domenica 14 luglio 2024

NON SI UCCIDONO COSì GLI AGNELLI?

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Quanto accaduto negli ultimi giorni di giugno in un istituto tecnico agrario di Fabriano, nell’ambito alternanza scuola lavoro, costringe a ripensare l’idea di violenza, il concetto di stato e l’ipocrisia di tante scelte educative

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Ultimi giorni di giugno: a Fabriano, nell’ambito alternanza scuola lavoro, alcuni studenti dell’istituto tecnico agrario sono all’interno di un’azienda agraria, di proprietà della scuola stessa, dove si trovano animali cosiddetti da allevamento, nello specifico pecore. Alcuni dei ragazzi cominciano a divertirsi maltrattandole: uno in particolare calcia loro addosso un pallone, facendole fuggire spaventate: un agnellino però, troppo piccolo o troppo debole, non ce la fa a seguire il gruppo e resta indietro. Uno dei ragazzi non si lascia sfuggire l’occasione: lo afferra, lo lancia fuori dal recinto, lo riacciuffa, lo scaraventa di nuovo dentro, quasi fosse diventato lui il pallone: la bestiola riporta la paralisi di tutti e quattro gli arti e muore dopo tremenda agonia. Gli altri studenti, nella maggior parte minorenni, se ne guardano bene dall’intervenire e risulta che abbiano assistito divertiti allo scempio.

Alla notizia viene dato risalto sui media e la dirigente scolastica fa sapere che verranno presi adeguati provvedimenti disciplinari contestualmente alla denuncia alla polizia per maltrattamento e uccisione di animale.

Ovviamente lo sconcerto e la condanna sono generali: ci si chiede essenzialmente a cosa serva una scuola che non riesce a contrastare condotte così crudeli tanto che qualcuno arriva provocatoriamente ad auspicarne la chiusura, vista l’inettitudine educativa che l’episodio denuncia.

Di certo comportamenti tanto abnormi su un essere piccolo, inerme, spaventato devono interrogare su chi siano quei ragazzi e come e dove abbiano appreso insensibilità, sadismo, ferocia: auspicabile che, oltre alle punizioni, vengano iniziati percorsi di educazione al rispetto e all’empatia e anche ad una autoconsapevolezza, che porti in superficie quello che c’è di guasto nella loro psiche. Perché qualcosa di certo è andato male se si è qui a discutere di studenti trasformati in aguzzini, anche se con ruoli diversi nella dinamica di gruppo. Gruppo che, è facile pensare, può avere avuto un ruolo forte come attivatore di violenza, perché è probabile che il maggiore responsabile, fosse stato da solo, non avrebbe fatto quello che ha fatto: la presenza degli altri in questi casi, con una sorta di tifo fatto di lazzi e battute, sostiene sempre l’eccitazione e il desiderio di un protagonismo, che, quando non può contare su altre abilità, si accontenta di forme di bullismo a danno dei più deboli trasformando la colpa in vanto.

L’esercizio di violenza gratuita però, lungi dall’essere un disgrazia che irrompe inaspettatamente in contesti paradisiaci, se trova terreno fertile nel temperamento individuale, si nutre poi di modelli familiari, educazione, cultura, mass media, ambiente.

Di conseguenza, il banco degli imputati, da allestire nel processo contro i colpevoli di questo disastro comportamentale, se vuole davvero ospitare tutti i responsabili a voler ben guardare deve allargarsi a molti invitati di pietra.

