L'ultimo lungo flash dal mondo dei macelli è un video di EssereAnimali, che riprende l'agonia, protrattasi per oltre mezz'ora, di una scrofa presa a martellate e i piccoli suinetti sottoposti ad altre variegate e creative angherie: non in qualche luogo sperduto, non per qualche azienda sconosciuta: no: in un civilissimo luogo del centro Italia in un allevamento connesso alla produzione del mai abbastanza celebrato prosciutto di Parma.
Il filmato, pressochè inguardabile per l'inaccettabile atrocità messa in onda, è l’ennesima occasione per alzare il velo su quella realtà negata e offuscata in tutto il mondo occidentale che è quella dei macelli. Realtà rimossa e nascosta dal punto di vista fisico e della sua stessa esistenza, se è vero che, nonostante l’immenso numero di animali quotidianamente mangiati (dati Fao non aggiornati) parlino di 56 miliardi di animali terrestri uccisi ogni anno) , i luoghi della loro uccisione sono molto spesso ignoti: non ne conosciamo la dislocazione e tanto meno sappiamo cosa veramente abbia luogo al loro interno. Ne intravediamo la realtà visto che ci capita di incontrare su strade e autostrade camion stipati di vitelli, mucche, maiali, cavalli: incrociamo persino il loro sguardo attraverso le barre che li imprigionano e ne sentiamo i lamenti se ci capita la malaugurata sorte di fermarci in una piazzola dove anche il loro autista si è preso una sosta. Imbarazzante allora camminare vicino a loro e cogliere l’orrore in atto nel rapido sguardo che gettiamo prima di girare di scatto la testa dall’altra parte, perché non ce la facciamo proprio ad osservarli ancora. E se l’estate è torrida o l’inverno gelido, i lamenti che udiamo sono strazianti non solo di sete e stanchezza. Da qualche parte, dobbiamo pur dircelo, stanno andando e dove se non ad essere ammazzati? Ma dove sia il posto in genere lo ignoriamo.
Il filmato, pressochè inguardabile per l'inaccettabile atrocità messa in onda, è l’ennesima occasione per alzare il velo su quella realtà negata e offuscata in tutto il mondo occidentale che è quella dei macelli. Realtà rimossa e nascosta dal punto di vista fisico e della sua stessa esistenza, se è vero che, nonostante l’immenso numero di animali quotidianamente mangiati (dati Fao non aggiornati) parlino di 56 miliardi di animali terrestri uccisi ogni anno) , i luoghi della loro uccisione sono molto spesso ignoti: non ne conosciamo la dislocazione e tanto meno sappiamo cosa veramente abbia luogo al loro interno. Ne intravediamo la realtà visto che ci capita di incontrare su strade e autostrade camion stipati di vitelli, mucche, maiali, cavalli: incrociamo persino il loro sguardo attraverso le barre che li imprigionano e ne sentiamo i lamenti se ci capita la malaugurata sorte di fermarci in una piazzola dove anche il loro autista si è preso una sosta. Imbarazzante allora camminare vicino a loro e cogliere l’orrore in atto nel rapido sguardo che gettiamo prima di girare di scatto la testa dall’altra parte, perché non ce la facciamo proprio ad osservarli ancora. E se l’estate è torrida o l’inverno gelido, i lamenti che udiamo sono strazianti non solo di sete e stanchezza. Da qualche parte, dobbiamo pur dircelo, stanno andando e dove se non ad essere ammazzati? Ma dove sia il posto in genere lo ignoriamo.
