lunedì 9 marzo 2015

Dalla parte delle donne e degli altri animali





Che siano le donne molto più degli uomini a preoccuparsi delle sofferenze degli altri animali non è solo un luogo comune, perché vi sono  molte argomentazioni a supporto di questa asserzione. Si può cominciare dal fatto  che  il 70% dei vegetariani (i vegani sono conteggiati nel numero)  secondo stime generalmente accreditate per quanto inevitabilmente imprecise, sarebbero donne: bisogna considerare che si tratta di una scelta alimentare fatta sulla base di considerazioni di tipo etico,  volta ad astenersi da qualsivoglia violenza anche indiretta contro gli animali; chi infatti si muove sulla scorta di  motivazioni ecologiche o salutiste arriva al più  ad  una riduzione del consumo di carne, non alla sua abolizione, tanto meno all’eliminazione di tutti i prodotti di origine animale, che abbisogna di motivazioni ben più forti. Non è certo un caso che gli uomini giustifichino in genere la loro non adesione ad un’alimentazione vegetariana  proprio con l’argomentazione che i cibi vegetariani sarebbero “da donna”, vale a dire anemici,  non vigorosi, inadatti alla loro virilità. E così non solo non si impegnano a modificare uno stile di vita basato su un del tutto deresponsabilizzato piacere del palato, ma  nobilitano la loro pigra adesione allo status quo attraverso una autoassolutoria  svalutazione delle ben più consapevoli scelte femminili.

Da sottolineare  poi il fatto che  il 90 % delle segnalazioni di maltrattamenti di animali, che giungono ai centralini delle associazioni animaliste, provengono  da  donne; il chè significa che gli uomini applicano un filtro percettivo alla loro vista che permette loro di non dare accesso ad immagini o episodi di animali sottoposti a sofferenze, oppure che spettacoli di questo tipo non mobilitano in loro una conseguente reazione di indignata difesa del più debole, da cui evidentemente si ritengono esentati.

Degno di nota è anche il fatto che appartenenti al genere femminile sono tradizionalmente le gattare, vale a dire quelle persone che si occupano di gatti randagi, procurando loro cibo e acqua e cercando di metterli al sicuro dai frequenti maltrattamenti a cui sono esposti: lo fanno in genere a prezzo di un sacrificio personale tutt’altro che trascurabile, assicurando la propria opera che trasformano in dovere quotidiano, indifferenti alle  condizioni del tempo o al proprio stato di salute. Fondamentale la considerazione che  ciò avviene in assenza di aspettative di riconoscenza che non siano le fusa dei mici in questione e in assenza altresì di intenti appropriativi, attente come sono a rispettare e salvaguardare le abitudini e la libertà di questi animali: semplicemente raccolgono una richiesta di aiuto che proviene da esseri indifesi, eterni bambini in cerca di cibo. Come se ciò non bastasse, la loro figura non ha mai goduto neppure di quella considerazione sociale che potrebbe essere sufficiente ricompensa a tanto impegno; anzi: l’immagine della gattara è sempre stata fortemente stigmatizzata e svalutata da parte degli uomini, che ne hanno messo in risalto difetti e presunte manchevolezze, ne hanno ridicolizzato l’aspetto trasandato, spesso conseguenza stessa della abnegazione che mettono nella cura dei gatti. Bene afferma Adriano Sofri,in un suo articolo apparso su “Psicologia contemporanea”, che se Antigone rinascesse oggi sarebbe una gattara, riferendosi all’eroina della tragedia di Sofocle, che, avendo  disubbidito alla proibizione del  re Creonte di dare sepoltura al fratello Polinice, chiamata a darne conto, dichiara che la sua obbedienza è alle leggi sacre, quelle non scritte, quelle degli dei, che sono le leggi della pietà, che  inducono a compiere un dovere ben più alto di quello sancito dagli uomini.

Insomma, che siano le donne ad avere una maggiore sensibilità per i bisogni e per le sofferenze degli animali è un fatto incontestabile, espressione di atteggiamenti e comportamenti che tendono all’etica della cura, dell’anteporre ai propri bisogni quelli degli altri, che si tratti di bambini, vecchi, malati o appunto animali, con atteggiamenti che rovesciano  quelli basati sulla  violenza e l’aggressività, molto più diffuse nel genere maschile: sono gli uomini, infatti, i maggiori protagonisti delle cronache più violente, gli esecutori dei maggiori crimini, gli inquilini privilegiati delle carceri, sono loro i toreri, i cacciatori, i macellai, sono loro che si lasciano sedurre dal fascino oscuro delle guerre.

