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Il linguaggio della guerra
Annamaria Manzoni“Stiamo mettendo completamente sotto assedio Gaza. Niente elettricità, niente acqua, niente cibo, niente gas, tutto chiuso. Stiamo combattendo contro bestie e ci comportiamo di conseguenza”. Sono le parole del ministro della Difesa israeliana Yoav Gallant. “Questi animali barbari e sadici le hanno semplicemente tagliato la testa mentre attaccavano, torturavano e uccidevano”, dice Isaac Herzog, presidente di Israele, riferendosi all’uccisione da parte di Hamas della ventiduenne Shani Loouk. E la giornalista Francesca Mannocchi sulle pagine della Stampa ricorda come il linguaggio disumanizzante fosse usato già nel 2014 quando la parlamentare israeliana Ayelet Shaked auspicava che venissero uccise anche le madri palestinesi che resistevano all’occupazione così che non potessero mettere al mondo altri piccoli serpenti, implicitamente definendo serpenti i palestinesi cresciuti in quelle case da abbattere: quindi, secondo una ingenerosa rappresentazione di questi animali, esseri infidi, pericolosi, malvagi.
Marco Noris ribatte da Micro Mega quanto suonino sconvolgenti parole del genere pronunciate dai capi di quel popolo costituito, non molti decenni orsono, secondo la propaganda nazista, da animali umani, come erano considerati gli ebrei stessi, e quanto fu efficace il processo di disumanizzazione su base etnica operato nei loro confronti per giustificare la banalità del male dell’Olocausto.
Insomma, quello che i giornalisti colgono è un processo teso a trasformare il nemico, Hamas ma con lui tutti i palestinesi, in animale: l’insulto e l’oltraggio sono evidenti, e con questi la loro riduzione in qualcosa di subumano, di altro rispetto alla natura di chi offende: la trasformazione in bestia dell’altro e quindi il richiamo alla sua presunta inferiorità morale diventano il lasciapassare alle azioni di inaccettabile violenza messe in atto, che risulterebbero più problematiche se a quello stesso nemico fosse riconosciuta dignità umana.
Che dire? Apprezzabile che questa dinamica venga colta e fatta emergere, contrariamente a quanto di solito succede; ma davvero niente di nuovo sotto il sole, sotto quel sole che illumina da millenni con la sua luce immeritata la vita, e soprattutto la morte, su questa disperata terra. La conversione del nemico in animale è stata presenza diffusa sui territori bellici dall’antichità ai nostri giorni: e ovviamente tra gli animali nonumani sono stati privilegiati quelli più screditati, diffusa fonte di reazioni di disgusto e ripugnanza: cani rognosi, topi di fogna, pidocchi, scarafaggi, serpenti hanno popolato la narrazione propagandistica di tanti leader bellicosi.
Solo per restare a tempi recenti: cimici erano le popolazioni slave durante il fascismo; scarafaggi i tutsi massacrati in Ruanda nel 1994 a centinaia di migliaia, a colpi di machete, dagli hutu; ancora pochi anni fa vennero chiamati tacchini gli iracheni in fuga durante la guerra del Golfo; Gheddafi ripetutamente definì topi drogati i ribelli nel corso della guerra civile in Libia nel 2011; come già ricordato, con epiteti animali erano indicati gli ebrei nel periodo delle persecuzioni naziste. Ed è drammatico ricordare che la svalutazione diventava anche autosvalutazione, come ricorda Primo Levi in Se questo è un uomo, tanto che erano gli stessi prigionieri a definire se stessi bestie stanche o domate con le percosse, gregge muto, gregge abbietto.
La svalutazione dell’altro come strada per rendere la sua vita priva di valore e quindi la sua morte immeritevole di senso di colpa, ma anzi incentivo all’infierire su di lui, è stata di fatto ed è oggi musica di fondo di tante carneficine.
In tempi recenti, alla fine degli anni ’90, Albert Bandura, grande studioso dello sviluppo dell’apprendimento, ha offerto una base teorica a queste dinamiche che facilitano le persone nel compiere azioni orribili contro altri. Lui ha teorizzato che queste azioni concorrano al disimpegno morale, vale a dire ad agire senza alcuna preoccupazione etica, e ne ha individuato la formazione, tra le altre condizioni, proprio nella disumanizzazione, vale a dire nel processo di eliminazione di umanità alla propria vittima, che viene connotata come animale e in tal modo privata dell’accesso all’empatia nei propri confronti e al disagio e senso di colpa, che dovrebbero almeno accompagnare i colpevoli nelle loro azioni delittuose.