Niente è per caso, tanto meno il fatto che
i macelli siano situati non solo lontano dai centri abitati, ma anche in luoghi
indefiniti, non indicati, difficilmente identificabili. Luoghi dove per altro è
vietato entrare come comuni cittadini a guardare cosa vi succede: DIVIETO
D’ACCESSO; tanto più è vietato fare uscire fotografie e filmati; addirittura in
alcuni stati americani è proibito registrare i rumori, i suoni, se così è
possibile chiamare le urla degli animali a un passo dalla morte. Il perché di tanta preoccupazione a non far sapere risulta
chiaro quando si guardano i video clandestini, frutto di inchieste altrettanto clandestine,
vere e proprie cartoline dall’inferno; e
quando si leggono resoconti di operai
che vi lavorano o di giornalisti infiltrati. Ne conosciamo bene anche i
particolari quando scoppia uno scandalo e i giornali si riempiono di titoli
emotivamente carichi che parlano di “macello degli orrori”, “crudeltà nei
mattatoi” “azienda fuorilegge nella fabbrica della carne”. A quel punto vi è
grande dovizia di particolari, perché ci si sente nei panni del censore, del
salvatore, di chi coraggiosamente denuncia. Peccato che invece si stia parlando
della norma, che invece, in quanto tale, non viene denunciata con altrettanto
vigore, perché comporterebbe una presa di posizione, questa sì davvero
coraggiosa, contro tutto un sistema: e qui si fa il vuoto, giornalistico e non.
Il sistema di occultamento della realtà che
comporta la dislocazione dei macelli in luoghi sconosciuti o inaccessibili e il
tentativo di black out della relativa informazione, è in funzione di una innegabile
sensibilità che, nel mondo occidentale, si va sempre più diffondendo e coinvolge
in ugual modo le violenze su uomini e animali: in un tempo neppure tanto
lontano, che si misura in qualche secolo, la pubblica piazza era il luogo delle
esecuzioni, dei tormenti punitivi, della gogna: l’apoteosi della ghigliottina
che celebrava la rivoluzione francese mozzando teste davanti a donne che
sferruzzavano e a monellii che facevano
il tifo ne è un fulgido esempio. Prima che ragioni sanitarie inducessero a
spostare i macelli in periferia, gli
animali venivano quotidianamente sgozzati anche nelle strade delle città, dove
nugoli di ragazzini assistevano e imparavano l’indifferenza o, ancor peggio,
l’identificazione facile con il più forte, finendo per infierire ulteriormente,
per gioco, sulla vittima indifesa, esattamente come la folla in genere si
accaniva sul reo sottoposto al pubblico ludibrio. Un percorso
verso il superamento delle forme inaccettabili di prepotenza e crudeltà, ha portato
a rinnegare l’orgoglio un tempo incredibilmente connesso all’ostentazione della
violenza, che era un modo per affermare il proprio potere. Di certo molte cose
sono cambiate in modo sostanziale per quanto riguarda gli umani, per esempio
con la progressiva abolizione della pena di morte (nel mondo occidentale ancora
oggi ammessa in Bielorussia, Stati Uniti, Giappone…). Delle
forme che sopravvivono ci si vergogna, non sono certo politicamente corrette e
quindi vengono bene occultate, requisito fondamentale alla loro negazione: è il
caso per esempio della tortura (per inciso, l’Italia ancora non si è data una
legge al riguardo), che ripetuti casi di cronaca ci dicono ancora viva e vegeta
all’interno delle istituzioni carcerarie, e in realtà di degrado ancora sussistenti
nei luoghi dove gli ultimi degli ultimi vengono reclusi: orribili istituti
quali i manicomi criminali, la cui chiusura è recente, per fare
un esempio.
Qualcosa di molto simile riguarda gli
animali, i quali, “quelli da carne” in primo luogo, sono lontanissimi dal godere del
riconoscimento dei diritti reali, di cui, almeno sulla carta, gli umani godono.