Di certo non si può a buon diritto sostenere che le donne siano esenti da tratti caratteriali che trovano nella violenza il loro modo di estrinsecazione; ma è utile riflettere sul fatto che esiste una  risorsa che più di ogni altra si oppone al fare del male: si tratta dell’empatia,  di quella capacità, cioè, che permette di mettersi dal punto di vista dell’altro, di calarsi nei suoi panni per capirlo non solo in base a delle valutazioni razionali, ma sperimentando su di sé le sue emozioni. L’empatia e quella sua estensione, riferita alla capacità di condividere la sofferenza degli altri, che è la compassione, sono declinate soprattutto al  femminile. Lo sostiene un luogo comune, che vuole le donne più facilmente coinvolte con la propria sensibilità nelle sofferenze altrui, e lo confermano test ed indagini specifiche:  per esempio l’osservazione di visi che manifestano emozioni, sia positive che negative, procura nelle donne molto più che negli uomini una risposta di  contrazione degli stessi muscoli del viso, che è il segnale fisiologico  del rispecchiamento psicologico della stessa emozione. In altri termini: le emozioni sperimentate dagli altri trovano risonanza in chi le osserva e le percepisce come se fossero proprie.

Forse curioso sottolineare che una malattia psichiatrica quale l’autismo, basata sulla totale mancanza di empatia, è diffusa in modo molto più marcato tra gli uomini che non tra le donne.

Insomma: che le donne siano più empatiche è facilmente dimostrabile; sul perché, molti sarebbero gli approfondimenti necessari, che partono dalla considerazione che  di sicuro l’empatia è fondamentale nel rapporto con i bambini, la cui cura nelle prime fasi della vita è affidata essenzialmente a donne; il chè può indurre a pensare ad una sorta di selezione naturale, perché i bambini di madri empatiche probabilmente nel corso dell’evoluzione hanno avuto maggiori probabilità di sopravvivere che non i figli di madri  incapaci di rispondere ai loro bisogni.

L’empatia è fondamentale nelle relazioni umane, ma è innegabile che, in dosi massicce,  sia fonte di stress perché “mangia le risorse”,  destinate ad una risposta basata sul  prendersi cura degli altri e distolta dall’affermazione di sé, affermazione invece perseguita con molto maggiore decisione dall’universo maschile, tanto amante di quel potere che per affermarsi necessita di aggressività e assertività.

E’ fondamentale sottolineare che la presenza dell’empatia, che spesso gli uomini tendono a svalutare come elemento di debolezza e fragilità, è al contrario fonte di un surplus di intelligenza, proprio perché questa ha bisogno di nutrirsi anche di emotività, essendo  le emozioni non un ostacolo ma un facilitatore delle  altre attività cognitive. Di fatto l’intelligenza femminile, non certo  inferiore, è  invece diversa da quella maschile: quanto quella maschile è analitica, logica, deduttiva, tanto quella femminile è sintetica, intuitiva, induttiva. Il pensiero maschile analizza progressivamente, quello femminile parte dalla contemplazione dell’insieme, assorbe l’oggetto della sua conoscenza.

Interessantissimo a questo proposito il fatto che le grandi studiose di primati  della seconda metà del 1900 furono tre donne, attive in periodi in cui il lavoro scientifico femminile era fortemente svantaggiato rispetto a quello maschile: si tratta di Diane Fossey, che si dedicò allo studio  dei gorilla nell’Africa centrale, di Jane Goodall, a quello degli scimpanzé, e di Birkute Galdikas a quello  degli oranghi  del Borneo: donne, quindi, scelte in quanto tali dall’archeologo e naturalista Louis Leakey. Diane Fossey, addirittura, non aveva nemmeno una preparazione specifica, ma, oltre alla passione, era dotata di una fortissima capacità di  empatizzare e di riuscire nella comunicazione dove gli altri non ne erano in grado, per esempio con  bambini disabili.

Prima di loro, lo studio di questi animali era stato condotto da uomini che li osservavano negli zoo e nei laboratori; quello che queste donne fecero, fu di trasformare completamente l’approccio: si trasferirono esse stesse nell’ambiente degli animali che volevano capire, fecero quanto possibile e anche un po’ di più, per entrare in sintonia con loro con una dedizione, che le portò ad una sorta di identificazione, a parlare il loro linguaggio dei gesti e soprattutto ad amare l’oggetto della loro conoscenza,  entrando in contatto con la sua totalità, lontanissime dal precedente modello maschile, uso ad appropriarsi degli animali che decideva di studiare e incapace persino di capire quanto quell’animale imprigionato e asservito ben poco conservasse di naturale. Solo in questo modo fu  possibile che a quelli che prima erano ritenuti solo scimmioni primitivi,  i mostri King Kong,  fosse poi riconosciuta l’essenza di  animali amabili, vegetariani, che vivono in piccoli gruppi coesi.

