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Il video del maremmano che un paio di settimane fa, in Salento, per aver fatto irruzione in un pollaio, è stato legato al paraurti di un’auto e trascinato fino a incontrare un’orribile morte, ha fatto il giro del web. Ma è solo la punta dell’iceberg della violenza gratuita contro i nonumani, fatta di maltrattamenti ma anche di caccia, vivisezione, avvelenamenti di massa, corse clandestine. “L’importanza del contesto è tale per cui anche delitti che appaiono individuali, totalmente attribuibili alla responsabilità di un singolo individuo – scrive Annamaria Manzoni -, in realtà risentono di variabili che vanno a costituirne il brodo di cultura. In fondo la lezione un po’ la stiamo imparando: è da qualche anno, per esempio, che ogni episodio di violenza sulle donne… risolleva dibattiti sulla cultura e i pensieri dominanti che lo rendono possibile…”
Ci risiamo: nei pressi di Santa Cesarea Terme (Le) un cane, un paio di settimane fa un maremmano reo – a quanto pare – di avere ucciso per fame due galline, è stato legato al paraurti di una macchina e trascinato fino a incontrare un’orribile morte. Autore dell’ignobile gesto il proprietario delle galline, un uomo anziano, che lo ha costretto a correre alla velocità dell’auto fino a quando non ce l’ha fatta più: a quel punto il cane si è lasciato andare ed è stato trainato sull’asfalto. Una guardia ambientale (Dania Carelli, che ha poi dato il nome di White al cane) li ha incrociati: con ammirevole determinazione ha costretto l’uomo a fermarsi e ha fatto intervenire le forze dell’ordine. Sta facendo il giro di molti giornali e siti on line la foto che vede il povero animale a terra, morto, ancora umiliato dal cappio al collo, e, sullo sfondo, (oscurato dai media main stream, ma non dai social) l’autore di tanta nefandezza, mano in tasca e sguardo altrove.
Episodio in drammatica fotocopia di quello che a Priolo Gargallo (Sr, maggio 2019) ha visto un altro cane fare identica fine ad opera di un altro sessantenne che ha poi gettato in un campo, a mo’ di spazzatura, quel che restava di lui mentre era ancora in vita: Matteo (questo il nome con cui ci si è poi riferiti alla povera bestia) è morto poco dopo, ridotto a carne smembrata, sul tavolo del veterinario da cui era stato portato dai soccorritori, allertati da due coraggiosi ragazzi, che avevano avuto la prontezza di scattare foto che riprendevano anche il numero di targa dell’auto.
Lecito pensare che in entrambi i casi, in assenza di testimoni, il rinvenimento dei corpi martoriati dei cani non avrebbe indotto a nessuna indagine, perché collegato a fatti di consueta malvagità, come dimostrano i resti di tanti animali ritrovati in discariche con segni di torture, ai quali solo in casi assolutamente eccezionali fa seguito al più un brevissimo trafiletto su qualche notiziario locale particolarmente sensibile. È auspicabile che l’indignazione sollevata da questo ennesimo episodio non si esaurisca in un orrore solubile in breve nell’indifferenza dell’abitudine, ma costringa a riflettere su quale possa essere il percorso di formazione di quella oscenità che porta degli uomini a infierire contro esseri incatenati e indifesi, insensibili alla sofferenza che urla sotto i loro stessi occhi, e anzi pervicacemente determinati a portarla a termine. Fino alla morte. Siamo di fronte al male allo stato puro: ingiustificabile, estremo, opera compiaciuta di menti lucide; non delitti d’impeto, generati da emozioni che esondano e obnubilano i pensieri, ma massacri precisi e scrupolosi.
I cupissimi tempi che stiamo vivendo, fianco a fianco con l’imperversare di una guerra, feroce mezzo di risoluzione dei conflitti che ci eravamo illusi di potere archiviare nella barbarie del passato, sono un pozzo senza fondo di comportamenti simili: tra tutti l’ignominia delle camere di tortura è quella che più si attaglia alla dinamica che vediamo proposta e riproposta negli episodi di cui stiamo parlando. E che, lo sappiamo fin troppo bene, sono solo la punta dell’iceberg della violenza gratuita contro i nonumani, che solo in casi ripresi edamplificati dai media raggiungono l’opinione pubblica: la cagnolina Pilù (Pescia, 2015), orrendamente torturata a morte per ritorsione contro la fidanzata da un tizio, che completa poi la sua opera con la pubblicazione on line del video con tutte le fasi dell’orrore; il gattino ucciso a bastonate dal bidello in una scuola elementare di Gioia Tauro perché reo di essere entrato abusivamente nel cortile; il cane Angelo massacrato per divertimento da tre balordi a Sangineto con il vanto successivo di un filmato sui social. Solo per citare i più famosi: per avere dare un’idea dell’ampiezza del fenomeno, più che mai utili i “Rapporti sul maltrattamento Animale in Italia”, elenchi dei fatti di cronaca registrati dai media in due diversi anni, stilati dalla lega antivivisezionista LEAL: basti dire che gli episodi riferiti riempiono centinaia di pagine.