Macellare si può, non solo non è reato, ma è il fondamento stesso della nostra
attuale quotidiana alimentazione; ma davvero non è bello da vedere e quindi la
strada maestra diventa quella di
oscurare Nascondere questa realtà, e le tante altre
dello stesso genere, è un’operazione
comunque gravida di conseguenze: quanto più la crudeltà, in tutte le sue forme,
contro umani e contro animali, viene occultata tanto più viene a mancare il processo
di desensibilizzazione che accompagna l’abitudine alla crudeltà stessa: certe
manifestazioni non entrano nel nostro quotidiano, nella verità esperienziale,
nel nostro patrimonio comportamentale, con il risultato che quando ne veniamo
in contatto mostriamo tutta la nostra vulnerabilità: gli spettacoli che un
tempo venivano vissuti come normali suscitano allora immediate reazioni di
sconcerto, rifiuto, raccapriccio. La spirale si attorciglia: tanto più siamo
disabituati alla crudeltà tanto più acuiamo la nostra sensibilità verso tante
forme di sofferenza tanto più abbiamo reazioni di rifiuto quando ne veniamo in
contatto. Il problema è che, anime belle e sensibili quali siamo progressivamente
diventate, ci commuoviamo davanti agli animali, ma di certo non fino al punto
da astenerci dal mangiarli, anzi: i numeri sono diventati stratosferici, le
modalità quelle della catena di montaggio, dove il massacro viene
industrializzato, con i ritmi e l’organizzazione inevitabilmente osceni che lo definiscono. Uno straordinario reportage di Timothy Pachirat, assistente di
scienze Politiche presso la Amherst University del Massachussetts, che lavorò
per molti mesi sotto mentite spoglie come operaio in macelli americani, riporta
che la norma è l’uccisione di un animale ogni 12 secondi (“Every twelve second”
è il titolo del suo libro, edito dalla Yale University Press).
Inutile sottolineare la nostra
schizofrenia: anche in tempi in cui i numeri degli animali uccisi erano
infinitamente inferiori, gli uomini, gli stessi che si nutrivano senza
remissione di ogni genere di animale, non ne hanno mai tanto gradita l’uccisione:
non è un caso se quello del macellatore è sempre stato un lavoro destinato alle
fasce più povere, ai senza diritti: Plutarco[1]
condannava caccia e macellazione in quanto fonte di insensibilità e causa di
danno sociale. Tommaso Moro[2]
sosteneva che la macellazione dovesse essere affidata a schiavi, in quanto tali
destinati ai lavori più sporchi. In India è sempre stata la classe dei paria
(abolita nelle leggi, ma non nei fatti) ad occuparsene. Oggi le cose non sono tanto diverse: negli Stati
Uniti a lavorare nei macelli sono soprattutto immigrati clandestini, molti
provenienti dalla frontiera messicana, vale a dire persone in situazioni di
tale emarginazione e precarietà da non potersi permettere il lusso di scegliere
alcunchè, tanto meno il lavoro. E’ in questo scenario che trova collocazione la
notizia del civilissimo Canadà, paese di grandi spazi e sviluppata
cultura, che , non molto tempo fa, ha pensato di assicurare alla gente la sua bistecca quotidiana, contando sul fatto che c’è
sempre chi non può dire di no: nello specifico l’ondata migratoria, con il suo carico di
tragedie, ha offerto la manodopera ideale, disperata, in fuga dalla guerra,
impossibilitata a scegliere: i siriani, che sono stati chiamati a fare ciò che i cittadini canadesi si rifiutavano di fare. Davvero niente di nuovo sotto il sole,
quando si parla di privilegi e di sottomissioni, di ingiustizie che si
infiltrano dovunque. Ma "quale è il prezzo che questo genere di attività può
rappresentare per persone già traumatizzate dalla guerra?. Quale tipo di
benvenuto può dare con un affare tanto cruento un paese che dovrebbe
rappresentare una chance luminosa e splendente di felicità”: domanda retorica,
quella che si pone la giornalista Susan Bird.[3]
All’interno dei mattatoi l’oscenità in atto
vede sangue, disperazione, dolore e morte di esseri terrorizzati e indifesi.
