giovedì 22 dicembre 2016

Non fare l'asino, regalalo! Come tormentare gli animali e sentirsi generosi



Viene giudicata originale, persino un  po’ impertinente la trovata della Caritas altoatesina di  promuovere quest’anno un modo alternativo di festeggiare un natale che sia solidale anziché consumistico: sì, perché  non pensa solo agli alimenti per le persone bisognose dell’Alto Adige, alla legna per gli anziani della Serbia, alle scarpe per i bambini boliviani, agli  alberi da frutta per l’Etiopia, alle sementi per Haiti o a un pozzo per una comunità del Kenia, ma si compiace del proprio anticonformismo nel proporre come regalo a comunità bisognose un asino o una capra, che vanno ad arricchire il parco-animali delle ormai usuali mucche, offerte come dono da altre associazioni umanitarie.
Le battute si sprecano: e quindi l’asinello impacchettato  con tanto di  fiocco sopra è  pretesto per immancabili spiritosaggini sullo stereotipo della presunta stupidità della sua specie: non fare l’asino! Oltre all’uso, anche lo scherno, tanto alla luce di cause  nobili tutto si può sdoganare.

sabato 19 novembre 2016

IL CANE ANGELO, randagio  di Calabria


    
Angelo è il nome dato al cane di Sangineto, provincia di Cosenza, massacrato per gioco da quattro balordi, anzi no, molto peggio:  da quattro ragazzi normali. Nome, quello di Angelo, che riporta ad una contaminazione distrattamente trascurata: quella di un essere umano che è però dotato di parti squisitamente animali, le ali, che, lungi dallo sminuirlo, gli attribuiscono un’essenza soprannaturale, che va oltre l’umano per collegarsi direttamente con il trascendente. Essere che racchiude in sé in modo ben visibile quella animalità, che siamo portati a dimenticare, a disconoscere e a misconoscere: e il cane Angelo, che scodinzolava a quelli che lo bastonavano e non reagiva mentre lo stavano ammazzando a badilate, ma li guardava, indifeso e mite fino all’ultimo respiro, davvero sembra testimoniare di un’essenza tanto più grande della nostra, incomprensibile a chi si limita a ragionare sul registro di azioni e speculari reazioni: azioni che, quando sono violente, generano reazioni che lo sono altrettanto.

La storia di Angelo ha riempito le cronache recenti, sollevando enorme indignazione, ma sfortunatamente è solo la punta dell’iceberg di una situazione molto diffusa: Angelo è assurto alla ribalta di una cronaca nero pece soprattutto perché della sua tortura si sono vantati i responsabili, che l’hanno filmata e  messa in rete, in quel moderno ricettacolo cioè, che è una sorta di cloaca massima in cui tutto confluisce, senza filtri, alla ricerca di una visibilità che amplifichi le proprie “gesta”, e lusinghi di una popolarità perseguita con ogni mezzo. Nel caso diffuso in cui non si abbia altro di cui vantarsi, ci si vanta della propria pochezza, scambiandola per audacia: purchè gli altri  guardandoci ci illudano che meritiamo attenzione:  e si arriva a mettere in scena un film dell’orrore, ridendo e sghignazzando.  

sabato 22 ottobre 2016

PRODOTTI ANIMALI NELLA PUBBLICITA’? SE LI RICONOSCI, MAGARI LI EVITI


   Ogni adulto, che sia in grado di pensare, che non sia  sottoposto a costrizioni, e che abbia libero accesso ai mezzi di informazione è di fatto responsabile delle proprie azioni. Anche l’essere o non essere vegani, quindi, non è categoria dell’essere, ma scelta libera e consapevole, somma di comportamenti che dovremmo controllare. Dovremmo, per l’appunto, ma troppo spesso non lo facciamo: perchè non fluttuiamo in uno spazio vuoto in assenza di gravità, ma siamo impastati nella cultura che ci plasma, ci intride e ci condiziona, attraverso meccanismi a cui tendiamo troppo spesso a  soggiacere passivamente, senza riconoscerli, lasciandoci cullare nell’inerzia dell’irresponsabilità. Cultura che tendiamo a scambiare per assoluto, ogni volta che siamo incapaci di coglierne la relatività.
Affiancare al termine cultura quello di  pubblicità può sembrare un azzardo, un ossimoro, ma,  al netto di snobismi, la sua influenza, forte di una presenza pervasiva e ossessiva, è enorme nel  modellare i costumi di quelli che ne sono gli utenti, cioè inevitabilmente tutti noi,  talvolta fruitori attenti e convinti, molto più spesso ascoltatori distratti, ma anche in questo caso inconsapevolmente permeabili ai messaggi.

sabato 1 ottobre 2016

IL MIO CANE é VEGANO: FOLLIA o LOGICA STRINGENTE?




