L’attesa per l’inizio dei campionati europei di calcio sta per concludersi, e con lei, speriamo,
la strage delle migliaia di cani da cui le strade dell’Ukraina
dovevano essere ripulite per l’arrivo degli dei del pallone e dei loro
fans, uomini duri sì, ma amanti dell’ordine e della pulizia. Visto che
solo la “conclusione dei lavori” ha consentito la fine del massacro
non si può non parlare di grave sconfitta di tutte le iniziative che
hanno avuto luogo per mesi contro questo sterminio: proteste, striscioni
subito oscurati e multati perché non si fa, lettere, appelli,
petizioni, diffusione di foto e di video, nella convinzione che
davanti alle immagini dell’orrore di sicuro qualcosa sarebbe successo.
Niente da fare: le cose hanno seguito il corso stabilito da chi,
manovrando le leve del potere, ha proseguito imperterrito, certo di
poter contare se non sul silenzio del mondo del pallone, di certo
sull’assenza di iniziative che andassero oltre una pacata protesta.
Niente di diverso dal sospiro di sollievo che, quando arriva Pasqua,
sottolinea che non si uccidono più agnelli, perché sono morti tutti, o,
alla fine del periodo natalizio, ci consola perchè finalmente la gente,
abbuffata e satolla, magari per un po’ si asterrà dal mangiare altri
animali.
mercoledì 25 settembre 2013
martedì 24 settembre 2013
DALLA ROMANIA CON DOLORE
“Uomini chiamati
rosticcieri-trattori si mettono in mezzo alla strada per affondare il coltello
nel dorso di un agnello belante (….); poi si abbandona lo sventurato animale
che, dopo avere perduto il sangue goccia a goccia, spira con una lunga agonia.
Questa scena, che si rinnova a tutte le ore del giorno, ha per spettatori tutti
i bambini del vicinato i quali, già
intrepidi come il vittimario[1],
insultano l’agnello immolato”.

domenica 8 settembre 2013
IL BAMBINO GIORGIO. E TUTTI GLI ALTRI
Giorgio, il bambino di tre mesi,
in ospedale perché papà e forse mamma
gli hanno spaccato le ossa, quelle del cranio comprese, resterà cieco e sordo
per tutta la vita. Commenti? Il linguaggio sempre più spesso è inadeguato, non
possiede le parole per dire quello che la mente non vuole pensare: barbarie,
crudeltà, ferocia sono termini abusati, non bastano, e altri non se ne trovano.
Epoche antiche, dittature sanguinarie, luoghi di guerra ci hanno fornito esempi
memorabili di performance di questo tipo, ma in questo caso,
nella Palermo dei nostri giorni, all’interno di una famiglia di certo
fortemente disturbata, ma non di quelle avvolte in quel degrado economico e
sociale che a volte sembra fornire inaccettabili alibi, l’orrore riesce a
diventare ancora un po’ più forte: perché quando tutta la possibile crudeltà viene rivolta contro il
proprio bambino, reo di avere pianto, quando, dopo, l'unica preoccupazione
sembra quella di trovare il mezzo per cavarsela, perché una pena non si ha
proprio voglia di affrontarla, non resta che tacere.
Tacere e agire. Cosa che ha fatto
un imprenditore milanese, anonimo per
suo volere, che ha dato la disponibilità ad occuparsi vita natural durante di
quel bambino, offrendogli tutte le possibili cure: non saranno sufficienti per
ripagarlo di ciò che non potrà vedere né di ciò che non potrà sentire; non
basteranno perché possa convivere senza sfaldarsi con l’insostenibile
consapevolezza di essere stato oggetto di tanta malvagità da parte di chi aveva
il dovere di proteggerlo; non basteranno: ma di certo conteranno molto.
Molti sono i pensieri che nascono
a proposito delle istanze contenute in questa generosissima azione: per
tollerare gli abissi della sconcertante oscenità che il male può raggiungere
bisogna fare gesti che lo contrastino, che diano la possibilità di credere che,
se il male è così grande, altrettanto lo può essere il bene. Soltanto così si
può provare a rendere tollerabile a se
stessi e agli altri l’appartenenza al genere umano, altrimenti in quell’abisso
non potremo non essere trascinati.
Al di là dell’enorme pena per un
bimbo, devastato oltre l’immaginabile, e del senso di incolmabile ingiustizia, a
muovere il signore di Milano c’è forse più in generale una ribellione contro la presenza del male nel mondo.