Per concludere il discorso, va ancora detto che l’empatia, così necessaria in tutte le relazioni che non si vogliano trasformare in predominio, se ha componenti innate ne ha anche altre che vengono apprese attraverso l’educazione e persino attraverso forme particolari di training che insegnano a “mettersi dal punto di vista” dell’altro nelle più disparate situazioni: come ti apparirebbe questa stanza se tu fossi alto come una giraffa? Come vedresti il tuo amico su tu fossi basso come un gatto? Provare per credere: è un esercizio che ha molto da insegnare ad ognuno di noi sulla strada di una reale identificazione nell’altro, tanto più difficile quanto più questi è diverso, non ci somiglia, come succede nel caso appunto degli altri animali.

E’ doveroso infine sottolineare che tutto quanto finora detto ha fatto riferimento a maggiori disposizioni, a dei “soprattutto”: sarebbe infatti fuorviante affermare che tutto il male sia maschile e tutto il bene femminile. Vi sono uomini il cui impegno è forte in favore di tutti i deboli e gli svantaggiati e vi sono, purtroppo , donne che pur senza esporsi in prima persona ad atti violenti, mantengono un ruolo non meno colpevole di sostenitrici o fiancheggiatrici di tante brutture.

E i cambiamenti in atto non sono rassicuranti perché vedono le donne a volte inseguire i non invidiabili primati dei loro compagni, affacciandosi con determinazione  nelle cronache come protagoniste  di omicidi o crudeli attacchi fisici contro persone deboli, le vedono sgomitare per svolgere il servizio militare, mentre qualcuna è già entrata nell’arena a massacrare con entusiasmo tori braccati e  indifesi. Se la lotta è per entrare a livelli di comando nella società così come è, anziché provare a trasformarla, il rischio è che la ricchezza del mondo femminile vada persa rendendosi prona a quella maschile o uniformandosi ad essa magari per compensare atavici sensi di inferiorità.

Per ora, in difesa degli animali, dalle donne sale spesso un grido gridato, laddove dagli uomini il silenzio è in genere rotto da argomentazioni logiche. C’è da augurarsi da una parte che la tutela dei diritti degli animali possa sempre di più divenire appannaggio anche degli uomini lungo un percorso che, nutrito inizialmente di razionalità, trovi il necessario punto di incontro con il sentimento; dall’altra che le donne riescano a dare voce fino in fondo alla loro capacità di vedere, capire, sentire il dolore degli animali, acquisendo la consapevolezza che la cura dei più deboli contiene in sé profondi valori filosofici e ragioni esistenziali. “Tutto è legato a una questione di postura – per concludere con la poesia di Franco Marcoaldi – l’unica chance offerta all’uomo eretto è di sdraiarsi a terra: osservando le stelle insieme agli animali, magari, scorderà di essere macchina di sopraffazione e di guerra”. Sempre che riesca ad alzare lo sguardo verso le stelle senza pensare a come conquistarle. 
(Su Veganzetta, 8 marzo 2015)

giovedì 22 gennaio 2015

PRIDE: ORGOGLIO E PREGIUDIZI, tra minatori, omosessuali e vegane.




                                                    Il recente film “Pride”, uscito pochi mesi fa con la regia dell’ìnglese Matthew Warchus, riporta all’attenzione collettiva uno stralcio di storia contemporanea:  tra il  1984 e il 1985, in piena era thacheriana , la protesta contro il progressivo smantellamento di miniere di carbone fu portata avanti in Inghilterra con un durissimo sciopero di minatori, protrattosi per 51 settimane e infine conclusosi con la ripresa del lavoro, stabilita dall’ala sindacale maggioritaria e morbida: di fatto con una sconfitta rispetto agli obiettivi, ma nonostante questo accompagnata da una risonanza e una solidarietà, in grado di catalizzare un’opinione pubblica  sensibile, ben oltre i  confini nazionali.

martedì 19 agosto 2014

SCAPPA, DANIZA!



