Foto Jo-Anne McArthur
La notizia, così come è data, è
una di quelle che allargano il cuore, almeno di coloro che negli immigrati non
vedono nemici da cui difendersi, ma
umani in difficoltà meritevoli di solidarietà : tre di loro hanno iniziato una
nuova vita, assunti da un imprenditore in un paesino della Calabria,
all’interno della Sila: fanno i macellai.
Si tratta di tre giovani
africani, arrivati da paesi dannati per violenza e povertà (Nigeria, Sierra
Leone, Guinea Bissau) con viaggi divenuti drammaticamente usuali, segnati dal
deserto e poi da anni di una prigionia fatta da torture irriferibili quale
unica cifra della relazione con i potenti e i prepotenti del luogo, e infine un
tutt’altro che scontato salvataggio in mare. L’assunzione ( a tempo
indeterminato !!!) è un epilogo insperato, del quale il datore di lavoro e i
suoi concittadini rivendicano orgogliosi
l’iniziativa generosa e i tre immigrati considerano una opportunità, che
riverbera sull’Italia e gli italiani sentimenti di apprezzamento e gratitudine.
Lieto fine quindi? Forse, ma
anche qualche riflessione un po’ più molesta, stimolata dall’associazione con realtà analoghe, più in grande stile, ma di
segno davvero simile, considerato che il lavoro di cui si parla contempla il
portare a termine “quasi tutto il ciclo
della produzione”: in altri termini, la macellazione degli animali. L’associazione
è con la notizia di un paio di anni fa, proveniente dal Canada, dove il ministro
federale dell’occupazione pensò di
assumere rifugiati siriani nei macelli della federazione, in risposta
alla non disponibilità dei cittadini
canadesi, pur afflitti da una crescente disoccupazione, ad accettare un lavoro basato
sull’uccidere animali e lavorare le loro carni. Per quanto riguarda l’assunzione
dei tre ragazzi, ci si chiede come mai, in una terra come la Calabria, gravata
da indici di disoccupazione alle
stelle, quei posti non risultassero già
occupati da cittadini italiani.