A cominciare dal fatto che la scuola frequentata dai ragazzi, a quanto si legge (“Vengono approfondite le problematiche collegate all’organizzazione delle produzioni animali e vegetali, alle trasformazioni, alla commercializzazione dei relativi prodotti…”), avvia tra l’altro alla produzione animale e alla gestione degli allevamenti zootecnici. Vale a dire: all’interno dei percorsi di formazione gli animali non sono certo visti come compagni di vita e nemmeno come esseri da conoscere a fondo nel rispetto della loro etologia, bensì come produttori di cibo, che può essere ottenuto solo tramite adeguato sfruttamento e conclusiva uccisione. Quello stesso agnellino brutalmente assalito e ucciso, non avesse avuto la malasorte di impattare in ragazzi, forti solo del proprio numero e della propria protervia, avrebbe incontrato destino non tanto diverso a distanza di poche settimane: perché ciò che succede a quelli della sua specie è di finire afferrati per le zampe, trascinati lontano dalla madre, caricati su camion dove impazzire di paura per essere infine sgozzati in un delirio di sangue e di disperati belati in cerca di un’improbabile pietà. Perché è questa la fine che fanno gli agnelli come documentato da filmati alla portata di chiunque voglia informarsi, e come presumibilmente non ignorano i ragazzi che stanno seguendo un percorso di formazione che prevede tecniche di allevamento.

Ovvio che tutto questo non autorizza nessuno ad infliggere tormenti gratuiti per puro divertimento: si tratta di comportamenti che anche la legge contro i maltrattamenti punisce, in quanto crudeli e non necessari, anche se nessuno fino ad oggi si è assunto l’onere di definire con precisione quali sarebbero le condizioni che invece rendono i maltrattamenti necessari: il dubbio trattarsi di ossimoro incombe. In società satolle come la nostra, per quanto ci si pensi, la necessità parrebbe riferita (in modo francamente discutibile) solo al piacere del palato: insomma alla gola, per altro vizio che possiede il non invidiabile privilegio di essere inclusa tra i sette capitali.

Il problema è che lo status di quegli animali, appunto “da allevamento”, è quello di esseri al servizio di noi umani, che decidiamo quando farli nascere e quando e come farli morire, del tutto incuranti della dose devastante di sofferenza che questo percorso procura loro.

Non facilissimo pretendere da adolescenti l’accettazione acritica di comportamenti basati su una sorta di dissociazione cognitiva: tu li devi trattare bene e rispettare, poi fra un po’ interveniamo noi e facciamo, sotto l’egida della legalità, tutto quello che ora etichettiamo come turpe, sadico, e quindi sanzionabile.

Non bastasse tutto questo a definire la caotica convivenza di giusto e ingiusto nella vicenda di Fabriano, è interessante ricordare che a San Romualdo, frazione di Fabriano, le calde giornate agostane da 23 anni a questa parte (!) vengono allietate da una delle tante sagre estive, nello specifico, la Sagra dell’agnello, a uso e consumo di tanti cittadini e cittadine, che accorrono a festeggiare degnamente il clima vacanziero nonché le proprie papille gustative, allettati dalla pubblicità che assicura (manifesti in giro per la città lo scorso anno) aria fresca e divertimento, nonché Agnello in tutte le salse, in un gioco di espressioni dal doppio significato, opera di qualche creativo in difficoltà nel cogliere la differenza tra cinismo e spiritosaggine.

Il quadro che si delinea, mettendo in ordine le tessere del mosaico dei fatti, interroga davvero sulla compromissione dei ragionamenti, sulla illogicità delle convinzioni, sulla disarmonicità della visione d’insieme sulla realtà. Quei ragazzi, colpevoli dell’uccisione dell’agnellino, sono cresciuti e si sono formati vedendo gli adulti abbuffarsi serenamente di altri agnelli, giusto per godersi meglio giornate di festa; e seguono percorsi scolastici che prevedono anche come allevare animali che finiranno poi al mattatoio. Miracolosamente dovrebbero però considerare gli agnelli esseri da trattare con rispetto, ignorando le incongruenze e le spiegazioni, insite in messaggi incoerenti, e accettare la logica sottostante, quella implicita ma non detta, secondo cui la violenza è sanzionabile quando individuale, accettabile e indiscutibile quando è di stato, vale a dire quando è legalizzata.

Gli adulti sono bambini andati a male, ha detto qualcuno: forse vanno a male a causa dei puntuali attacchi alla loro empatia, che passa anche dal sistematico menefreghismo che viene sollecitato davanti alle tante forme di crudeltà inflitte ad altri, umani e nonumani, se pure a norma di legge.

