L’attesa per l’inizio dei campionati europei di calcio sta per concludersi, e con lei, speriamo,
la strage delle migliaia di cani da cui le strade dell’Ukraina
dovevano essere ripulite per l’arrivo degli dei del pallone e dei loro
fans, uomini duri sì, ma amanti dell’ordine e della pulizia. Visto che
solo la “conclusione dei lavori” ha consentito la fine del massacro
non si può non parlare di grave sconfitta di tutte le iniziative che
hanno avuto luogo per mesi contro questo sterminio: proteste, striscioni
subito oscurati e multati perché non si fa, lettere, appelli,
petizioni, diffusione di foto e di video, nella convinzione che
davanti alle immagini dell’orrore di sicuro qualcosa sarebbe successo.
Niente da fare: le cose hanno seguito il corso stabilito da chi,
manovrando le leve del potere, ha proseguito imperterrito, certo di
poter contare se non sul silenzio del mondo del pallone, di certo
sull’assenza di iniziative che andassero oltre una pacata protesta.
Niente di diverso dal sospiro di sollievo che, quando arriva Pasqua,
sottolinea che non si uccidono più agnelli, perché sono morti tutti, o,
alla fine del periodo natalizio, ci consola perchè finalmente la gente,
abbuffata e satolla, magari per un po’ si asterrà dal mangiare altri
animali.
Il dispiacere e l’amarezza sono
davvero grandi, dal momento che, rispetto alle stragi di animali che
nel mondo occidentale avvengono quotidianamente nei mattatoi e alle
tante altre ignominie, quali la vivisezione, la caccia,
l’imprigionamento negli zoo e via enumerando, in questo caso la
possibilità di un intervento efficace non era impossibile. Certo non ci
si poteva illudere che bastasse fare richieste educate perchè paesi che
tanto poco rispetto dimostrano per la questione dei diritti in generale
ponessero fine all’eccidio che avevano programmato. Avrebbero però avuto
conseguenze enormi altri interventi: quello del presidente dell’UEFA,
per esempio che, sollecitato a prendere una posizione precisa, avrebbe
potuto assumere un atteggiamento forte e chiaro, con degli aut aut che
mettessero in discussione lo stesso proseguimento dei campionati: si è
invece limitato prima a dare pallide rassicurazioni e poi a
sottolineare l’estraneità del proprio ruolo all’intera vicenda. Bisogna
prenderne atto: la faccenda davvero non lo riguarda, nel senso che non
lo interessa: per lui a contare è il tragitto del pallone, con tutti
gli annessi e connessi.
Il presidente UEFA non deve
comunque essersi sentito solo perché a condividere la sua inerzia sono
stati presidenti delle squadre, allenatori, giocatori, riserve incluse,
inerzia tanto più colpevole quanto maggiore è il prestigio che li
accompagna e con esso il potere di incidere sulla realtà. Invece eccoli
lì, tutti rigorosamente compatti nel separare il proprio ruolo dalle
vicende in atto.
Siamo di fronte ad un
mastodontico meccanismo di negazione, grazie al quale questi osannati
uomini dei nostri giorni hanno potuto trovare la tranquillità
necessaria, non farsi turbare, non subire contraccolpi sul proprio
rendimento calcistico: solo timidi comunicati ufficiali del tipo che la
situazione è ormai sotto controllo , e poi molto più potenti
convinzioni che “Non è affar mio: io cosa c’entro?”. Meccanismo
esiziale, foriero delle peggiori conseguenze. La realtà viene negata
grazie a quella abitudine a girare la testa dall’altra parte o a
metterla sotto la sabbia, a fare lo struzzo, come ci suggeriscono le
metafore non a caso così comuni nel nostro linguaggio, comuni come lo
sono i comportamenti a cui si riferiscono: si finge di non vedere
nonostante l’accesso alla realtà sia a portata di mano, di occhi, di
orecchie e di cuore; e questa è la condizione per sentirsi innocenti di
un male che, appunto, si dice non esistere. I tirocini a questa forma di
autoassoluzione perché il fatto non esiste sono storicamente infiniti:
quando si rifiuta di essere testimoni, di assumere posizione, di fare il
proprio lavoro di uomini, diventa tutto possibile. Scomodiamo Martin
Luther King che diceva che non è grave il clamore chiassoso dei
violenti, ma il silenzio spaventoso delle persone oneste. E lasciamoci
raggiungere dalle parole di Albert Einstein che ci ricordano che il
mondo è quel disastro che è non tanto per i guai combinati dai
malfattori , ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì
a guardare.
Come nel miglior copione già
visto, la negazione della realtà, nel momento in cui non ha più potuto
essere letterale perché le immagini e i filmati hanno continuato ad
incalzare nonostante le dichiarazioni che le volevano “sotto controllo”,
è confluita nella negazione del proprio ruolo e della propria
responsabilità: Io cosa c’entro? E dell’imperativo morale ad agire non
rimane traccia.
Davanti ai massacri e alle
grandi ingiustizie, si può scegliere di guardare e tacere; si può invece
scegliere di indignarsi e di prendere posizione: e se è purtroppo
scontato che sia la maggioranza a dire sempre sì, basterebbe una
minoranza che non si lascia trasformare in mostro per cambiare il corso
della storia, anche di una piccola storia di cani ukraini. Se uno, uno
solo, dei giocatori, degli allenatori, dei presidenti avesse alzato la
propria voce per condannare il massacro in atto, minacciando per esempio
di disertare i campionati nel caso un altro cane ancora fosse stato
ucciso, molte cose avrebbero potuto cambiare, non esclusa una reazione a
catena in direzione contraria al silenzio . In tanti studi condotti sui
gruppi, sempre emerge che un solo dissenziente è in grado di far
crollare il tasso di conformismo. Il dissidente nel mondo del calcio
non c’è stato. Peccato: una grossa occasione persa: ogni cane sottratto
alla crudeltà di una morte ingiusta avrebbe per sempre portato con sè
la propria gratitudine, come sempre fanno i cani, così pronti a non
recare rancore, nonostante tutto, alla specie umana. Una grossa
occasione persa perché il nostro tempo non ha bisogno di eroi di
cartapesta da osannare perché centrano una rete (e taciamo a quale
prezzo) : ha bisogno di uomini comuni, di quelli che compiono la
banalità del bene semplicemente oltrepassando la frontiera che separa la
passività dall’azione.
Non è certo il caso di
scomodare il coraggio di Perlasca e Irina Sender, pronti a rischiare
la vita, nei tempi bui del nazismo e dei campi di concentramento, per
contrastare il male fatto ad altri: qui si trattava, nella peggiore
delle ipotesi, di rischiare la partecipazione a un campionato di
calcio. Prezzo evidentemente troppo alto.
Il pensiero ora va a loro, a
quelle migliaia di cani catturati, ammassati, massacrati, di cui forse
possiamo immaginare i pensieri che hanno attraversato la mente in
mezzo a quell’esplosione insensata di violenza, guardando negli occhi il
nostro di cane, quando ci fissa in attesa dei nostri gesti da cui
sempre fa dipendere felicità o delusione. Del tutto indifferenti di chi,
tra l’entusiasmo generale, verrà proclamato il vincitore di un
campionato, che tutti i partecipanti hanno già perso in materia di
solidarietà, empatia e rispetto.
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