
(o soffre) dell’omologazione dilagante: i giovani sono uniformati da una moda che pare obbligata, con
tanto di auricolari alle orecchie; nella grande piazza Maidan, che è il cuore
pulsante della città, uno sfavillio di acque che si innalzano e scendono raccoglie
intorno bambini, famiglie, coppie. Il ricordo della storia anche drammatica,
vicina nel tempo, sembra sopito,
conservato tutto negli opuscoli informativi, ma pronto a riesplodere come la
tragedia dei giorni nostri dimostra. Prima,
è facile non pensarci: a sera l’aria estiva è dolce e la voglia di
normalità diffusa ovunque. I bar sono tanti, si mangiano panini per strada e,
qua e là, l’offerta anche culinaria è ampia, con tanto di incredibili scelte
vegane, che parlano di imprevista attenzione: ai turisti? Alla gente del posto?
Agli animali e all’ambiente? Non lo so, ma conforta. Le acque del Dniepr
attraversano ampie la città: tranquille, consueto polo di attrazione con le sensazioni
primordiali che ogni corso d’acqua non manca di sollecitare.
Per andare a Kherson, dove io
sono diretta, si può prendere un aereo, ma non è male l’idea di attraversare con un autobus un pezzo di
Ukraina: chi lo sa che non ci si possa trovare immersi in quella suggestione
visiva di grano, di girasoli, di campagna infinita che accompagna l’immaginario
stesso di questo grande paese: immaginario che mezzo secolo fa il film I girasoli
alimentava, richiamando, a cominciare dal titolo, campi sterminati di fiori
gialli, ondeggianti, a proteggere per sempre i corpi delle decine di migliaia
di soldati italiani, vittime dell’orrore della seconda guerra mondiale. Fino ad
arrivare a Ogni cosa è illuminata, e
al viaggio di Jonathan Safran Foer nel paese e nella storia dei suoi nonni, storia
familiare struggente di ricordi e rimpianti, alla ricerca di Augustine, la
donna che aveva salvato il nonno ebreo dallo sterminio nazista e aveva messo
umana pietà e forse amore al di sopra delle ragioni (e dei torti) di ogni
stato.
Per prendere l’autobus bisogna raggiungere
la periferia della città e mischiarsi con la varia umanità che formicola
all’interno e nei pressi della stazione, odorosa di ogni frittura e
indiscutibilmente maleodorante. Il pulmino locale è piccolo: la sicurezza dei
posti prenotati può essere mantenuta solo a suon di gomitate, che mi vedono
inesorabilmente perdente; l’aria
condizionata assicurata all’acquisto del biglietto è in realtà una
provvidenziale apertura in alto, tra le pareti del mezzo e il tettuccio. Ma
l’elemento di sicuro più …suggestivo è la temeraria guida di un autista che,
del tutto indifferente ad ogni elementare principio di prudenza, affronta la
strada, a tratti dissestata, ad acceleratore schiacciato: ogni curva provoca uno
scostamento violento destra/sinistra dei passeggeri. Io impatto ripetutamente
contro i vicini di sedile, che per altro si affannano ad assicurarmi che siamo
nelle mani di un autista molto esperto.
Vicini di viaggio con i quali è
facile entrare in contatto, vista l’imprevisto annullamento delle distanze fisiche,
ma vista anche l’inevitabile curiosità solleticata da una improbabile presenza straniera, la mia: che ci fa lei qui? Che questa è roba da ukraini. Ed è facile incrociarsi con spicchi di mondo altro: il signore anziano
alla mia sinistra è un muratore, dal viso segnato e rassegnato, che parla di
fatica e sacrifici: lui è emigrato in Polonia per provare a sopravvivere ed è di
ritorno per poco tempo per rivedere figlia e nipotini.
Del ragazzo possente alla mia destra, capace di
un ottimo inglese, vengo invece a sapere che è un combattente del Donbass:
parla della difesa del suo paese e del bisogno di giustizia contro la prevaricazione
russa con foga, con una convinzione che annulla ogni paura e un orgoglio che esonda
da ogni parola e gesto mentre mi mostra sul cellulare la foto di lui e dei suoi
compagni in divisa militare, sorridenti e decisi. Percepisco una distanza
abissale rispetto al nostro mondo, dove
gli ideali di una giustizia da difendere a prezzo della vita, propria e altrui,
appartengono se mai ad altre generazioni, spazzati via da decenni di una
cultura che ha tolto diritto di cittadinanza all’idea stessa di guerra: perché
la vita non è sui tank, nelle marce sfiancanti, nelle mutilazioni e nelle morti
oscene: la vita è altrove. Ripenso oggi
a quell’incontro: e posso solo immaginare come davanti al massacro in atto il
senso di appartenenza alla grande
comunità ukraina sia riesploso.