Le riflessioni necessarie sui fatti di Fabriano, allora, nell’interrogare sulle responsabilità individuali e su quelle della scuola non possono prescindere dai modelli educativi e da quelli culturali e ambientali: è fuori di dubbio che soprattutto in questi ambiti maturano i germi di un’aggressività che, al suo esplodere, non lascerebbe basiti se solo ci fosse un po’ di consapevolezza in più, consapevolezza che una buona società è quella che esclude la violenza in tutte le sue forme e verso tutti gli esseri senzienti.

mercoledì 22 maggio 2024

CREPET, CLERICI, LOLLOBRIGIDA: TRA RIDICOLIZZAZIONE E FALSIFICAZIONE


Pubblicato su COMUNE-INFO, 6 MAGGIO 2024  - Foto Chuko Cribb su Unsplash

Mesi fa il prof. Paolo Crepet aveva fatto parlare di sé più del solito, immaginando  una seratina tutta sesso e rock and roll, che si sarebbe poi miseramente afflosciata a causa dei  gusti alimentari della giovane prescelta: “Inviti una ragazza a cena e questa mangia miglio… Ma che ci si fa con una così? L’amore? Ma a quella le viene in mente che dopo le vengono le occhiaie. Chissà che si inventa…Moriremo eleganti” . Era stato poi indotto a porgere pubbliche scuse, travolto da un fiume in piena di critiche che devono avergli suscitato più di qualche preoccupazione sulla sua apparentemente immarcescibile popolarità. Aveva quindi definito le sue stesse parole “Frase infelice sull’infelicità”, lasciando basito un pubblico incapace di capire di quale infelicità parlasse.

L’eco di tanta profondità intellettuale si era appena smorzata, quando Antonella Clerici, regina indiscussa di molte cucine italiane, è riuscita a riattivarla nel corso di un’intervista a Belve con Francesca Fagnani, sentenziando che «La tavola svela com'è un uomo a letto» e «Se ordina piatti magri sarà un macrobiotico anche sessualmente, uno spento che non va più in là della posizione del missionario». E ancora «Senza avere nulla contro, ma io con un vegano proprio no. Cosa te ne fai di un uomo che mangia l'insalatina? Che scarta il grasso dal prosciutto?»

Punto di vista maschile e punto di vista femminile che si incrociano e si sovrappongono, persino nell’uso di un identico linguaggio, Che ci si fa con una così? chiede lui. Cosa te ne fai di un uomo così? incalza lei : tanto da legittimare più di un sospetto  di una corrispondenza non casuale.  I drammatici interrogativi restano senza risposta,  ma certo non sono passati inosservati, grazie alla popolarità di cui entrambi godono, posizionati da decenni sui canali tv, l’uno snocciolando perle di sapienza su ogni comportamento umano, l’altra sorridendo ghiotta e sensuale davanti a qualsiasi cadavere animale in salsa succulenta, che lei pare non intravedere nemmeno, mimetizzato com’è tra intingoli e sughi vari.

Un gioco da ragazzi prendere  atto dello spessore culturale che induce a identificare macrobiotica e veganismo o a descrivere  un vegano come persona che mangia prosciutto dopo averlo ripulito del grasso (sic!). Bypassando queste chicche, entrambi i personaggi, nelle loro svagate  affermazioni, richiamano  all’antica credenza del binomio  cibo-sessualità, declinato in vulgata nazional popolare. «La tavola svela com'è un uomo a letto», insomma. Ma anche una donna.

Quindi,  gli alimenti avrebbero una forte connotazione sessuale: ci sono quelli da uomini forti e ci sono quelli da esseri leggiadri ed evanescenti. Gli stereotipi sono radicati  e la carne, soprattutto quella rossa, resta alimento icona dell’uomo macho, metafora di virilità: con il suo stesso aspetto, richiama l’uomo primitivo, quello che si procurava il cibo con la clava: quindi dal cavernicolo passando per il cacciatore moderno, anche lui invaso da un’attrazione fatale per le sue vittime insanguinate,  per arrivare all’uomo comune,  ad un modello virile a quanto pare ancora vivo e vegeto, di certo nella testa di Antonella Clerici: su uomini che mangiano insalatina (e prosciutto magro!) incomberebbe una sorta di castrazione metaforica, perchè  rinuncerebbero, insieme al consumo di carne, alla proprio identità virile.  Identità che, curiosamente, resiste invece all’invasione, nel mondo maschile, di profumi e deodoranti, gel e depilazioni. Ma tant’è: la coerenza latita nelle cose di questo mondo.