In modi diversi e in altre situazioni, non sono poche le persone che, come ha fatto lui, oppongono una resistenza ed una rivolta ad
oltranza alle ingiustizie, anche a quelle che non hanno luogo sotto i loro
occhi, andando a ripararle là dove più violentemente vengono compiute. Lo fanno
medici, infermieri e personale tutto nelle zone di guerra; lo fanno missionari nelle
missioni più sperdute; lo fanno tanti cittadini che trovano nel volontariato
una struttura in cui il non ricevere alcun compenso per le proprie azioni di aiuto le rende schiette e
incontaminate.
E’ importante ricordare che altre
persone fanno parte di questa schiera: sono tutti coloro che raccolgono per la
strada cani feriti, affetti dalle peggio malattie, mezzo morti di fame; che
spendono tutti i loro soldi per sfamare ogni giorno colonie di gatti ; che dedicano
tempo preziosissimo ad un maiale o una mucca salvati dal macello. Credo che,
oltre ad essere risposta immediata, empatica e compassionevole alla sofferenza
di un singolo animale, comportamenti tanto
assoluti da condizionare una vita intera testimonino del bisogno, dell’urgenza, dell’ineluttabilità di opporre all’infinito male che
quotidianamente viene inferto a un numero altrettanto infinito di animali il
bene che si è in grado di produrre, con azioni che il mondo non lo salveranno, ma in qualche modo
flebilissimo e fondamentale lo renderanno un posto un po’ migliore. Di certo non si sposta di molto l’ago della bilancia
che resta bene inchiodato sul negativo; per un animale messo al riparo, ve ne sono schiere sterminate che subiscono una
sorte atroce. Ma proprio in questo genere di gesti riparatori è forse contenuta la forza
che rende possibile continuare a stare, nonostante tutto, su questa terra. “Mi
vergogno di essere parte dell’umanità” è esclamazione comune di fronte alle
ingiustizie commesse contro gli animali esattamente come contro tutti gli
esseri deboli e indifesi. E’ come se esistesse una sorta di responsabilità
personale in atti compiuti da altri, di cui ci si sente compartecipi e colpevoli in quanto, come membri della stessa specie, si è contaminati dalla
stessa natura potenzialmente spietata . Non è necessariamente sotto i nostri sensi che avviene ciò che
ci sconvolge, ma esiste nell’inconscio collettivo di cui il nostro inconscio è
partecipe. La risposta allora può essere quella di lasciare scaturire dal cordoglio, dalla sofferenza, dal senso di
colpa la spinta ad un gesto riparatore,
che possa ridurre la responsabilità, ristabilire una forma di armonia,
ripristinare un’integrità necessaria. La spinta etica diventa mezzo di
sopravvivenza psicologica.
A volte la sproporzione tra le
forze in campo travolge e la riva depressiva diventa l’unico approdo, perché
nessun risarcimento sembra bastare: non sono pochi coloro che, spinti da una
necessità imperiosa a mettersi al
servizio di altri animali, travalicano
ogni limite personale: nulla sembra bastare davanti al proprio giudizio
implacabile. Bisogna fare sempre di più a rischio dell’annullamento, fisico o
psichico, di se stessi e scendere in abissi di sofferenza, dove non
c’è possibilità di dare sollievo ad un senso di colpa cosmico, che si trasforma
in volontà di espiazione e di annientamento.
Bello sarebbe se ci fossero, ma
non ci sono, strade già segnate: forse la capacità di indignarsi resta l’arma
più potente, se l’indignazione non resta vacua parola ma diventa strumento per
cambiare le cose del mondo. O, molto più semplicemente, per fare la propria
parte nel contrastare le cose di questo mondo: in difesa di tutti gli indifesi,
di qualsiasi specie siano.
domenica 28 luglio 2013
DAL PORCELLUM ALLA PORCHETTA: IL PASSO è BREVE

lunedì 22 luglio 2013
L’ONOREVOLE E L’ORANGO
I PENSIERI
E LE PAROLE
L’onorevole
(a quando la messa al bando degli ossimori?!?) Calderoli che pensa ad un orango
quando guarda il ministro Kienge è l’occasione per alcune riflessioni sul
linguaggio. Linguaggio che non è mai casuale: veicola informazioni, idee, modi di pensare
non solo attraverso l’elaborazione del pensiero, ma anche grazie all’uso dei
termini che sempre sono carichi di un significato che va oltre il letterale per
includere il suggerito, il metaforico, il simbolico.