Sarebbe interessante se i processi (se e quando vengono celebrati nei tribunali: quindi quasi mai) andassero a scrutare nel profondo la personalità di tali individui, alla ricerca del bandolo dell’oscura matassa della loro psiche; ma l’uccisione di un animale, ancorché ritenuto d’affezione e quindi più stimabile degli altri, non è considerata degna di un impiego di mezzi tanto onerosi: consulenti, perizie, psicologi e psichiatri non sono mai al servizio della giustizia dovuta a un animale, neppure se sollecitata se non altro dalla preoccupazione indotta dai tanti studi che mettono in luce il link comprovato tra la crudeltà agita sugli animali umani e quella sui nonumani, che dovrebbe spingere a ben diverse reazioni. In assenza dell’auspicabile scandaglio del mondo psichico dei colpevoli condotto con i mezzi offerti dalle discipline deputate a farlo, sono comunque i fatti stessi a parlare: e dicono di personalità in cui la violenza è evidentemente il linguaggio conosciuto, la lingua madre imparata, la modalità di relazione e di reazione, il modo consueto per affermare il proprio potere e sancire la propria superiorità.
Se ogni persona è quella che è diventata coniugando il proprio patrimonio genetico con i modelli appresi e con le vicende di tutta una vita, anche questi personaggi avranno pure una loro biografia su cui sono andati sistemandosi i tasselli della brutalità di cui sono portatori; andare a ricostruirli aiuterebbe a meglio conoscere (ed evitare) i percorsi che sollecitano l’espressione delle parti peggiori di noi. Parti che è lecito supporre che avranno già avuto modo di manifestarsi nella loro vita, perché le nostre mani così come la nostra mente non improvvisano ciò che non conoscono e ciò che non sono: lo vanno imparando su altri corpi, su altre vittime. Fino a divenirne esperti e cultori.
Ma c’è dell’altro: perché gli atti privati sono sempre inseriti in un contesto non solo familiare, ma anche di portata sociale, come testimoniano tante situazioni, su cui non si riflette mai abbastanza: già Primo Levi, reduce dallo sconvolgimento del lager, grande concentrato delle mostruosità che la mente umana può ideare, aveva affidato a I sommersi e i salvati la scrittura di pagine preziose sulla considerazione che anche i peggiori criminali sono esseri umani tristemente ordinari, che il contesto è in grado di modellare. Non mostri, su cui ci piace tanto gettare la responsabilità di quello che di noi stessi riteniamo inaccettabile, e che invece dimora come Ombra disconosciuta proprio nel fondo della nostra psiche, parte di noi che può restare silente o esplodere, a seconda delle situazioni. Senza rendercene conto, ce ne vergogniamo tanto da accusare non noi stessi, ma qualcun altro con cui non abbiamo da condividere neppure l’appartenenza alla specie umana: non è un uomo, ma una bestia è allora il mantra salvifico a cui viene affidata la difesa della nostra innocenza come individui, ma anche quella della nostra specie. Quindi umano come sinonimo di nobile, bestia e animale come sinonimi di brutalità e indecenza. Meccanismo profondamente ingiusto dal momento che gli animali nonumani, che sono vittime, vengono trasformati implicitamente in colpevoli, in quanto sarebbero i contenitori di quel male che non riconosciamo in noi.
L’importanza del contesto è tale per cui anche delitti che appaiono individuali, totalmente attribuibili alla responsabilità di un singolo individuo, in realtà risentono di variabili che vanno a costituirne il brodo di cultura.
