Ci
risiamo, niente di nuovo sotto il sole, corsi e ricorsi storici, dejavu che
stancamente si ripetono.
La
nuova campagna della Confederazione
Elvetica contro gli stranieri che rubano il posto di lavoro a chi è nato
sul suolo patrio (no! Non stiamo parlando dell’Italia: potrebbe sembrare, ma
non è così) si intitola BALAIRATT, ballano i topi: e tre topastri incarnano lo
sporco spregevole che viene da fuori, dalle altrui fogne: la soluzione? Ovvio:
derattizzare.
Di
tutto si può accusare questa campagna tranne che di originalità: l’altro, il
diverso, lo straniero, e poi piano piano a seguire il nemico, quello da cui
guardarsi e quello da eliminare, ha le fattezze di un animale. Il meccanismo è
funzionale ad accentuare le differenze: tanto maggiori queste sono, tanto più
forte è l’identificazione con il proprio
gruppo di appartenenza, che spesso non ha altri elementi di coesione se non la
distanza da altri.
Tali
metafore divampano soprattutto nel corso delle guerre, quando i freni inibitori
di qualsiasi tipo collassano, e la necessità di sollecitare aggressività e
violenza diventa fondamentale, ma non sempre facile, dal momento che il nemico
è identificato come tale dalla classe al potere, ma non da chi deve andare a
ucciderlo.
La
costruzione del nemico può ricorrere ad
immagini che solleticano azioni e reazioni violente; ecco allora le metafore animali servire allo
scopo: gli animali più gettonati sono i maiali, i cani che devono essere
rabbiosi o rognosi, i topi, gli scarafaggi, le formiche. Per limitarci alla
storia moderna, Martin Lutero chiamava maiali gli ebrei; gli indiani del nord America venivano
definiti lupi, serpenti e babbuini; la
propaganda nazista equiparava gli ebrei a topi da stanare; Mussolini preferiva le cimici slave; i
giapponesi si riferivano ai cinesi come a maiali; tacchini vennero chiamati gli
irakeni nella guerra del Golfo e scarafaggi i Tutsi ad opera degli Hutu.