Il passo ulteriore compiuto dal  prof. Crepet è quello di avere esteso il disprezzo anche al veganismo femminile, a quelle  donne che, nel suo immaginario, si nutrono garbatamente di soia e affini, rafforzando  un’identità di genere fondata sulla debolezza. Quadro che però aborre perchè a quanto pare il dopo cena per risultare soddisfacente dovrebbe fornire ben altre performance: Con una così delicata che ci si fa, si chiede soffocando uno sbadiglio al solo pensiero. La risposta potrebbero forse suggerirgliela Venus e Serena Williams, entrambe vegane, l’una per motivi salutistici, l’altra per solidarietà. Sempre che impartire lezioni al prof. Crepet rientri nella loro disponibilità.

In risposta alle sue affermazioni, un vero esercito di uomini vegani, tra i più apprezzati per la loro muscolosa avvenenza, è stato invece sottoposto dai social all’attenzione di Antonella Clerici, nel tentativo di scalfire le sue convinzioni sul binomio macho-divoratore di cadaveri. Staremo a vedere.

Al di là delle preferenze sessuali dei due personaggi che non scompigliano la vita di nessuno, ciò che drammaticamente emerge dalle loro parole è l’incapacità di capire di cosa si  sta parlando quando l’argomento è il veganismo: non di performance in camera da letto, ma del rifiuto  dell’uso e abuso di animali nonumani, a cui viene negato ogni diritto alla vita, ridotti come sono a brandelli di cibo. Sono loro  i grandi assenti, invitati di pietra alle cene di cui si (stra)parla: si parla di cibo e non si parla di loro, che in quel cibo sono stati miseramente ridotti; neppure si sfiora la questione etica ad unico  vantaggio di  luoghi comuni, falsità scientifiche, autopromozioni come testimonial del carnismo.   

La vastità del pubblico di cui godono esigerebbe che persone come Crepet e Clerici facessero affermazioni veritiere, si informassero prima di parlare,  fossero consapevoli non delle presunte virtù afrodisiache dei cibi, ma dello scempio di tutti quegli animali che popolano anche il mondo dorato, in cui serenamente si muovono protetti dalla propria presunta e non credibile inconsapevolezza.

Di fatto le loro affermazioni si posizionano saldamente sulla difesa  dello status quo, che vede il veganismo come minaccia ad una filosofia di vita e, aiuto aiuto, all’attuale economia, difesa perseguita non con argomentazioni articolate, ma attraverso  la  svalutazione ridicolizzante di chi il cambiamento lo ritiene invece assolutamente fondamentale.  

Di loro due si è molto detto, ma è innegabile che  sono solo dei testimonial, punta di un iceberg, popolato da grandi detrattori del veganismo e dai media che fanno loro da megafono: già  una ricerca, pubblicata sul British Journal of Sociology (marzo 2011) , fotografava  l’attitudine della stampa a gettare discredito sull’aspetto alimentare di una nuova concezione del mondo, descritto come bizzarro, sostenuto da seguaci ascetici, capricciosi, sentimentali, estremisti, in preda ad una nuova mania. Ritratto fortemente screditante, che  gli autori, Matthew Cole e Karen Morgan, interpretavano correttamente alla luce della vegafobia, come sostegno allo specismo, quindi considerando il piano alimentare solo uno degli elementi fondanti dell’antispecismo. E spiegavano che il veganismo viene marginalizzato attraverso la cattiva rappresentazione che ne viene data; ridicolizzare è la strategia attuata, esattamente quella che, tanti anni dopo,  si ritrova ancora oggi nelle parole di molti.

