giovedì 22 gennaio 2015

PRIDE: ORGOGLIO E PREGIUDIZI, tra minatori, omosessuali e vegane.




                                                    Il recente film “Pride”, uscito pochi mesi fa con la regia dell’ìnglese Matthew Warchus, riporta all’attenzione collettiva uno stralcio di storia contemporanea:  tra il  1984 e il 1985, in piena era thacheriana , la protesta contro il progressivo smantellamento di miniere di carbone fu portata avanti in Inghilterra con un durissimo sciopero di minatori, protrattosi per 51 settimane e infine conclusosi con la ripresa del lavoro, stabilita dall’ala sindacale maggioritaria e morbida: di fatto con una sconfitta rispetto agli obiettivi, ma nonostante questo accompagnata da una risonanza e una solidarietà, in grado di catalizzare un’opinione pubblica  sensibile, ben oltre i  confini nazionali.
 Sullo sfondo  di  questo avvenimento, quello su cui si incentra il film è un aspetto  del tutto specifico e in qualche modo straordinario, vale a dire  una inattesa e apparentemente strampalata alleanza tra una piccola comunità di scioperanti, nel Galles,  e il mondo omosessuale: è infatti un gruppo di coloratissimi attivisti londinesi, gay e lesbiche, gravitanti intorno  ad una libreria del centro, che offre solidarietà ai minatori di un paesino del Galles. Il rude machismo dei minatori resta sconcertato  e si sente minacciato nella propria identità dall’irrompere al proprio interno di un mondo tanto diverso: che, anticonformista, libertario, insofferente delle regole, attacca il perbenismo e, del tutto alieno da sentimenti di   vergogna, fa  bandiera della propria orgogliosa diversità. La storia cinematografica si dipana nel progressivo avvicinamento delle due comunità, che abbatte i muri di incomprensione e diffidenza. I minatori si sentono inizialmente spaventati e sviliti dal sostegno anche economico che i gay offrono: consapevoli del valore della propria lotta, che è di classe, degli operai contro i capitalisti, possono contare su una tradizione, che si appella al senso di giustizia e  alle lotte di sempre tra sfruttati e sfruttatori. Cosa ha a che fare con loro quel mondo variegato e sconosciuto, da sempre additato al pubblico ludibrio quando non perseguitato penalmente, che mette in discussione i loro canoni di virilità? Sono gli omosessuali, per tutta l’azione identificati proprio per la loro appartenenza sessuale, a cogliere invece ciò che li lega: anche  loro minoranza, misconosciuti nei propri diritti, ai margini di una società che non li riconosce e li umilia nella loro dignità, diventano velocemente consapevoli dell’importanza di un fronte comune che li rafforzi reciprocamente; capiscono soprattutto che battersi per i propri diritti non serve se non ci si batte per i diritti di tutti coloro ai quali tali diritti non vengono riconosciuti. L’inedita alleanza sfocerà poi nella incredibile quanto defilata partecipazione dei minatori al primo Gay Pride di Londra e poi nel riconoscimento dei diritti degli omosessuali, ottenuto anche grazie al decisivo appoggio della forte organizzazione dei minatori all’interno della Camera dei Lords.
Tantissimo c’è da imparare: c’è da imparare la lezione, tante volte impartita ma mai davvero introiettata, che la lotta dei deboli può rafforzarsi solo grazie ad un fronte comune che faccia evolvere  la debolezza in forza; e che è fondamentale riconoscere il denominatore comune in tutte le dinamiche di sfruttamento che accomunano l’interesse a mantenere gruppi, categorie, realtà in posizioni svantaggiate. Il richiamo alle lotte in difesa degli animali è del tutto evidente: l’anima dell’antispecismo come atteggiamento di rivendicazione di diritti che non devono essere in funzione dell’appartenenza ad una specie, ad un genere, ad una razza  dovrebbe finalmente e davvero trasferirsi dal piano teorico a quello dell’attivismo, riconoscendo la fondamentale esistenza dei punti di contatto.
E’ ancora il film ad essere illuminante, se pure in forma facilmente fraintendibile, su un’altra questione: le donne della comunità dei minatori, che per altro sono molto più aperte e curiose dei loro uomini rispetto agli omosessuali, che hanno rivoluzionato, in modo  a volte pacifico e scanzonato, a volte rabbioso, a volte divertito, le loro vite, sono preoccupate di non apparire  ospitali con le ragazze, perché, dicono, “le lesbiche sono vegane”. Cosa preparare da mangiare per loro?!  Purtroppo la battuta, regolarmente e non casualmente  riproposta nei trailer, è scandita in modo da provocare risate. E così facendo viene dstituita della sua portata, che invece è grande: perché “le lesbiche” consapevoli della necessità di lottare per i propri diritti, come per quelli dei minatori, sono altrettanto consapevoli dell’esistenza di altri sfruttati, animali non umani, nei confronti dei quali un atteggiamento di rispetto non può prescindere dal  rifiuto di usarli come cibo. La connessione è fatta, quella connessione che con modalità variegate fa da sfondo alle tematiche dell’ecofemminismo, che da alcuni decenni scandaglia le dinamiche di oppressione delle donne, della natura, degli animali, mettendone in evidenza il denominatore comune. Per altro, ben  prima che il termine, nel 1974,  fosse coniato o che comunque la consapevolezza desse luogo a teorizzazioni, l’avvicinamento del mondo femminile alle questioni del vegetarismo  (solo successivamente si potrà parlare di  veganismo) è testimoniato dalle scelte, per esempio, di molte attiviste che lottavano contro la schiavitù e per i diritti delle donne nei decenni di fine ‘800 e inizio ‘900. Un grande file si apre sulle differenze di genere. Non è certo un caso che, nell’episodio ripreso nel film, siano le donne, non gli uomini ad essere vicini alla questione animale: l’approfondimento esula totalmente dagli intenti del regista: ma, al di là delle sue intenzioni di limitarsi solo a sfiorare l’argomento, l’informazione esiste per chiunque abbia voglia di coglierne e approfondirne il senso.