  
Esiste un meccanismo, ben noto agli studiosi di psicologia sociale, che fa capo ad un  principio definito di "contrasto percettivo", uno schema automatico di comportamento di cui facciamo spesso uso, anche senza  esserne consapevoli: consiste nel fatto, in fondo banale,   che una situazione appare molto diversa a seconda di ciò che l’ha preceduta. In alcuni laboratori di psicofisica il principio viene illustrato agli studenti, invitati a sedersi davanti a tre vaschette piene d’acqua: la prima gelida, la seconda a temperatura ambiente, la terza calda. Lo studente mette la  mano sinistra nella prima e la destra nella terza, poi entrambe le mani, contemporaneamente, nella seconda. Si accorge con sorpresa che le sue mani, pur immerse nella stessa acqua, la percepiscono in modo molto diverso : la mano che era stata nell’acqua gelida la sente calda, la mano che era stata nell’acqua calda la sente fredda.

giovedì 10 luglio 2014

TUTTA COLPA DELLA NUTRIA


Le nutrie, dal 23 luglio 2014,  non sono più specie protetta, come lo erano state fino al giorno prima, ma, potenza del linguaggio e della legge, sono diventate specie nociva; in quanto tale, possono  essere "eradicate", soggette a "prelievo venatorio": in altri termini giustiziate sul posto da solerti cacciatori, o, in alternativa, catturate con uso di  gabbie e, una voltà  lì dentro,  colpite a fucilate o "gasate".   
Non molte persone sanno un gran chè delle nutrie; o meglio non molti connettono questo nome con quello ben più familiare di castorino, familiare perché fino a non molti anni fa era quello delle pelliccette che molte donne portavano, potendosele permettere perché non eccessivamente costose e perché l’idea che provenissero da un animale, imprigionato per tutta la vita prima di essere ucciso in modi crudelissimi, restava nascosta nei meandri della rimozione. E se poi da lì fuoriusciva, i tempi erano tali per cui si riusciva a convivere con la palese ingiustizia  senza particolari sensi di colpa: animalismo e antispecismo, con tutto il loro carico di nuove consapevolezze e di conseguenti responsabilità, erano tutti ancora da venire. Mentre le mode dettavano i comportamenti e incidevano sulle scelte, i castorini, insieme a tanti altri,  ne pagavano il prezzo, senza che ci si curasse di sapere nulla di loro, di sapere per esempio che erano stati fatti venire da lontano, dal Sud America, perché, vegetariani quali sono, si nutrono di arbusti e servivano quindi anche allo scopo secondario di bonificare le paludi.  Quando nuovi gusti li hanno messi all’angolo e fatti giudicare di troppo, sono stati  serenamente liberati sul territorio vicino a  corsi d’acqua con il nuovo nome di nutrie e hanno cominciato a riprodursi nel disinteresse generale, fino a quando vari disastri ecologici e danni ambientali, frutto di negligenze e cattive politiche del tutto umane, hanno visto in loro l’ideale capro espiatorio dei mali in corso. Tutta colpa della nutria! Dagli all’untore! Sterminiamole tutte! E così, non facciamoci mancare nulla, si è deciso di procedere alla loro uccisione a fucilate; ghiotta occasione per un po’ di sport supplementare per i cacciatori, che in molti casi si sono visti omaggiare cartucce per  decine di migliaia di euro, e  grande sgomitare da parte dei sindaci per vedere il proprio comune accolto tra gli eletti con licenza di uccidere. L’ecatombe è ormai in atto da anni sul territorio nazionale , con centinaia di migliaia, forse milioni, di individui uccisi: secondo le prime cronache, poi tacitate, tra questi ci sono anche quelli che, sfuggiti alla furia dei fucili, sono stati  abbattuti a badilate, senza scandalo.  
Il tutto è stato reso possibile grazie all'efficacia dello schema regolarmente seguito in occasione di ogni carneficina, umana o nonumana che sia: è essenziale, come prima mossa, costruire le condizioni  di base, vale a dire la propaganda secondo cui ci si trova davanti ad una seria minaccia,  fonte di un male inaccettabile. Ce lo hanno bene insegnato i conflitti di ogni epoca, dall’antichità ai giorni nostri, che vedono l’odio artatamente sollevato da una propaganda che ne costituisce  l’imprescindibile punto di partenza. Anche per bruciare le streghe, gentile pratica protrattasi per secoli nella illuminata Europa, era stato necessario convincere la gente di quali malefici fossero responsabili quelle donne, creature di Satana capaci di ogni malvagità. Così la nutria, nella narrazione, è diventata  pericolosa, perchè "nociva", e, in quanto tale,  meritevole di morte. Narrazione in rotta di collisione con la posizione nel frattempo assunta dall'animale, le cui reali caratteristiche di docilità, simpatia, socialità ne avevano fatto il beniamino di molti. Si è dovuto quindi lavorare sulla sua rappresentazione quale essere pericoloso, dannoso, da perseguitare: operazione il cui successo è stato reso possibile dalla diffusa deresponsabilizzazione e dall'altrettanto diffuso ossequio all'autorità, dinamiche tanto comuni tra gli umani, che non amano sentirsi in colpa e nemmeno essere angustiati da pensieri molesti: sono altri i responsabili di quello che succede e comunque per fortuna che c'è la rimozione, che ci permette di non pensarci.
Il consenso alla sua eliminazione è stato così assicurato e  gli esecutori eretti al rango di meritevoli operatori al servizio del benessere comune. 
Niente di originale se si pensa ad  una situazione per certi versi del tutto analoga dall’altra pare del mondo: in  Australia (è la sociologa Nik Taylor a raccontarlo) i rospi, ritenuti una sorta di peste ecologica a causa del loro proliferare, tempo fa sono diventati oggetto di una campagna che invita  la popolazione ad ucciderli “nel modo più umano possibile”, ma i “modi umani”, ahimè per i rospi, non sono alla portata di tutti, e quindi il governo ha  corretto il tiro accontentandosi per  la mattanza  di metodi “facilmente acquisibili ed accettabili” .  Di adattamento in adattamento, il risultato è che molti ragazzi li attaccano con le loro mazze, usandoli come sostituto della palla da crichet o da golf,  a mo’ di allenamento per lo “swing” (vale a dire per far alzare  la palla verso l’obiettivo) sentendosene autorizzati dalla stessa  rappresentazione degli animaletti come dannosi e nocivi, il chè crea consenso intorno al loro pur orrido agire, che non viene stigmatizzato in quanto, al netto di noiosissime considerazioni etiche, è  considerato un atto socialmente utile.