Una domanda si impone: nella convinta difesa dello status quo, è più stigmatizzabile il ricorso alla ridicolizzazione  o l’uso sfrontato della menzogna?  Si, perchè ad un altro personaggio di grande potere, quale Francesco Lollobrigida, attuale ministro dell’agricoltura nonché cognato di Giorgia Meloni, si deve l’apodittica affermazione secondo cui “l’uomo è l’unico essere senziente: non ce ne sono altri”. Solo assenza di  quella competenza e cultura, che dovrebbero essere i requisiti minimi di un ministro della repubblica? O la spudorata falsificazione della realtà, concessa dalla sua posizione di  intoccabile?

Come che sia, pur a sua insaputa, gli animali nonumani sono invece stati definiti senzienti già nell’art. 13 del Trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione Europea (di cui l’Italia fa parte, sempre all’insaputa del ministro) : senzienti perchè  capaci di provare sensazioni quali il piacere e il dolore. La Dichiarazione di Cambridge (2012) è poi andata oltre asserendo  che tutti i mammiferi, gli uccelli, nonché invertebrati quali il polpo, sono altresì dotati di autoconsapevolezza; la firmarono autorevoli scienziati internazionali (ricercatori cognitivi, neurofarmacologi, neurofisiologi, neuroscienziati…) alla presenza di Stephen Hawking, matematico, fisico e cosmologo, fra i più importanti del mondo.

Non basta: è di questi giorni la Dichiarazione di New York sulla coscienza animale, già sottoscritta da 39 scienziati, che ribadisce gli stessi concetti e amplia gli studi, arrivando ad affermare che anche insetti, crostacei, pesci e altri animali non ancora sufficientemente studiati mostrano comportamenti cognitivi complessi e che c'è quindi "una possibilità realistica" che siano dotati di autoconsapevolezza e che tutto questo  giustifica una seria presa in considerazione del loro benessere.

 La scienza è neutra, non è suo compito dare giudizi morali, ma è fondamentale nel fornire dati ed informazioni che invece dovrebbero essere alla base di comportamenti etici. Il punto è proprio questo: l’inenarrabile dose di violenza che l’uomo riversa sugli animali nonumani è resa possibile dallo status che viene loro attribuito: in genere reificati, ridotti allo stato di cose, sempre svalutati, denigrati, diffamati. Niente di diverso da quello che succedeva con gli schiavi: per renderli oggetto di ogni possibile abuso, era necessaria la narrazione che li vedeva subumani, privi di anima (quasi l’esserne dotati fosse certezza per le persone libere), esseri indegni.

Le grandi ingiustizie, prevaricazioni, abusi sostenuti da razzismo e sessismo oggi a parole non sono più sostenibili, anche se lo sono nei fatti. Invece una diffusa ignoranza li autorizza ancora a danno degli animali nonumani, nonostante le continue scoperte scientifiche stiano buttando all’aria l’una dopo l’altra le narrazioni che le giustificano e che dovrebbero imporre una totale rivisitazione del nostro rapporto con loro, che non può prescindere dalla loro  senzienza: l’acclarata vulnerabilità al dolore deve imporre che dolore ad essi non possa essere inflitto.

Innegabile che molto di quanto è oggi decretato da scienziati di tutto il mondo è risaputo già da millenni da pensatori illuminati, divulgato oltre un secolo e mezzo fa da Charles Darwin, compreso e sostenuto da decenni da milioni di persone grazie a capacità di osservazione ed empatia. “I maiali nelle condizioni in cui sono allevati) sviluppano comportamenti nevrotici e possono letteralmente strapparsi via a morsi la coda l’un l’altro.  La loro reazione psicologica è uno dei sintomi della “sindrome da stress suino.…Come gli esseri umani  che hanno affrontato la tortura e l’isolamento in prigione, si automutilano e ripetono lo stesso comportamento migliaia di volte al giorno;  sono veramente indotti alla follia”: lo scriveva nel 2010 Melanie Joy, chiedendosi perchè amiamo i cani e mangiamo i maiali, aggiungendo le sue osservazioni a quelle sempre più frequenti non solo degli i studiosi, ma anche di inorriditi lavoratori dei macelli.