In fondo la lezione un po’ la stiamo imparando: è da qualche anno, per esempio, che ogni episodio di violenza sulle donne non provoca solo la richiesta di una punizione adeguata del colpevole, ma risolleva dibattiti sulla cultura e i pensieri dominanti che lo rendono possibile. Si comincia in altri termini a capire che il contrasto ai femminicidi non può prescindere dalla necessità di ridefinire le convinzioni diffuse che restano ancora intrise dei residui di quanto veniva serenamente sostenuto fino a pochi decenni fa, quando veniva dato diritto di cittadinanza al delitto d’onore: si sanciva , anche dal punto di vista giuridico, la convinzione che non i diritti delle donne, ma la tutela dell’onore ferito maschile dovesse essere oggetto di attenzione e cura. Pensiero che sopravvive sotto pelle e si riaffaccia, sotto mentite spoglie, nella motivazione di comportamenti di uomini ancora intrisi di convinzioni fortemente sessiste. Lo dice bene Francesca, figlia di Lia Rizzone Favacchio, uccisa dal marito nel lontano 1973, quando, richiesta di dire se nel corso di tanti anni abbia potuto trovare una motivazione al gesto omicida di suo padre, risponde solo ”Ha ucciso perché figlio di una cultura patriarcale”. Non altro che la convinzione del proprio potere, che arriva a esprimersi come diritto di vita e di morte, è il motore propulsivo di gesti altrimenti incomprensibili.
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Riflessioni di questo genere sono tutt’altro che estranee alle vicende oscene di questi animali uccisi barbaramente, con lucidità e freddezza, nella convinzione di poterlo fare giusto perché appartenenti alla specie umana, notoriamente superiore alle altre: l’assenza quasi assoluta di conseguenti condanne giuridiche non può che rafforzare la convinzione: si può fare, è lecito e normale, come dimostra l’assenza di conseguenze.
Il male fatto agli animali è una realtà che, per limitarci al nostro paese, a macchia di leopardo, investe tutte le regioni. Ma non si può tacere che vi siano luoghi in cui la concentrazione è più preoccupante, non certo per caratteristiche genetiche della popolazione ma perché l’ambiente con le sue variabili ne costruisce le specificità. Sulla base delle informazioni raccolte, risulta per esempio che il piccolo paese in cui era stata portata a termine la tortura del cane Matteo solo poche settimane prima era stato teatro, a opera di responsabili rimasti ignoti, di sevizie a danno di un altro cagnolino inerme, prima torturato e poi impiccato. Se si allarga lo sguardo, la visuale ingloba territori più vasti, che vedono per esempio la Sicilia spesso in una posizione tutt’altro che lusinghiera in tema di tutela animale: nelle sue strade vagherebbe (il condizionale è d’obbligo in assenza di censimenti) la bellezza di 100.000 randagi, triste primato europeo. Nemmeno della Calabria esistono registri sul randagismo, ma chiunque la visiti non può che rimanere basito dai branchi di cani randagi visibili ovunque. È innegabile che, in buna parte delle regioni del sud, non vengono attuate le previste politiche di sterilizzazione e scarseggiano adeguate strutture di accoglienza; le periferie delle città si trasformano allora in discariche di cucciolate indesiderate e i canili esistenti fungono da depositi di cani dismessi. A parte la squalifica morale, questa situazione comporta uno stato di cose drammatico: gli animali a causa del loro stesso numero strabordante sono spesso considerati e trattati come pericolosi, quindi scacciati, presi a sassate o bastonate. Spaventati e in cerca di cibo, può succedere a qualcuno di loro di rendersi responsabile di un’aggressione a danno di una persona: e allora la reazione che era lì pronta ad esplodere trova una giustificazione ad hoc per scatenarsi, perché, se la vittima è pericolosa, allora del mio infierire non mi devo vergognare, ma posso anzi inorgoglirmi spacciandomi per difensore della collettività.
È all’interno di queste dinamiche che periodicamente si registrano avvelenamenti di massa, qualcuno incapace per la prepotenza dei numeri di sottrarsi ai riflettori dei media, come fu il caso delle decine di cani uccisi a Sciacca nel febbraio del 2018. Ma ci sono cronache ancora più spaventevoli che parlano di animali inermi che neppure tentano di sottrarsi all’infierire su di loro di umani furiosi, fino alla morte.
È necessario riflettere su come anche questo genere di situazioni alimenti comportamenti desensibilizzati: nei luoghi in cui la quotidianità è marcata dall’indifferenza verso animali in evidente difficoltà e stato di bisogno, in cui l’abitudine contempla abbandoni, maltrattamenti, ingiurie, tutto si ammanta di normalità: prepotenze e violenze, essendo tanto diffusi e non perseguiti, vengono interiorizzati e sdoganati come accettabili.