A lui ho risposto con poche frasi
infarcite del pacifismo che è la mia cifra. Come lo è di tanta parte delle
persone che vivono nei nostri paesi: ma non riesco a sentirmi a mio agio. Lo
sarei se, accanto all’dea tossica e
nefasta di guerra, ci fossimo contestualmente liberati come di un vestito in fiamme della costante e
proficua produzione di armi: noi, gente comune, di tempo ne abbiamo dedicato davvero troppo poco a
riflettere sulla nostra realtà di grandi produttori di armi, tanto grandi da piazzare
la nostra pacifista Italia, quella che ripudia la guerra come strumento di
risoluzione delle contese, al nono posto
nella top ten (ultimo rapporto SIPRI, Stocholm Internationa Peace Research
Institute) degli esportatori che non hanno sospeso né diminuito la propria
attività neppure durante l’emergenza coronavirus. Mentre ogni mass media ci
informava a tempo pieno su come proteggerci dalla devastazione di un
terrificante virus, invisibile ad occhio nudo, il nostro governo, il nostro
parlamento, le industrie sparse sul nostro territorio non hanno smesso un solo
giorno di produrre altri strumenti di morte: destinandoli però a paesi
lontani dal nostro, dalla cronaca e dai riflettori, ben al di fuori della
gittata delle stesse armi; tanto lontano da consentirci di preservare una
salvifica illusione di innocenza. Che si sta sfaldando nel report dei 350
autoblindati Lince venduti a Mosca dall’italiana Iveco e che fronteggeranno ora
altre armi italiane queste però consegnate all’Ukraina. L’italiana Leonardo, ex
Finmeccanica, nel 2019 è risultata essere la 12esima produttrice al mondo (ancora dati SIPRI) : qualcuno queste armi le
dovrà pure comperare e poi anche usare.
Ce lo aveva spiegato così bene
quello che ha continuato ad essere considerato un comico, quell’Alberto Sordi
che nel 1974 ci aveva avvertito che Finchè c’è guerra c’è speranza. Ne
abbiamo preso atto e non ci abbiamo pensato più: hanno continuato a pensarci
per noi politici e industriali. Non posso fare a meno di fare queste considerazioni
oggi, mentre ripenso al giovane ukraino che quello in cui credeva era pronto a
difenderlo pagando sulla e con la
propria pelle, a fronte dei grandi del mondo a cui gli ideali (altrui) servono solo a produrre ricchezza in
proprio. E non posso fare a meno di chiedermi se sia ancora vivo, mentre
arrivano notizie di giovani e
giovanissimi uomini e donne, fino a ieri artisti, geni della matematica,
sportivi di fama, gente comune, operai, studenti, contadini, che non hanno
esitazioni a pagare con la vita la solidarietà con il proprio popolo offeso e
ferito. Magari imbracciando armi che nemmeno sanno usare; cercando di
soccorrere gente in fuga senza meta; restando uccisi mentre portano cibo in
canili abbandonati per provare a pagare in prima persona anche il debito di
generosità che la specie umana conserva nei confronti degli altri animali, e
vanno a soccorrere
quelli che la follia umana ha prima schiavizzato e ora lascia a morire
di fame e di terrore.
Non ho incrociato distese di
grano né di girasoli nel mio breve viaggio: ma i frammenti di vita che mi hanno
sfiorato si sono saldamente insinuati nel fondo della mia mente, dove
continuano ad agitarsi.
A Kherson, che è la meta del mio viaggio, arrivo a sera:
ampia pacifica cittadina al mio arrivo, ora, lo so, una poltiglia di macerie e disperazione:
allora, una vita fa, ma era solo l’estate del 2019, quieta e un po’ sonnolenta,
anche lei cullata dalle anse del Dniepr nel suo percorso verso il Mar Nero.