La ripresa filmica di questa imprevista alleanza tra minatori e comunità omosessuale è l’occasione per un ripensamento doveroso sul fatto che proprio le  alleanze possono trasformarsi in  formidabili strumenti di lotta, alleanze da ricercare e  perseguire anche al di fuori di schemi prestabiliti. Il discorso appare  forse scontato a livello teorico , ma, se applicato al  grande movimento dei diritti animali, non si può non prendere atto che, lungi dall’allargare il proprio raggio d’azione con modalità inclusive delle tante realtà in divenire, non fa che, all’opposto, frammentarsi in piccole entità le quali sono puntate sull’ingigantire le differenze reciproche, a scapito della vastità del comune terreno di azione.
Un’espressione coniata da Freud, “Narcisismo delle piccole differenze”, appare illuminante: designa un fenomeno generalizzato, che investe ogni contesto e relazione: ogni rapporto contiene in nuce avversione e ostilità, al servizio dell’affermazione dell’Io dei singoli, che si vedono minacciati, da una parte da chi è  estraneo,  dall’altra da chi è tanto simile. Così ogni differenza, lungi dall’essere apprezzata perché preziosa e arricchente, viene amplificata; ogni affermazione diversa dalle proprie appare ignobile e insopportabile. Lo psicanalista Massimo Recalcati è convinto, al proposito, che proprio con chi riteniamo più simile a noi esprimiamo il peggio e richiama le affermazioni di Aristotele sull’invidia, che proviamo non verso chi è molto diverso, ma piuttosto chi ci è vicino. Basterebbe pensare al livore che contraddistingue comunità vicine, quali inglesi e scozzesi ; oppure ai derby calcistici che,  opponendo squadre e tifosi di una stessa città, Milan-Inter o Lazio-Roma tanto per citare, sono l’occasione per l’espressione di punte inconcepibili di competitività; o a quei comuni che conservano nella propria denominazione due nomi che finiscono per designare confini mentali (quelli fisici sono al massimo le rotaie di un tram, magari in disuso) al servizio di una sconcertante divisione tra supposte insormontabili diversità: in aree di qualche km quadrato!
In sintesi e del tutto semplicisticamente, nella lotta per i diritti animali la  creazione di fronti comuni quanto più possibile coesi, da creare con convinzione, forza e magari fantasia, potrebbe aprire percorsi  inaspettati.  
Ma vale la pena cogliere un altro spunto da quel  film scoppiettante che è Pride: si è detto di come un’informazione dalle valenze enormi, che introduce il tema del veganismo all’interno di un più ampio discorso sui diritti,    sia offerta in una cornice che la risolve in una battuta anziché in  una spinta ad una necessaria riflessione. È utile coglierlo questo spunto perché l’episodio non è certo solitario nel panorama cinematografico o comunque dello spettacolo in generale,  dove la traduzione del fenomeno  in crescita esponenziale del rispetto per gli animali a livello culturale e della sensibilità di molti, si ferma ad un livello di sconcertante povertà intellettuale. Se è vero, come affermava  John Stuart Mill,  che «tutti i grandi movimenti, inevitabilmente, conoscono tre stadi: il ridicolo, il dibattito, l’accoglimento.» , secondo una dilagante rappresentazione delle cose a livello almeno di una parte dei media, il rispetto per gli animali sembra ancora saldo al primo livello, quello della ridicolizzazione . Viene in mente la battuta infelice di un altro recente film, “Il figlio dell’altra” (Lorraine Levy, Francia, 2012) sulle tematiche tutt’altro che risibili  della convivenza tra palestinesi ed ebrei: uno dei protagonisti, per svalutare l’intervento del medico della moglie, non trova nulla di meglio da dire se non riferirsi a lui definendolo “quel tuo psichiatra vegano…”: immancabili risate in sala per una perla che la regista avrebbe ben potuto risparmiarsi. Oppure ci si può rivolgere ad un serial televisivo di grande successo quale “Un posto al sole”, nel quale, tra frigoriferi straripanti di carne e piatti di pesce da cui la napoletanità sembrerebbe non poter prescindere , la vegana della situazione è Lori, ragazza che non fa che accendere candele profumate per casa, e, tra un viaggio e l’altro  in India, sedersi a recitare mantra a gogo.   Che dire? Reazioni scomposte per arginare un fenomeno molesto? Identificazione con una maggioranza infastidita dallo stato delle cose e rassicurata, grazie al  bassissimo livello delle battute, che si possa stare tranquilli perché si tratta solo di cosa  da riderci sopra? Reale incapacità di interpretare  scelte alimentari come scelte di vita?  Questo e molto altro ancora. Di sicuro, in ogni caso, fenomeno e atteggiamento da non sottovalutare, perché agisce ad un livello quasi subliminale mandando impliciti messaggi: non preoccupatevi: il veganismo è stravaganza accessoria di individui stravaganti. Anche all’interno di un altro recente film, “Hungry hearths” (Saverio Costanzo, Italia 2014), il riferimento al veganismo non esce meglio: in questo caso il regista non si limita ad una battuta fuori luogo, ma fa ben altro: attribuisce alla protagonista (neomamma ossessionata dal bisogno di proteggere il proprio bambino da ogni contaminazione al punto da non nutrirlo sufficientemente, con conseguente serissimo rischio di morte), una scelta alimentare vegana per lei e per il figlio. 
Bene: la complessità della realtà è grande. Decodificarla è primo imprescindibile passo, con gli occhi bene aperti su ciò che è di per se stesso evidente e su  ciò che si insinua in modo più strisciante nelle nostre e nelle altrui menti: se davvero si vuole lavorare per il necessario cambiamento, che  delle forze coese di tutti ha costante necessità.