La strada scelta dal ministro Lollobrigida è semplicemente quella di fare affermazioni sfacciatamente false, sfidando serenamente la scienza, che subordina al potere della politica: perchè negando che gli animali nonumani provino dolore, può continuare a sdoganare i più crudeli comportamenti nei loro confronti: dalla caccia sempre più libera in omaggio alle potenti lobby che sostengono il suo governo,  all’appoggio all’eliminazione di orsi e lupi, dal sostegno agli attuali osceni trasporti di animali condotti al macello alla fiera opposizione alla carne coltivata, che salverebbe miliardi di animali.

In conclusione, una cosa che i regimi autoritari sanno bene è che  per sostenere un’idea è necessario mandare messaggi uniformati e coerenti da ogni postazione: leggi, educazione, pubblicità, mass media, interviste…, punendo pesantemente ogni dissenso. I regimi democratici sono estremamente più soft: non servono prigioni né ospedali psichiatrici, perchè bastano i messaggi sparsi dovunque, anche sotto forma di esternazioni spiritose e fintoprovocatorie o di  pensose riflessioni buttate là in una qualunque kermesse di partito.

Il potere, quello politico come quello mediatico, rispetto alla questione animale è ancora alla fase della falsificazione e della ridicolizzazione, indifferente alle proprie smisurate responsabilità nel sostenere il quotidiano tormento di milioni di esseri, esseri che il dolore lo soffrono in ogni cellula del proprio corpo. La speranza è che i mostri generati dal sonno della ragione diventino incubi e portino al necessario improrogabile risveglio.

 

 

mercoledì 3 aprile 2024

CON TUTTO QUELLO CHE SUCCEDE

  PUBBLICATO SU COMUNE.INFO 24.03.2024        Le ricorrenze, nel loro preciso ripetersi, tracciano punti fermi nel nostro calendario interiore,  richiamando ad una sorta di memento: ricordati, ricordati di ricordare qualcosa che non va dimenticato.

Quelle religiose, per chi religioso si ritiene, dovrebbero anche essere un monito, un richiamo a dogmi, credenze, riferimenti che però sempre più spesso appaiono appannati nel mondo occidentale dove la tendenza in ascesa è  quella del fai quello che vuoi purchè ti piaccia. Tanto che dichiararsi credente per molti finisce per limitarsi ad un’etichetta che risulta protettiva, pur nel materialismo dilagante, in quanto assicura nell’al di là  la strada verso un’ immortalità sempre agognata, ed è nel contempo garanzia, nell’al di qua, di un’accettazione sociale,  basata sull’ostinata equazione religioso uguale buono, capace di fornire una sorta di pregiudizio positivo, per cui non esiste necessità di dovere argomentare: basta la fede, che per altro è dono e non merito. 