 
Il Corriere della Sera è sempre il Corriere della Sera: se l’inserto La Lettura, dedicato all’Animalità, coniugata in diverse forme e approcci, viene riproposto per un’intera settimana (4/11 settembre 2016), il tema è evidentemente di grande appeal, e l’impatto è forte: per la lettura che dà della realtà e per come con le sue tesi la  realtà è in grado di modellarla.

Dato atto della copresenza di articoli diversificati, quali quello più scientifico di Leonardo Caffo sull’addomesticazione, risulta quanto mai interessante capire quale sia l’ottica di osservazione di  uno degli interventi di prestigio: è fuori discussione che   Chiara Lalli, filosofa, saggista, giornalista, autrice dell’articolo titolato in forma di supplica, “Per favore lasciate che gli animali facciano gli animali”, sia indispettita nei confronti dell’atteggiamento almeno di parte degli umani nei confronti di almeno di parte degli animali: nello specifico di quegli umani troppo coinvolti nella cura di alcuni non umani. La sua cultura  è tale per cui non si può certo ipotizzare che parli senza cognizione di causa: ma di certo esprime  una posizione smaccatamente di parte, che si limita a sfiorare l’enorme questione animale riferendosi a pochi episodi connotati da stupidità trattandoli da  indicatori di una sorta di deriva morale. Nel suo articolo, tanto per capirci, cita e ricita il circo, non per stigmatizzare l’ignominia della prigionia e dell’asservimento di animali nati liberi per essere liberi, ma solo per ricordare che alcuni di loro, nello specifico uno struzzo e un ippopotamo, una volta “salvati” da quel contesto,  sono poi stati investiti e uccisi e si pone  conseguentemente la domanda, che vorrebbe essere retorica, se possa essere considerato immorale usare gli animali nei circhi a fronte della perfetta ammissibilità del loro uso quali pet: immoralità di cui lei non pare scorgere traccia. Non si può controbattere alle argomentazioni della Lalli in poche righe, perché è tutta la questione animale a gridare vendetta davanti alla sua riduzione al ridicolo (ridicolo “consumato fino a farlo scomparire”, nelle parole che lei stessa usa) in nome di alcuni comportamenti da sfaccendati, smaccatamente ricchi e annoiati, i quali fanno clonare il proprio pet a suon di migliaia di dollari o acquistano accessori che neppure Dolce & Gabbana nei momenti di loro massimo splendore potrebbero ideare. Nelle sue parole non manca un pensiero reverente anche alla sperimentazione, in mancanza della quale, ammonisce, si farebbe un danno anche agli animali stessi a causa del mancato progresso della scienza veterinaria: preoccupazione di chiaro stampo altruista che pare non scorgere, come epicentro della vivisezione,   la sperimentazione di qualsivoglia ennesimo nuovo farmaco ad uso squisitamente umano, che si serve nella quotidianità di esperimenti , fonte di indicibile sofferenza , e spesso esitano in  una morte che finisce per essere unica via di salvezza all’orrore .

giovedì 15 settembre 2016

I CANI: NELLA BUONA E NELLA CATTIVA SORTE




Non è un caso che tanto di loro si sia parlato e siano apparsi in struggenti fotografie: a fronte di tutti gli altri animali coinvolti, che, ad eccezione dei gatti, sono stati riuniti nell’unica distorta espressione di “animali da allevamento” e valutati esclusivamente in termini di danno economico per i “proprietari”, loro appartengono alla specie  tra le più amate in assoluto nel mondo occidentale e di conseguenza siamo pronti ad accoglierli nel nostro paradiso di santi e di eroi e nel nostro inferno di dolore.