Come si può pensare che chi in prima persona è chiamato a esserne l’aguzzino,
l’esecutore materiale, possa svolgere questo “lavoro” con compostezza e garbo,
lavoro che, pure regolamentato da leggi di tutela del benessere animale, in
Europa prevede per gli operatori certificazioni di idoneità a stordimento,
immobilizzazione, enervazione, elettrocuzione, dissanguamento? A ritmo
continuo. E’ parte integrante del clima di efferatezza l’essere, o il diventare,
efferati: perché il lavoro stesso è opera cruenta e feroce, ma anche perché la
psiche non può mantenersi indenne in mezzo a tutto questo e devono entrare in
azioni meccanismi tali da rendere sopportabile l’insopportabile. Bisogna convincersi
che quegli animali strattonati, feriti, inermi, terrorizzati non siano le
vittime innocenti che in realtà sono: il pensarlo inibirebbe l’azione. Bisogna
invece credere che siano esseri spregevoli, immondi, che meritano ciò che
stanno subendo e che, quando con comportamenti di recalcitrante ribellione o solo di disperata
resistenza rendono il lavoro del macellaio più duro, debbono essere ulteriormente
puniti. Tutte le cronache dei macelli testimoniano questa verità: ovunque, e non
in “casi isolati” o nei “macelli della vergogna”come è comodo credere o far credere, vengono compiuti atti la cui
nefandezza raggiunge apici orribili, che nulla più hanno a che vedera con quella che è ritenuta la necessità dell'uccisione dell'animale: gli animali vengono ulteriormente
seviziati, in un crescendo di crudeltà, perchè i macelli, come tutti i luoghi dove la violenza è la cifra del comportamento, solleticano l'emergere delle nostre parti più cupe ed esecrabili, quelle che molti di noi si rifiutano persino di riconoscere. E non deve esageratamente stupire che i perpetratori di tutto ciò fatichino a prendere consapevolezza della propria brutalità: l'intero contesto in cui si muovono, vivono e lavorano quotidianamente non solo la tollera questa brutalità, ma la sostiene, la richiede, addirittura la incentiva: non si può certo stare a perdere tempo con animli recalcitranti.
Sono tante le situazioni in cui vanno in onda analoghe
dinamiche : negli scenari delle guerre, nei campi di sterminio di ogni
tempo, latitudine ed ideologia, nelle carceri più dure: salvare se stessi a
scapito della vittima, infierire su di lei presuppone che non ci si possa fare
carico della sua sofferenza, ma che anzi questa venga negata e non riconosciuta: merita quello che
le viene fatto, non vale nulla, e quindi ucciderla, ma anche
seviziarla, è dovere e non colpa, perchè è qui per questo Il male accessorio, gli epiteti insultanti sono parti del copione. Non necessariamente entrano nei macelli uomini brutali,
con la vocazione ad infierire sui più deboli: sono molti a uscirne tali.
Esattamente come non sono brutali tutti i ragazzi (e ragazzini!) mandati a
combattere, e tornati, quelli tornati, come persone irriconoscibili: la guerra non rende gentili. Il nome di My Lay,
poverissimo villaggio vietnamita dove giovanottoni americani in assetto di guerra uccisero,
seviziarono, bruciarono vivi piccoli uomini e donne scalzi e indifesi, è solo
uno di quelli divenuti famosi in virtù di un processo dalla risonanza mondiale
che ne seguì, per altro conclusosi con condanne irrisorie. E delle violenze
gratuite che ebbero come scenario Abu Graib, il ricordo è più che mai vivo.
Quanto faticoso sia per molti convivere con la quotidianità dello sfacelo lo dimostra l’alto tasso di alcolismo che si registra in molte delle comunità che vivono sui macelli, non diversamente da quanto spesso avviene in guerra, o nei “piani di eliminazione” di vario genere e tempo[4]o nell’abuso di droghe che segna la vita di tanti veterani: misero conforto per ogni vittima. Addirittura si parla oggi di un tipo particolare di stress post-traumatico, indotto dall’essere non vittima, ma partecipante attivo di un evento traumatico: i sintomi includono depressione, dissociazione, paranoia, ansietà, panico, abuso di alcool e pensieri di violenza. E a volte la violenza viene diretta contro mogli e figli[5], secondo lo schema ben conosciuto di spostamento di frustrazioni e aggressività verso soggetti deboli.
Quanto faticoso sia per molti convivere con la quotidianità dello sfacelo lo dimostra l’alto tasso di alcolismo che si registra in molte delle comunità che vivono sui macelli, non diversamente da quanto spesso avviene in guerra, o nei “piani di eliminazione” di vario genere e tempo[4]o nell’abuso di droghe che segna la vita di tanti veterani: misero conforto per ogni vittima. Addirittura si parla oggi di un tipo particolare di stress post-traumatico, indotto dall’essere non vittima, ma partecipante attivo di un evento traumatico: i sintomi includono depressione, dissociazione, paranoia, ansietà, panico, abuso di alcool e pensieri di violenza. E a volte la violenza viene diretta contro mogli e figli[5], secondo lo schema ben conosciuto di spostamento di frustrazioni e aggressività verso soggetti deboli.