In estrema sintesi, attribuire qualità animalesche all’altro risulta utile a indebolire gli scrupoli, a disimpegnare moralmente. Non meraviglia quindi che crimini e atti di guerra vengano tanto spesso sdoganati anche grazie a questo meccanismo, meccanismo sotteso dall’idea stessa di animale, a cui viene associata un’identità non solo forgiata sulla sua presunta inferiorità rispetto alla specie umana, ma anche sull’idea di infamità di cui le bestie sarebbero capaci, in quanto considerate contenitori di nefandezze e istinti crudeli.
Siamo oggi nel mezzo di una tragedia infernale in cui ogni freno morale appare collassato e il dolore fisico e morale di milioni di persone ha raggiunto livelli indescrivibili: in cui bambini, malati, anziani non sono più vittime collaterali della degenerazione umana, ma bersagli privilegiati di efferati leader che non conoscono giustizia né pietà, che inseguono i loro progetti nel dispregio assoluto di ogni vita. Le parole davvero mancano e forse il bisogno di trovarne, che fossero ancora capaci di dare un nome all’altezza abissale delle innominabili tragedie sempre in corso, ha spinto la filosofa Adriana Cavarero a coniare il termine nuovo di orrorismo per parlare della violenza sull’inerme, per raccontare un cronico presente (lo ha fatto nel 20071), benché allo stesso tempo non abbia eluso alcune domande: cosa c’è di nuovo nella carneficina e nella tortura? cosa c’è di diverso nei corpi che bruciano sotto le bombe incendiarie? cosa c’è di recente nella solita e vecchia strage degli innocenti?
In tutto questo, anche in quest’ultima guerra gli animali nonumani sembrano esistere solo per insultare il nemico: non un accenno, uno solo, alle indicibili sofferenza che anche a loro vengono inflitte, al terrore sconvolgente che certo non li risparmia, alle loro vite massacrate. Solo il filmato di un asinello, pelle e ossa, trascinato da uomini disperati a trascinare un carretto troppo pesante di feriti da soccorrere, riporta alla loro esistenza. E alla loro cosmica solitudine. Di loro, vittime innumerevoli, terrorizzate e senza colpa, di ogni insensata guerra umana, si parla sempre e solo a distanza di anni dalla fine dei conflitti: quando un temporaneo accenno di risveglio dal sonno della ragione permette almeno qualche pensiero sull’ignominia e sull’efferatezza inflitte a tutte le vittime inermi, nessuna esclusa. Quindi anche a quelle animali, l’occuparsi delle quali in corso d’opera pare quasi una bestemmia, un insulto al valore assoluto della vita umana, quasi non venisse da tutti i contendenti oltraggiata, massacrata, umiliata in ogni istante.
Cominciare a rispettarla la vita animale sarebbe allora non eresia, ma dovere etico: diceva Aldo Capitini che è l’abitudine all’uccisione costante e senza tregua degli animali il brodo di cultura delle guerre; che, se si fosse imparato a non uccidere gli animali, a maggior ragione si sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini. Mentre il pensiero di altri pacifisti Gandhi, Toltstoj, Terzani, Marcucci, Scweitzer, fa specifico riferimento ai nonumani nella convinzione che il rifiuto della guerra non nasce improvvisamente, ma si nutre di un atteggiamento solidale, non predatorio che coinvolge tutti gli aspetti della vita individuale e sociale, senza dimenticare nessun essere senziente.
Nell’indifferenza rispetto a queste considerazioni, i media non dedicano neppure il più piccolo spazio a questa tragedia nella tragedia e sostengono l’occultamento cognitivo e quindi emotivo di tutto ciò che anche i nonumani subiscono, perché c’è ben altro di cui occuparsi, nel trionfo di quel benaltrismo, che traccia sempre una gerarchia delle ingiustizie. Nessuna delle quali può essere ignorata perché ognuna fa la sua parte nel rendere il mondo un posto sempre peggiore. Faccenda di una gravità astronomica che dovrebbe smuoverci dal nostro intorpidimento e indurci a riflettere seriamente sul tema della violenza.
L’abituale metafora del nemico quale animale non sarebbe pensata se ai nonumani non fossero sempre gettati addosso tutti quegli impulsi inaccettabili che in realtà ci appartengono, e di cui forse nel profondo conserviamo un po’ di vergogna tanto da rifiutare di accettarli come nostri e proiettarli su di loro. Era Albert Einstein, non uno qualunque, che, mentre si interrogava, nel suo carteggio con Freud, se esistesse un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra affermava in modo lapidario che l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e distruggere: riprendiamo su di noi questa esclusiva responsabilità con i suoi correlati di crudeltà, sete di potere, brama di annientamento, attrazione morbosa per le carneficine che definisce la nostra specie, non quelle nonumane.