                                                                                               

7 commenti:

  1. Grazie da parte di Veganzetta

    RispondiElimina
  2. annamaria, che articolo denso e ricchissimo di argomenti notevoli su cui riflettere.
    tra tutto, mi ha colpito tantissimo il riferimento freudiano, è proprio vero che troppo spesso gli animalisti si dimenticano proprio dei viventi che dovrebbero essere al centro dei loro impegni, e si 'perdono' in diatribe nutrite di invidia.
    per il resto, credo propprio che guarderò Pirde alla prima occasione. Comoplimenti, come sempre!

    RispondiElimina
  3. Eh si, Giovanni: a me sembra che la realtà offra ogni giorno incredibili spunti per discutere e ripensare alla questione animale. Sarebbe bello riuscire a farlo unendo le forze, anzichè dividendoci.
    Un abbraccio

    RispondiElimina
  4. spesso per il gusto di una battuta si svalutano cose che meritano un approfondimento o niente, la battuta semplifica e distorce, è strabica

    RispondiElimina
  5. Più che d'accordo Francesco. Battuta significativa comunque di un forte disconoscimento del problema

    RispondiElimina
  6. Collaborazione e condivisione di tutti: si, occorrono le forze di tutti. Se ognuno fa tutto quello che è in grado di fare, molto potrebbe succedere. Il prolema è che a volte sottovalutiamo noi stessi e la nostra forza potenziale. cari saluti a te!

    RispondiElimina