Persino superfluo disquisire sull’ottica squisitamente antropocentrica che è il denominatore comune di queste situazioni: degli animali nonumani si fa ciò che è utile, ma anche solo preferibile, per gli umani, che hanno su di loro incontrastato diritto di vita e di morte, sulla base di considerazioni di pura convenienza.

Un altro elemento è di grande rilevanza: e le analisi di Andrèe Girard sono al proposito illuminanti: nel corso della storia è sempre esistito il capro espiatorio, vittima su cui far confluire  l’aggressività dilagante, vittima scelta in virtù della sua debolezza, mancanza di tutele, incapacità a vendicarsi. Chi più e meglio degli animali può assumere su di sé questo ruolo e quindi la responsabilità  degli errori e delle nefandezze umane, espiare le colpe dei colpevoli al posto loro, attirare su di sé l’aggressività che viene coì distolta dal consesso umano?  E tra gli animali sono quelli più gentili le vittime ideali: dopo la loro mattanza, scaricata la propria aggressività, gli uomini, sempre tanto animosi gli uni contro gli altri, godono di qualche sprazzo di tranquillità,  per una volta in solidale compiaciuta compagnia dei propri conspecifici.

Ancora: per contrastare il numero delle nutrie, giudicato eccessivo, sarebbero possibili  interventi di contraccezione, come dimostrano le iniziative della Regione Piemonte, oppure organizzare spostamenti di massa. Decidere di non mettere a punto altre soluzioni quindi induce ad interrogarsi sui motivi, sulle spinte di base, che l'hanno determinata: e la risposta non può non fare riferimento a posizioni riferite alla violenza, alla sua accettazione e spesso gradimento nell'esercitarla contro le centinaia di migliaia di "esemplari"  uccisi a sangue freddo.   Lecito interrogarsi su chi siano quegli individui pronti ad  ammazzare a catena di montaggio animali indifesi, terrorizzati, che sbatteranno contro le pareti delle loro gabbiette in cerca di una impossibile via di fuga. Lecito interrogarsi sui "dilettanti", vale a dire quei "volontari" a cui alcune regioni hanno fatto riferimento, che evidentemente sono lieti di accorrere  a compiere il lavoro che non considerano affatto sporco; e sui professionisti, che sono i cacciatori, che nei loro siti non mancano di esprimere entusiasmo per il nuovo spazio offerto alla loro brama di uccidere, fonte di dirompente eccitazione. Nessuno di loro pare sentire nelle proprie corde l'eco di quella empatia per l'altro, per il suo dolore,  che è la base di rapporti non violenti e cemento per relazioni che non siano di prevaricazione. Quale annichilimento della solidarietà e del senso di giustizia alimenti il senso di onnipotenza che ogni volta accompagna l’uccisione di qualsiasi essere vivente e senziente dovrebbe essere oggeto di preoccupazione per le autorità, che invece, con le loro scelte, lo legittimano e lo incentivano.

Un’ultima osservazione: tutto ha luogo in territori pubblici, e può succedere che ci siano anche bambini e ragazzini tra gli involontai spettatori . Essendo ormai del tutto assodato che la violenza sugli animali è connessa con un link innegabile a quella contro gli esseri umani e che tante radici del futuro agire sono poste negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza,  rendere i più giovani testimoni  di mattanze che, alla faccia di qualsiasi eufemismo ideato per misconoscerle,  sono innegabilmente tali, carica di responsabilità le autorità: anche se non lo capiscono.