A tutto questo fa da contrappunto una straordinaria coraggiosissima abnegazione di tanti volontari, tra i quali gli stessi che denunciano i fatti: sono tanti quelli che condannano, cittadini (e soprattutto cittadine) sensibili, che lottano strenuamente contro questo stato di cose, pagando prezzi elevati in termini di sofferenza psichica, e non solo: ma non possono supplire con le sole loro forze alla latitanza delle istituzioni. E, in una società civile, la strada non può essere quella di sperare nell’empatia personale che supplisca alle colpevoli negligenze di chi avrebbe il dovere di intervenire e non lo fa.
Scandaloso che da anni la soluzione sia stata individuata nel continuo spostamento dalle regioni del sud a quelle del nord di cani e gatti randagi o reclusi in rifugi dal fine pena mai: realtà dilagante tanto che le staffette sono ormai diventate un’istituzione, con i puntualissimi arrivi settimanali in luoghi precisi delle città del nord, con il loro carico di vite sospese, disorientate e a volte pietrificate dalla paura, purché lontano dai luoghi dove la vita è una scommessa quotidiana. A quanto pare solo gli amministratori locali persistono a ignorare testardamente uno stato delle cose sotto gli occhi di tutti e a considerarsi esentati dal dovere di occuparsene.
È in questa ottica che urge approvare leggi che sanzionino in modo adeguato i maltrattamenti a danno degli animali: all’interno dei quali non possono certo essere ignorate le sagre che abusano indecentemente di loro con tanto di autorizzazione delle autorità regionali (in)competenti; le corse clandestine dei cavalli, che comportano la chiusura al traffico di intere zone di città, off limits per la gente comune per dettato delle varie criminalità organizzate. Le autorità, se c’erano, dormivano.
Per completezza di argomentazione, il discorso dovrebbe estendersi alla caccia, alla pesca, ai macelli, alla vivisezione… Ma fermiamoci ai maltrattamenti considerati penalmente punibili: finché le pene resteranno blande e/o non applicate, torturare un animale sarà interiorizzato come lecito, di certo tollerabile, da derubricare nel nostro codice morale a crimine bagatellaro, perché di fatto come tale viene trattato dalla giurisprudenza. Si tratta di un comportamento grave, perché sottostima la funzione e il potere delle leggi, che, modificate nel tempo in funzione della cultura che evolve, vengono poi interiorizzate e concorrono a trasformare non solo i comportamenti, ma anche la morale.
È poi improcrastinabile occuparsi della prevenzione, che ha inizio dalla sensibilizzazione della popolazione, a partire dalle fasce più giovani, al rispetto per tutte le forme senzienti, dalla costruzione progressiva di un pensiero e di un sentire in cui qualunque tipo di efferatezza nei confronti di un essere debole venga ripudiata, in cui la diffusa assenza di sentimenti di empatia verso la sofferenza corrisponda a un allarme sociale, in cui l’attenzione verso tutte le vite senzienti sia prioritaria in ogni progetto educativo.
Discorso non facile, certo, soprattutto nei tempi nefasti che sembrano tornare nella convivenza seppure indiretta con tutte le crudeltà belliche in atto. Ma non si può cedere alla tentazione di pensare che ci sia ben altro di cui occuparsi e preoccuparsi e dare così giustificazione all’immobilismo e all’assuefazione, che è matrice di passività e indifferenza: è invece doveroso reagire in modo adeguato, consapevole, strutturato, non solo dando la stura alla rabbia reattiva di un momento. Il cane White, il cane Angelo, il cane Matteo e tutti gli altri senza neppure un nome non avranno mai giustizia, perché di giusto non ci sarà mai nemmeno l’ombra per loro, morti di una morte atroce per mano di individui cinici, sadici, violenti; è il regno dell’ingiustizia quello in cui hanno vissuto e sono morti, senza averne colpa, come succede a tanti diseredati sulla faccia della terra, che cercano di strappare ogni giorno di vita con le unghie e coi denti perché la vita è l’unica cosa che possiedono, per quanto umiliata e offesa.
Infinitesimale è il contributo che ognuno di noi può dare alla necessaria trasformazione dello stato delle cose: comunque sia, diamolo, assicurandoci, con le parole di Walt Disney, di non fare mai meno del nostro meglio.