Vasti viali e un centro che pullula di gente: una donna, con il
fazzoletto sulla testa, il viso cotto dal sole e gli occhi azzurro immenso è
presenza costante all’angolo di una strada: il suo cane è sempre sdraiato
vicino a lei, che è lì a vendere sigarette: le vende ai giovani militari e ai passanti, una o al massimo due a ognuno per
pochissimi grivni, qualche centesimo
di euro. Quando chiedo di comprarle un
pacchetto intero, convinta di abbreviare la sua giornata di lavoro, cozzo
contro un testardo rifiuto, di cui proprio non capisco la ragione, ma è lei che
gestisce la trattativa e non mi resta che accontentarmi delle due sigarette che
mi destina. Irrazionalità senile la sua? Solo un automatismo incorreggibile? Senso
di giustizia oltre ogni dire per cui ogni bene va diligentemente diviso?
Non lo so: mi adeguo e me ne vado con il mio esiguo bottino, che è in
grado comunque di allargare il sorriso di un uomo a cui lo consegno, pochi
passi più in là. Di certo, al di là dell’immediatamente percepibile, arrivano
da ogni dove segnali della condizione generale di vita, così precaria e
difficile, nonostante le strade larghe, che danno respiro, e le tante piccole case costruite in proprio, che possono
contare su spazi verdi intorno.
E’ qui che si trova una grande
scuola che anche varie associazioni italiane hanno nel tempo contribuito a
sistemare. Fino a poco tempo fa si chiamava orfanotrofio, col tempo ha
cominciato ad ospitare nei dormitori, accanto a bambini e ragazzi privi di
qualsiasi riferimento familiare, anche altri che un parente ce l’hanno: spesso
si tratta di una nonna, unica persona che supplisce a genitori scomparsi:
alcool, emigrazione, violenza spesso falcidiano le famiglie e solo le persone più
anziane sembrano avere la determinazione e la generosità per provare a
preservare un brandello di vita possibile ai loro nipoti. Ma la difficoltà a trovare
cibo per ogni pasto le induce a vedere nell’istituto una possibile alternativa:
almeno lì si mangia.
Il posto è grande, ristrutturato,
accogliente: ma , dopo il tramonto
l’atmosfera è quella di ogni istituto: finite le attività che riempiono il
tempo di vita e di rumori, tanti bambini e ragazzi, maschi e femmine, nelle camerate e nei corridoi hanno imparato a
contare su se stessi per scambiarsi compagnia, a volte accudimento e affetto,
altre solo indifferenza: perché è già tanto complicato pensare a se stessi
quando si è così piccoli e di affetto se ne è conosciuto talmente poco da non
essere in grado di distribuirlo ad altri.
Ex ospiti dell’istituto, ora
adulti, raccontano le regole del posto e le storie personali. Quando compiono i
18 anni, i ragazzi non possono più essere ospitati e devono arrangiarsi, per
conto loro, nei casi migliori con l’ausilio di borse di studio che consentono a
qualcuno di proseguire con gli studi; ad andarsene precocemente sono a volte le
ragazze che, giovanissime, restano incinte: vengono allontanate forse per
evitare la diffusione di “modelli” di vita che sarebbero pericolosi all’interno
della comunità, con fenomeni di imitazione; e comunque la presenza dei neonati in
arrivo non troverebbe un ambiente strutturato in modo adeguato. Alcune storie
di vita sono davvero “troppo”: Olga, che
in questi giorni è qui solo in visita, dall’istituto se ne è andata un paio di
anni fa: c’era entrata molto piccola insieme alla sorellina e ad un fratello quando
si sono trovati senza il padre, accoltellato a morte dalla madre stanca di
soprusi impuniti e leì sì punita con il carcere. Una volta uscita, la madre
inizia una nuova relazione e nasce un altro bambino; come “in un libro scritto
male” si ammala e muore e anche il quarto figlio entra in istituto. Quando Olga
diventa maggiorenne, secondo una norma a noi estranea, deve firmare per
acconsentire alla sua adozione. Lo fa, ma la ferita di tutte queste separazioni
è una cancrena: si adopera in favore della sorella, prestissimo divenuta madre
anche lei, prende le distanze dal fratello più grande che è già sulla scia di
un padre violento, e impara rapidamente l’arte di arrangiarsi in un mondo in
cui solo i più temprati sopravvivono: lei è di rara intelligenza, lucidissima a
cogliere le situazioni e ci prova a riscuotere i suoi crediti con la vita. La
partita è in corso.