Le nutrie italiane e i rospi australiani, di certo come tante altre specie democraticamente sparse in tutti i posti del mondo, nulla sanno di tutto ciò e, mentre vengono imprigionate, ferite, uccise, avranno magari il tempo di chiedersene la ragione, ma non certamente la possibilità di trovarla tra quelle accettabili: perchè lì non c'è.

“Sono contro la debolezza umana e a favore della forza che le povere bestie ci dimostrano tutti i giorni perdonandoci” diceva Anna Maria Ortese: dell'insensatezza di quel perdono immagino anche le nutrie abbiano preso atto.

giovedì 19 giugno 2014

L’ASSASSINO ANIMALISTA




La soluzione, se di soluzione si tratta, dell’omicidio della giovanissima  Yara è stata occasione per svariati discutibili comportamenti.
 A partire dalle esternazioni in tempo reale del ministro Alfano, alla faccia della necessità di riservatezza invocata dalla procura (la  gente, dice lui, ha il diritto di sapere, qui, tutto e subito: ma perché?????) passando alle varie testate che hanno sguinzagliato giornalisti alla eccitatissima ricerca di qualsivoglia particolare, per ininfluente che fosse, pur di essere i primi a scovarlo.  Ma è la cronaca, bellezza, che  fagogita tutto, tutto quello che riguarda gli altri ovviamente.

In mezzo a tutto questo l’immagine del presunto assassino, fotografato insieme ai suoi cani e gatto, ha immediatamente preannunciato ciò che puntualmente è avvenuto nel giro di poche ore, vale a dire  dichiarazioni , commenti, analisi  psicologiche e sociologiche spicciole,  tese ad affermare che è questo il genere di persone che sostiene le ormai insopportabili istanze “animaliste”: si sono svelati, finalmente! Eccoli qui  chi sono  quelli che amano gli animali!  Occasione ghiotta e imperdibile per gettare un po’ di fango.

Qualche osservazione si impone. A partire dal fatto che del presunto assassino al momento attuale sappiamo che è figlio illegittimo, sposato e padre di tre figli, di professione muratore, cattolico praticante; e che “possiede” cani e gatto. Se il rigore logico induce a creare il link tra una qualsiasi delle informazioni e l’omicidio collegandoli con un rapporto di causa-effetto, con lo stesso rigore logico sarebbero sostenibili affermazioni del tipo: eccoli lì i padri di famiglia, ecco cosa fanno agli altri bambini quelli che hanno i figli. O quelli cha fanno i muratori. O quelli che sono cattolici praticanti. O quelli che sono figli illegittimi. Ma queste connessioni, nella loro inaccettabilità, non vengono ovviamente alla mente di nessuno. Quella sugli animali sì.

Di fatto, e sempre che le attuali notizie vengano confermate,  quali siano i mostri presenti nella mente di quest’uomo sarà possibile saperlo solo una volta conosciuta tutta la sua vita, messi a fuoco i suoi pensieri, illuminati i suoi abissi  interiori . Ma che nella sua vita ci sia e ci sia stato posto per i suoi animali è un elemento che davvero ben poco aggiunge al quadro in fieri, per lo meno non più di quello che aggiunge  la presenza dei suoi tre figli.  Non avrebbero dovuto essere loro prima di tutto ad elicitare in lui inclinazione paterna, intesa quale affetto, ma anche senso di responsabilità, dovere di cura, capacità di identificazione, empatia? Non avrebbe dovuto essere  la presenza dei suoi  bambini a renderlo un uomo per certi versi migliore perchè più ricco emotivamente,  capace di immedesimazione, di mobilitare se mai energie positive in favore di altri bambini in cui riconoscere la stessa ingenuità e vulnerabilità ad ogni pericolo , che avrà pure imparato a riconoscere nei suoi?

Ancora: non avrebbe dovuto essere l’interiorizzazione del messaggio cattolico, con tutti i  correlati riferiti alla necessità di amore fraterno tra tutte le creature, a costituire barriera insormontabile all’emergere di impulsi tanto distruttivi?

Niente di tutto questo  ha avuto luogo e una ragazzina che camminava presa dai suoi pensieri, che avrebbe dovuto se mai sollecitargli una simpatia protettiva, ha mobilitato in lui un atteggiamento predatorio e di rara crudeltà.  