Il mondo
animale, in questo senso, è un pozzo senza fondo di idee, qualche volta frutto
di associazioni logiche, molto più spesso legate alla rappresentazione che
degli animali abbiamo costruito, altre volte ancora connesse ad una distorsione
di pensiero.
Si può
cominciare dalla constatazione che metafore dal mondo animale sono regolarmente
e sapientemente utilizzate nel corso delle guerre, antiche e moderne, quando la necessità di solleticare i peggiori
istinti, di animare un odio che stenta a svilupparsi perché non è nutrito da
alcuna ragione, connota con epiteti animali il nemico: lo scopo, purtroppo
raggiunto, è quello che l’altro viene disumanizzato, abbassato al rango di
animale non umano, e in questo modo reso più facile vittima di una violenza irragionevole.
“Prima di morire, la vittima deve essere degradata, affinchè l’uccisore senta
meno il peso della sua colpa” commenta lucidamente
Primo Levi (“I sommersi e i
salvati”, Einaudi 1986) cercando l’introvabile senso degli orrori di
Auschwitz. L’elenco è quanto mai vasto: era Churchill a parlare del “cane
giapponese”, i giapponesi definivano “maiali” i cinesi, “topi di fogna” erano gli ebrei durante il
nazismo, “scarafaggi” i tutsi nel massacro a colpi di machete in Ruanda, “tacchini”
gli iracheni in fuga nella guerra del golfo; topi drogati, nel linguaggio di
Gheddafi, i ribelli che lo stavano spodestando nella guerra civile del 2011.
giovedì 4 luglio 2013
LA PELLICCIA DI LUCIO DALLA E LE CORNACCHIE CONDANNATE A MORTE
Alla morte di Lucio Dalla, nel marzo
del 2012, tra le tante fotografie pubblicate, due lo vedono, in tempi diversi, avvoltolato
in pellicce di imprecisati animali
C’è una fotografia di Lucio Dalla che obbliga a tanti pensieri, quella in cui appare avvolto in una pelliccia, di animale non bene identificato. Superfluo tessere le lodi di Lucio Dalla e ricordare che lui è stato molto di più di un cantante, è stato il cantore di un’umanità sconfitta, ha guardato nelle pieghe delle ingiustizie sociali e ne ha colto la sofferenza; ha visto la pena dei carcerati e ne ha condiviso gli aneliti a vivere la propria umanità nei sentimenti umiliati da una giustizia disumanizzante. Il soldato che, in Itaca, combatte una guerra che darà vanto solo al suo capitano ha la stessa profondità del povero di Bertol Brecht, che, qualunque sarà l’esito della guerra, sarà sempre un vinto.
L’AMBIGUA FASCINAZIONE DELLE ARMI
Negli Stati Uniti un bambino di due anni uccide per sbaglio sua madre con la pistola che lei teneva nella borsetta: e si torna a parlare della diffusione delle armi.
La vendita di armi è
commercio internazionale che non conosce crisi, in cui gli italiani-brava-gente occupano posizioni di tutto
rispetto: se non è recente la notizia degli indiani dello stato del Madhya Pradesh, disposti a farsi sterilizzare se il
compenso è un’arma, è invece ciclica quella che le annuali fiere
delle armi in varie città italiane registrano un numero sempre crescente di visitatori (lì i
papà ci portano anche i bambini in gita); mai sopite richieste di norme meno restrittive per la concessione
del porto d’armi a privati cittadini
fanno da eco ad ogni argomentazione sul bisogno di sicurezza; se sono
addirittura superflue le osservazioni sulle tragedie sempre in onda negli Stati Uniti, anche in Italia di tanto in tanto si legge che in varie città ”è corsa al porto d’armi”.
Insomma, per motivi solo in parte
coincidenti, il fascino delle armi si esercita sulle nazioni e sugli individui.
Le considerazioni sulla loro diffusione per uso bellico richiedono argomentazioni
politiche, sociali, economiche: ma, quando si tratta di difesa personale, sarebbe
importante non misconoscere la prospettiva
psicologica e concedere attenzione alle disposizioni e reazioni personali, punto di
partenza di ogni altra analisi. Anche i fatti dell’India, il cui governatore, soddisfatto
dell’inaspettato risultato della sua iniziativa, aveva affermato di avere “disinnescato il mito
maschile della virilità con quello ben più forte delle armi”, aiutano ad una
lettura a 360 gradi delle complesse dinamiche che restano vivaci dietro l’invocazione
al diritto alla legittima difesa.
mercoledì 3 luglio 2013
ZOO, CIRCHI, SAGRE
Foto di Wei Seng Chen
Zoo, circhi, sagre, sono contesti in cui gli animali vengono tenuti
imprigionati, costretti in condizioni incompatibili con la loro natura, obbligati a
performances estranee alle loro inclinazioni, allo scopo esclusivo di divertire il pubblico.