Tutto bene? Non proprio. Fatto salvo il sacrosanto diritto alle proprie credenze, esistono addentellati, accessori a queste stesse credenze che investono un ambito che non è più quello spirituale intoccabile, ma invade vita e morte di centinaia di migliaia di altri esseri senzienti, nello specifico, quando si parla di Pasqua, di  agnelli. La loro uccisione non conosce sosta lungo tutto l’anno, ma, in questa ricorrenza, diventa rito, tradizione, cultura, e rispolvera il postulato, per sua natura indimostrabile, che l’agnello, quello di Dio, è colui che toglie i peccati dal mondo attraverso la sua stessa morte: lui, innocente, indifeso, fragile viene allora condannato ad una morte impietosa così da redimere l’uomo dai suoi peccati. Vecchia storia che si rifà al concetto di capro espiatorio, colui sul quale vengono riversati i debiti umani non pagati che lui, morendo, si dice riscatterà. Chi mai davvero può credere in questa narrazione che è l’apoteosi dell’ingiustizia, per cui il peccatore si salva compiendo un altro peccato, quello dell’uccisione di un innocente, di milioni di innocenti? Torna alla mente la figura, non si sa quanto storicamente dimostrata, dell’whipping boy, il ragazzo che, all’inizio dell’età moderna, affiancava un giovane principe in modo che, quando questi commetteva errori, venisse frustato al posto suo, preservando così il nobile da umiliazione e dolore. Se questa situazione lascia noi contemporanei increduli, non riesce comunque a disappannare il nostro sguardo davanti ad altre ingiustizie del tutto simili che continuiamo serenamente a compiere attribuendo loro significati spirituali. In fondo, per altro, in forme fortemente diverse, la tentazione di far pagare ad altri le nostre colpe non ci è certo estranea, anzi esercita un’ attrazione di non poco conto, sintetizzabile nella convinzione che l’importante è il nostro benessere, chissenefrega se pagato con miserie altrui. E questi altri, i capri espiatori, incaricati della missione, sono sempre i più  deboli, quelli privi di diritti, incapaci di vendetta: tutto considerato, in quanto specie che teorizza e sostiene tutto questo, non ne usciamo davvero bene e ci iscriviamo a tutto tondo nella categoria dei codardi.

Ma all’allegra mattanza pasquale degli agnelli si unisce anche uno stuolo di non credenti, che,  per l’occasione, rispolvera un attaccamento imprevisto alla  tradizione, che incredibilmente affida all’abbacchio,  il quale, al forno o alla romana, magari con contorno di patate, dovrebbe essere il mezzo per celebrarla. E l’abbacchio, giusto per ricordare i distratti e gli smemorati, è l’agnello ucciso entro i primi due mesi di vita: insomma appartiene a quello stuolo di decine di migliaia di neonati d’altra specie che già stanno affollando le nostre strade e autostrade, stipati sui camion, belanti di terrore e di sgomento, per arrivare ad essere macellati giusto in tempo per le nostre tavolate.

In un mondo che ogni anno macella circa 70 miliardi di animali, limitando la conta  solo a quelli terrestri, hanno forse poco senso la rabbia e il raccapriccio davanti alla strage di questi cuccioli, quasi le nostre reazioni sancissero un loro diritto alla vita maggiore di quello delle vittime di altre specie.  Così non è: ma esistono particolari ragioni, o forse emozioni, solleticate da questo scempio, in primo luogo  riferite alla abitudine di celebrare una festa, per giunta cattolica, con  il  massacro di altri esseri, come in questo caso, di assoluta innocenza: quale mai logica perversa può reggere una ingiustizia tanto conclamata?

C’è anche altro a caratterizzare l’uccisione di altri animali, ma non degli agnelli. Uno dei tanti meccanismi messi in moto per sdoganarla è quello che si serve della loro denigrazione: il maiale, per esemplificare, è costantemente rappresentato come brutto, sporco, grasso, dotato di istinti sconci: un vero maiale insomma. Il biasimo di cui lo si ricopre, e non fa nulla se in modo etologicamente del tutto scorretto,  è il lasciapassare per la sua orrida eliminazione: uno così, in altri termini, se lo merita proprio il trattamento che gli riserviamo.

Non va meglio a galline, oche, tacchini, la cui presunta stupidità diventa autorizzazione al loro sfruttamento. I bovini sono invece circondati da una narrazione mistificata che li vede quieti  e miti, tanto che La vache qui rit  da oltre un secolo è costretta a guardarci felice dalla confezione del formaggio francese, fatto con il latte sottratto al suo vitellino mandato al macello.  

Qualche problema in più lo procurano i cavalli, amati da molti quali animali da compagnia, problemi comunque presto accantonati se è vero che l’Italia brilla per i suoi primissimi posti nelle classifiche dei paesi importatori di carne equina dal resto del mondo. Animali di tante altre specie, quali i conigli, vengono semplicemente rimossi, dimenticati, resi invisibili.

