L’orrida
cronaca che il presidente Trump ha fornito dell’uccisione di Al Baghdadi, infarcita
di un linguaggio adatto tutt’al più ad un machismo da film western anni ‘60, per
molti ma non per lui spazzato via dalla diversa narrazione che dell’epopea
western offrirono film cult quali “Il piccolo grande uomo” e “Soldato blu”,
ha cercato consensi anche in
un ostentato fiero omaggio al cane soldato,
autore del
“great job”, anzi autrice,
dal momento che hanno svelato trattarsi di una femmina. E così Conan, soldatessa
sotto copertura della Delta Force, lingua penzoloni e orecchie tese, viene
caricata di responsabilità non sue in imprese umane comunque la si veda ben
poco onorevoli. Il presidente deve avere avuto notizia
dell’amplificazione emotiva che sempre accompagna
la vista di un cane, stranamente non scalfitta nonostante la sua presenza nelle
nostre case sia estremamente comune. Nella eccitata impazienza comunicativa, il
presidente americano neppure si è accorto della propria schizofrenia,
denunciata
dall’uso dell’espressione
“ucciso come un cane”: da una parte orgogliosa ammirazione, dall’altra
disprezzo cronicizzato per i
nostri
amici, che contestualmente amici non appaiono più.
La
relazione con i cani, anche nel mondo occidentale, è tutt’altro che univoca:
siamo in tanti a considerarli nostri compagni di vita, ma anche di lavoro, di
impegno sociale e civile, come ci ricordano i luoghi che sono teatro di terremoti
o altri disastri, dove la loro presenza è fondamentale, dal momento che, pur in
un mondo tecnologicamente tanto avanzato, risultano insostituibili grazie al
loro olfatto e alla capacità ostinata di
tollerare addestramenti ed esercitazioni
estenuanti. Non si tirano mai indietro, tanto che non sono rare le cronache che
parlano di alcuni di loro morti per
stanchezza: sfiancati, pur di non disattendere gli ordini dei loro referenti, a
cui riservano obbedienza totale, abnegazione assoluta.