Chi ne avrà il compito, avrà modo di ripercorrere la strada che ha portato questo uomo (se di lui si tratta) a quel sonno della ragione che genera mostri; cercherà di ricostruire quella sua realtà in cui la relazione con gli altri è evidentemente radicalmente distorta. Ed è facile immaginare che molti elementi andranno a definire anche il quadro del rapporto con i suoi figli: già qualche elemento pare emergere, relativo al divieto che loro dava di condurre una normale vita sociale; il resto sarò tutto da vedere.


Ciò che pare incontestabile è, comunque,  che l’essere padre di tre bambini non lo ha reso un uomo capace di rispetto per un’altra bambina simile a loro; essere cattolico praticante non lo ha indotto ad introiettare messaggi di pacifica e amorevole convivenza; amare due cani e un gatto  avrebbe dovuto riuscire a farlo? Siamo di fronte ad un’immane tragedia in cui sono saltate le norme di riferimento, morali e comportamentali, alla base delle stesse relazioni umane su cui è fondata la società; tragedia  che potrà essere capita solo attraverso standard esplicativi ben diversi da quelli utili in un quotidiano più familiare.

Usarla per  una speculazione contro gli “animalisti” è quanto di più inopportuno si possa ideare, possibile tra l’altro solo in virtù  dell’ignoranza delle  istanze portate avanti da tutti coloro che degli animali non umani si occupano e si preoccupano costantemente nella convinzione profonda che il rispetto per loro come per tutti gli esseri viventi sia elemento imprescindibile di una società che davvero voglia liberarsi di tutte le istanze violente che la popolano. Società che, ahimè, è mille miglia lontana da quella in cui viviamo, come le cronache di questi giorni ci buttano in faccia con rara durezza.

lunedì 14 aprile 2014

AGNUS DEI






Ancora  pochi giorni e la mattanza comincerà per poi raggiungere il suo culmine in vista della Pasqua: l’agnello di Dio sarà ancora una volta  costretto suo malgrado  a togliere i peccati dal mondo, e inutilmente alzerà i suoi lamenti che arriveranno al cielo senza incrociare la pietà che invocano. E’ lui, perchè innocente, la vittima ideale per pagare le colpe dei colpevoli. “Felici le madri di questi agnelli sacrificali? – si chiede Josè Saramago nel suo Vangelo secondo Gesù Cristo - Quelle madri, se lo sapessero, ululerebbero come lupi”, perché  loro mai  avrebbero immaginato questa fine quando, neonati,  li leccavano e li nutrivano e volevano solo, quelle madri, farli crescere i loro piccoli per poi lasciarli  andare, a brucare l’erba o a correre nei prati. Non avevano capito cosa li attendeva; nè c’è da stupirsene perché nessuna legge naturale potrebbe contemplare  il teorema  indimostrabile per cui il peccatore lava le sue colpe con un altro peccato, quello dell’uccisione di un innocente, di milioni di innocenti, che devono essere fragili, teneri, indifesi:  un paradigma che trova nel diritto del più forte l’unica giustificazione. E così, secondo  riti e tradizione, la pasqua di sangue approntata in nome della pace inonderà la terra.

Per altro il significato di vittima sacrificale, che pure con tanta foga viene rispolverato e rinvigorito ad ogni Pasqua, per la gran parte  della gente è ormai solo una pallida e scolorita giustificazione:  la ricorrenza è piuttosto l’occasione per l’apoteosi di una mattanza che, come ci dicono i numeri,  non ha tregue nel corso di tutto l’anno,  al di fuori di qualsiasi riferimento religioso, per l’esclusivo e paganissimo piacere di un “piatto” evidentemente apprezzato.

Le parole che stigmatizzano come inaccettabile per la sua crudeltà l’uccisione degli agnelli, oscenità tra le altre oscenità dell’uccisione di ogni animale, sono evanescenti, a volte esercizio letterario che tocca qualche corda e si scioglie in turbamento passeggero : le immagini no, le immagini colpiscono con la forza dell’evidenza:  non mentono e non tacciono. E allora i video,  inguardabili per la violenza che mostrano ma da guardare per il dovere etico di sapere,  sono quelli che sbattono in faccia la realtà, ciò che avviene nei luoghi della mattanza, che è la quintessenza del male: esseri totalmente indifesi, miti per antonomasia, innocenti per definizione, sono strappati alle madri, sottoposti a viaggi terrorizzanti, pesati, appesi per le zampe, uccisi  con un coltello che recide la gola e che a questo punto si vorrebbe affilato, ma non sempre lo è e l’agonia si prolunga: belati terrorizzati , sangue ovunque, gemiti e strida. E poi le urla degli addetti ai lavori, uomini resi brutali dal loro stesso “lavoro”.