Il fenomeno non è di poco conto se si considera che in Italia i circhi sono circa 300, che
gli zoo vanno aumentando pur nelle forme di zooparchi, che hanno ancora luogo annualmente un
migliaio di sagre di Paese dove, ad un certo punto, la folla per divertirsi maltratta quache
animale.
Non possiamo fingere di non sapere che gli orsi in bicicletta, le tigri che attraversano
cerchi infuocati, i leoni seduti sugli sgabelli, gli elefanti che danzano a ritmo di musica
nei circhi sono il risultato di tecniche di ammaestramento crudelissime. Un percorso che ha
sempre il suo prologo con un rapimento, la sottrazione forzata di questi animali dai loro
luoghi di origine con l'inevitabile uccisione di molti esemplari e la morte accidentale di
tanti altri. Una sottomissione che prosegue poi con metodi per indebolire la volontà degli
animali prigionieri. Con la privazione di acqua e cibo, con gli ordini impartiti alle povere
bestie percosse con fruste, bastoni e ferri roventi. Non hanno difficoltà ad ammetterlo gli
stessi circensi, i "domatori" secondo cui la libertà e la bellezza della natura
sono sacrificabili al gusto di un addomesticamento forzato.
TOPI CHE RIDONO E MAIALI CHE PROVANO NOSTALGIA
Chiunque abbia un animale sa perfettamente a cosa ci si riferisce quando si parla dei loro sentimenti e delle loro emozioni; conosce l'imbarazzante capacità del proprio cane di immensamente gioire per ogni ritorno quotidiano del suo compagno umano rimasto lontano solo per poche ore come quella di farsi invadere dall'angoscia con crisi di inappetenza al solo vedere ricomparire valigie che risvegliano il ricordo di separazioni inaccettabilmente prolungate; distingue il miagolio di protesta da quello di pigra soddisfazione del micio di famiglia; addirittura si accorge quando gli scatti del suo pesce nell'acquario testimoniano inquietudine e nervosismo o invece, sinuosi e lenti, lo rivelano appagato e tranquillo.
Insomma, la conoscenza e la familiarità, mediati dall'affetto, consentono di prendere atto dell'esistenza articolata di un mondo interiore degli altri animali, fatto per altro già evidenziato alla metà del 1800 da Darwin, che aveva riconosciuto che essi provano emozioni di tutti i tipi: sono gelosi e nostalgici, sentono simpatie ed antipatie, sanno divertirsi e desiderano giocare.
domenica 30 giugno 2013
IL TOPO FABRIZIO
Siccome non c'è niente di nuovo sotto
il sole, ma corsi e ricorsi storici, dejavu stancamente si ripetono, la recente polemica del richiamo dell'onorevole Calderoli all'orango, alla vista del ministro Kienge, richiama alla mente pari pari la campagna (2010) della
Confederazione Elvetica contro gli
stranieri che rubano il posto di lavoro a chi è nato sul suolo patrio: si intitolava
BALAIRATT, ballano i topi, e l'immagine di tre topastri veniva usata per incarnare lo sporco spregevole che
sempre viene da fuori, dalle altrui fogne: la soluzione? Ovvio: derattizzare.
Di tutto si può accusare questa
campagna tranne che di originalità: l’altro, il diverso, lo straniero, e poi
piano piano a seguire il nemico, quello da cui guardarsi e quello da eliminare,
ha le fattezze di un animale. Il meccanismo è funzionale ad accentuare le
differenze: tanto maggiori queste sono, tanto più forte è l’identificazione con
il proprio gruppo di appartenenza, che
spesso non ha altri elementi di coesione se non la distanza da altri.
Tali metafore divampano
soprattutto nel corso delle guerre, quando i freni inibitori di qualsiasi tipo
collassano, e la necessità di sollecitare aggressività e violenza diventa
fondamentale, ma non sempre facile, dal momento che il nemico è identificato come
tale dalla classe al potere, ma non da chi deve andare a ucciderlo.
Iscriviti a:
Post (Atom)