All’interno di questi scenari si inserisce
la protesta di Nick Taylor, sociologa australiana, al programma Sentenced to a job del governo del
Territorio del Nord del continente australiano di inserimento di detenuti per
un lavoro nel mattatoio, in vista (sigh!) del loro reinserimento sociale: vi si
oppone strenuamente definendo i mattatoi luoghi
di ambiguità morale, psicologicamente
dannosi, perché lì si chiede alle
persone di togliere la vita ad esseri senzienti.
Insomma: l’Ombra esiste in ciascuno di noi:
ci sono luoghi che la fanno esplodere, che sollecitano le nostre parti più
oscure, parti che spesso sono lì semiaddormentate. I macelli sono tra questi,
perché sono istituzioni produttive di atrocità: chi vi entra respira violenza, commette quella commissionata e salariata, e non raramente la arricchisce del suo personale apporto, travalicando con estrema facilità il confine fittizio tra lecito e illecito.
Il confine tra carnefici e vittime, lo
abbiamo bene imparato da Primo Levi[6]
, e da tanti altri dopo di lui, Zimbardo[7]
in testa, è estremamente labile: se non vi è dubbio che gli animali paghino
colpe mai commesse, gli esecutori che agiscono da carnefici percorrono un tirocinio quotidiano all'esercizio della brutalità. Non ci è permesso non esserne consapevoli e ne portiamo la colpa nella misura in cui affidiamo
loro il lavoro sporco di cui siamo i pacifici e sereni utilizzatori, con gli occhi colpevolmente chiusi sulla realtà . “Se non potete eliminare l’ingiustizia,
almeno raccontatela a tutti” dice Shirin
Ebadi, premio Nobel per la pace nel 2003, riferendosi alle oscene ingiustizie
che hanno luogo nella sua terra, l’Iran: tutti devono sapere, bisogna parlare,
denunciare, raccontare.
Il supplizio degli animali oggi lo conosciamo nei suoi inimmaginabili particolari grazie agli attivisti che si costringono a guardare in faccia l'orrore, quell'orrore a cui molti di noi cercano di sottrarsi, incapaci di sopportare la vista di quello a cui gli animali invece non possono sottrarsi, di sentire lo strazio delle grida che li lacerano dal profondo e che sono un urlo di accusa a tutti noi, per un male tanto immenso da non avere redenzione.
Il supplizio degli animali oggi lo conosciamo nei suoi inimmaginabili particolari grazie agli attivisti che si costringono a guardare in faccia l'orrore, quell'orrore a cui molti di noi cercano di sottrarsi, incapaci di sopportare la vista di quello a cui gli animali invece non possono sottrarsi, di sentire lo strazio delle grida che li lacerano dal profondo e che sono un urlo di accusa a tutti noi, per un male tanto immenso da non avere redenzione.
L'argomento è trattato diffusamente in "Sulla cattiva strada" Ed. Sonda 2014
[3] Care2: “Slaughterhouse work
is so horrible, Canada can’t find anyone to do it”, 19.01.2016.
[4] [4] Gitta Sereny,
“Dentro quelle
tenebre, Gli Adelfi 1990”, ricorda l’abuso di alcool
da parte degli incaricati all’eliminazione di
persone minorate negli anni del nazismo.
[5]
Intervista di Gail Eisnitz, autore di “Slaughterhouse: la storia scioccante di
un trattamento dimenticato e inumano all’interno dell’industria della carne
americana”, al Vegnews magazine.
[7] “L’effetto Lucifero”,
Raffaello Cortina Editore 2007.
Condivido e ammiro il suo impegno.
RispondiEliminagrazie.
Marco
Ma davvero non ti ho mai ringraziato per il tuo commento!?!Lo faccio ora!
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