Le indagini condotte a termine da associazioni per i diritti degli animali sono sconvolgenti quanto necessarie, perché la cultura occidentale in cui viviamo immersi ha posto in essere nei confronti della sofferenza animale e di tutte le sue forme più estreme un meccanismo di nascondimento e occultamento, al servizio di quel connubio tra sensibilità ed egoismo che ci contraddistingue: non vogliamo vedere perché, anime belle  e amanti degli animali quali ci piace considerarci, siamo refrattari a  tanto orrore; ma non vogliamo rinunciare a qualsivoglia piacere seppure sbrigativo e perso tra gli innumerevoli altri che ci concediamo, quale che sia il prezzo che altri, altri animali, pagano.

Il nostro processo di civilizzazione,  mentre condanna la violenza in tutte le sue forme, in realtà la subordina ad  un grandioso processo di rimozione e negazione, che vorrebbe, questa violenza,  annullarla o almeno mistificarne  il senso e la portata. Le immagini, frutto di investigazioni rigidamente clandestine, ci colpiscono con tutta la violenza che portano con sé e ci costringono a prendere atto di ciò che supportiamo con i nostri stili di vita e le nostre abitudini alimentari e  di cui rifiutiamo di sentirci responsabili. Come spesso succede in questi casi, ad essere messi sul banco degli imputati sono coloro che pongono in essere indagini scomode e magari pericolose, infrangendo una legge che, al servizio dell’opera di nascondimento in atto, proibisce che venga mostrato ciò che è politicamente, umanamente, eticamente vergognoso che abbia luogo.

In atto , lo vediamo, è una realtà di violenza inaudita, che suscita estrema pietà per gli agnelli e orrore per quanto subiscono, ma deve anche indurci ad interrogarci sulla cultura in cui siamo immersi:  davvero vogliamo continuare a convivere con la mattanza di questi cuccioli di animali, gli stessi  che, in una sorta di totale schizofrenia,  in altri momenti offriamo all’interessamento  intenerito dei  bambini, nelle favole, nei peluches, nei cartoni animati, come loro  piccoli  e stupiti davanti al mondo, che guardano con curiosità e attesa, da una vicinanza di sicurezza con la propria mamma, da cui si aspettano protezione?  

Altre considerazioni incalzano ed esigono riflessioni: esiste un mondo di uomini a cui viene delegato di svolgere in prima persona il lavoro sporco: bistrattare e poi sgozzare esseri indifesi, farlo ogni giorno, a catena di montaggio, opponendo la tenace determinazione a portare a termine il compito ai gemiti e ai belati, alle invocazioni di aiuto e alle grida di dolore, non resta senza conseguenze. Anche quelli che non hanno avuto scelta,  di certo facendo quello che fanno, qualunque fosse la loro realtà di uomini prima che tutto cominciasse, non possono che trasformarsi  in persone brutali, insensibili, sorde al dolore altrui quando non addirittura capaci di infierire con ancora maggiore violenza sulle vittime. Della trasformazioni di tutti costoro , che sono  la mano sporca della mattanza, deve assumersi la responsabilità chiunque, a tavola, del loro lavoro sia l'utilizzatore finale.

Una società che in parte non si vergogna di esporre cadaveri di agnelli, appesi a testa in giù ai ganci delle macellerie, in parte invece preferisce che il “prodotto” che arriva sulla tavola sia irriconoscibile e non rechi tracce dell’animale da cui proviene, è comunque una società che convive, ammette, incentiva atrocità, non meno orribili per il fatto di essere  legalizzate I suoi miasmi non possono che intaccare le nostre vite e le nostre coscienze esattamente come succede nelle società che ammettano la pena di morte: la mitezza è al bando e in modi indiretti e diversificati ognuno ne sarà contaminato. Nessuna società può aspirare ad essere considerata giusta e pacifica se al proprio interno la prepotenza, la crudeltà, le atrocità, le efferatezze sui più deboli sono abitudini quotidiana, chiunque ne siano le vittime, umane o nonumane: solo forme diverse di una stessa oscenità.

In conclusione, un esercito di vite appena nate sta per l’ennesima volta per essere immolato sull’altare dei nostri credi e più prosaicamenti dei nostri appetiti, come succede ogni giorno con tutte le altre specie non umane, egualmente sfruttate e martirizzate.   
E' improcrastinabile un cambio di paradigma che riconosca come inaccettabile questa come ogni altra violenza esercitata contro esseri innocenti e indifesi: allo stato delle cose, mentre i poteri forti pervicacemente rifiutano  i cambiamenti necessari, è del tutto chiaro, con le parole di  Danilo Mainardi, che “le scelte esercitate contro gli animali sono anche scelte contro di noi”: non verità belle da enunciare, ma chiave di lettura quanto mai attuale di ciò che sta invadendo le nostre vite.