Aleksandra è prova provata di
quanto l’accanimento a volte non trovi giustificazione: una vita in istituto
perché orfana, con l’enorme fortuna di un breve viaggio in Italia grazie
all’intervento di associazioni. Una volta adulta, uscita da poco
dall’orfanotrofio, è vittima di un incidente che la immobilizza per sempre su
una carrozzella.
Igor viene ricordato da chi lo ha
conosciuto per avere trovato l’unica strada aperta, all’uscita dall’istituto,
nell’arruolarsi nell’esercito e finire la sua breve vita disperata, ucciso nel Donbass.
Ogni viso, e sono tanti, una storia che vorrebbe essere raccontata,
degna però per tragedia e ingiustizia di ben altro che poche righe. Ma alcuni
fotogrammi dalla mente non se ne vanno proprio. Sono quelli di un istituto per
bambini piccolissimi, uno di quelli che fino a pochi anni fa, prima che le
norme divenissero più rigide, erano setacciati da potenziali genitori adottivi
provenienti da paesi occidentali, sedotti dall’incanto di quei visi e favoriti
da leggi comprensive. E’ un incredibile spettacolo quello che si apre nelle
stanze della struttura : i piccoli...piccolissimi, quelli che hanno meno di una
anno, sono chiusi uno per ogni lettino a
sbarre, ognuno unito all’altro sul lato più corto, sormontati da un secondo e un
terzo piano, vale a dire da altre file sovrapposte di lettini: l’impressione
stringe alla gola, mentre il personale non rivela alcun imbarazzo: lo spazio è questo: qualche idea
migliore? Gli altri bambini, un pochino più grandi, sono in un’ampia sala,
vestiti solo di un pannolone, ordinatamente seduti ai tavolini della merenda.
Ci guardano seri, paciocconi, con gli occhi interrogativi: nessuno piange,
nessuno fa richieste. Il silenzio è irreale, il tempo è sospeso, le domande si
affollano. Chi è già venuto più volte in questi posti sa che, alla diffusa richiesta
di medicinali necessari ai bambini, si deve rispondere evitando di lasciare soldi, che prenderebbero direzioni variegate, e
andando di persona a comperare i farmaci
da consegnare. Senza esagerate illusioni: perché anche i farmaci possono
diventare merce di scambio, quando i bisogni sono tanti e incombenti. Resta
doveroso astenersi da qualsiasi giudizio, che sia calato dall’alto del nostro
benessere.
Questi e tantissimi altri ancora
sono i fermi immagine di una breve full immersion in Ukraina: ora da quegli stessi luoghi arrivano notizie
di persone in fila per il pane falcidiate, di ospedali pediatrici bombardati,
di milioni di persone in fuga senza più nulla. Le comunità risultano occupate
da guarnigioni russe; i bambini più piccoli sono stati spostati in luoghi che
al momento non è dato conoscere, mentre i ragazzi un po’più grandi sono sparsi
ovunque, alla mercè di ogni pericolo. Ex ospiti delle comunità, emigrati nelle
nazioni vicine inseguendo sogni o solo sopravvivenza, stanno tornando nel loro
paese in grande numero per andare a combattere. C’è poco da mangiare e persino
cibi poveri quali le patate, fino a poche settimane fa alla portata di quasi
tutti, assurte nelle campagne a moneta
di baratto, sono diventati preziosi.
L’orologio della storia,
impazzito, sta girando in senso antiorario mentre ci si chiede quante poche ore siano bastate
per buttare all’aria decenni di fatiche e di speranze. Ci si chiede che ne è
oggi di quei bambini e che ne sarà di loro, nel caso in cui riuscissero a
diventare grandi: stanno provando sulla propria pelle le peggio manifestazioni di quella crudeltà umana, a
torto non inserita tra i sette peccati capitali, accanto alla stupidità come
ottavo, che sono la cifra della nostra specie. Loro sono tra gli ultimi
arrivati su questa terra, ma le precoci lezioni di prepotenza e prevaricazione
sono impartite con corsi accelerati. Fortunati coloro che, davanti allo sfacelo
del concetto stesso di umanità hanno qualcuno, nell’alto di qualche cielo, a cui chiedere perdono: magari si possono
illudere di ottenerlo.