Gli agnelli no: sono e restano simbolo di purezza, innocenza, vulnerabilità. Sono bianchi come il latte, il loro vagito è simile a quello dei bambini, sollecitano tenerezza e chiedono protezione. Celebrati nei peluches, smuovono commozione nei bambini, che si rispecchiano nella loro fragilità. Ecco, su di  loro che sono simbolo di tutto ciò che è incontaminato dalle brutture del mondo, si scatena la brutalità di chi, per conto terzi, vale a dire industria e consumatori, svolge il lavoro sporco: li  afferra per le zampe e li allontana, mentre belano la loro vana richiesta di pietà,  dalle loro madri, quelle madri che, se conoscessero per intero la loro sorte ululerebbero come lupi come racconta Josè Saramago nel suo Vangelo secondo Gesù Cristo, quello in cui c’è posto anche per la tenerezza verso tutti gli altri animali. Caricati sui camion della morte, spinti in enormi macelli dove verranno  accoltellati e lasciati a morire dissanguati, mentre i loro compagni terrorizzati guardano in attesa del proprio turno, testimonieranno con la loro morte il primato dell’homo necans, quello che afferma se stesso uccidendo altri e che di sapiens conserva davvero poco.

La strage degli agnelli, con i suoi picchi di crudeltà, non è un fenomeno a sé stante, ma piuttosto un tassello della geografia umana: da due anni anche il mondo occidentale è coinvolto nei teatri bellici di Ucraina e Gaza (che per altro sono solo la punta dell’iceberg di almeno altre 60 guerre sparse per il mondo) che gettano davanti agli occhi di tutti l’esistenza di  uno sconvolgente  potenziale umano di crudeltà: morte ovunque, distruzioni, uccisioni atroci anche di bambini e anziani, torture irraccontabili, sadismo normalizzato. Ora bisognerà pure arrivare a rendersi conto che la violenza è il più contagioso di tutti i virus, che tutte le forme in cui si concretizza e si manifesta si collegano direttamente o indirettamente l’una all’altra, che se qualche inossidabile idealista ambisse ancora e nonostante tutto ad un mondo pacificato, non potrebbe prescindere dalla coscienza che la sua costruzione non può che passare attraverso l’esclusione della violenza tout court: in tutti i campi, contro chiunque diretta, da chiunque praticata.

Diceva Edmondo Marcucci, pacifista di fama internazionale, che “l’uccisione degli animali è un esercizio di violenza che abbrevia la distanza all’uccisione dell’uomo, alla guerra”. Mentre Aldo Capitini, filosofo della nonviolenza, sosteneva che se si fosse imparato a non uccidere gli animali si sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini, perchè la scelta nonviolenta avrebbe avuto ricadute sul nostro modo di essere: tanto che diventò vegetariano negli anni ‘30, convinto che  la scelta di non uccidere animali avrebbe sostenuto il rifiuto ad uccidere gli uomini nella guerra che vedeva minacciosamente avvicinarsi.

Era invece Edgar Kupfer-Koberwitz, dalla sua esperienza di internato a Dachau, ad affermare “che gli uomini saranno uccisi e torturati fino a quando gli animali saranno uccisi e torturati e che fino ad allora ci saranno guerre”.

Ora, in questo mondo afflitto dai peggio conflitti, l’attuale strage degli agnelli non può essere derubricata a fatto privo di importanza grazie a quel confronto vantaggioso che, mettendola a confronto con le immani crudeltà sugli esseri umani, consenta di sminuirne il portato, sulla scorta del mantra  con tutto quello che succede…! Al contrario sostiene pericolosamente la normalizzazione e l’ubiquità della crudeltà del più forte sul più debole, crudeltà, è bene ricordarlo, che non è opera di sadici o psicopatici, ma è intrinseca al tessuto stesso delle nostre società, che lungi dal condannarla, la sostengono culturalmente, come sostengono tutte le altre violenze legalizzate sugli animali. Fondamentale è allora riconoscerlo il male, e smettere di confondere ciò che è lecito con ciò che è giusto: per capire finalmente che l’uccisione di centinaia di migliaia di cuccioli, lecita, legale, normata dalle leggi, è e resta un crimine morale che nessuna legge morale può essere in grado di assolvere.