sabato 3 settembre 2016

SAGRE SULLA PELLE DEGLI ANIMALI, USATI E MANGIATI




  

Quando  si parla di tutela degli animali, il riferimento principale è alla legge 189 del 2004, (che in verità, come sancisce il Titolo IX-BIS, dichiaratamente tutela non loro, ma il sentimento degli uomini nei loro confronti) : questa, dopo avere analiticamente descritto le sanzioni previste per il vasto repertorio di maltrattamenti, sevizie, strazi, uccisioni a cui gli uomini tanto spesso li sottopongono, all’art. 3 chiarisce che gli stessi comportamenti non sono sanzionabili quando hanno luogo in riferimento a caccia, pesca, allevamento, trasporto, macellazione, sperimentazione scientifica, attività circense, zoo, manifestazioni storiche e culturali.

La vastità di deroghe al divieto di tormentare gli animali si risolve di fatto in una loro tutela assolutamente parziale e non è da sottovalutarne un aspetto conseguente, relativo al  fatto che le autorizzazioni ai maltrattamenti concesse dalla legge determinano inevitabili effetti anche nel costume: perchè sanciscono quello che, essendo legale, è non solo permesso, ma anche connotato con parametri di giustizia, secondo una spesso automatica sovrapposizione dei concetti di giustizia e legalità.

venerdì 26 agosto 2016

TUTTO QUESTO DOLORE: gli animali nella vivisezione

 "La barbarie più inumana”, “La più grave questione dell’umanità”: così definisce la vivisezione, nella seconda metà del 1800, Richard  Wagner nella sua “Lettera aperta al signor Ernst von Weber”. Oltre un secolo e mezzo più tardi le stesse definizioni conservano tutto il loro senso e la loro pregnanza; da allora le cose sono cambiate solo dal punto di vista formale, in sintonia con lo spirito della civiltà occidentale che, in merito ai delitti contro gli animali, e non solo,  ha messo in atto una enorme azione di occultamento e di allontanamento dalla vista e dalle coscienze, rimuovendo tutto quanto può turbare la sensibilità umana, metro e misura del lecito e dell’illecito.  Lontani sono infatti i tempi in cui la vivisezione veniva addirittura praticata alla luce del sole: si  era nella Londra della seconda metà dl 1600 e la Royal Society poteva agire, forte degli enunciati di Cartesio  che,  identificando l’essenza degli  animali nel loro essere macchine e automi,  avevano  dato licenza di infliggere loro i peggiori tormenti. A testimonianza che qualunque pratica necessita di un contenitore di pensiero che la giustifichi e la renda possibile. Allora i terribili esperimenti erano resi  pubblici  e le relative illustrazioni venivano poste accanto a quelle di decorazioni delicate e  gentili, ad asserire anche graficamente che non vi era contrasto tra immagini di sangue e di indicibile crudeltà sugli animali da una parte e deliziosi ornamenti dall'altra:  l’autorità di chi li proponeva ne sdoganava serenamente la  compatibilità.

Oggi no, oggi non si fa più così: non sta bene e non è politicamente corretto. Di vivisezione la gente comune sarebbe anzi meglio non sapesse nulla, e questo sarebbe possibile se non fosse per il clamore suscitato da un dibattito, che, soprattutto da Hans Ruesch in poi, non ha potuto essere tacitato, ma che sarebbe rimasto contenuto nelle stanze dove le elites parlano di scienza se non fosse  per la mobilitazione di tutti coloro che, in  nome del rispetto dovuto agli animali, hanno rotto il muro del silenzio, spostando la questione dal piano scientifico a quello etico che tutti ci riguarda e su cui tutti abbiamo diritto-dovere di opinione. Agli occhi e alla coscienza della gente diventano allora accessibili le immagini di scimmie crocefisse, gatti ustionati, conigli immobilizzati con gli  occhi infettati, e via proseguendo in quella galleria degli orrori che si nutre di una creativa capacità di ideare ipotesi, le più disparate possibile, e poi di mettersi alacremente al lavoro per verificarle. Così il dr. Michael Merzenich volendo sapere (1991) quali “ristrutturazioni dei processi rappresentazionali in regioni cerebrali specifiche” siano indotte da “alterazioni che provengono dall’ambiente, come quelle che derivano dall’amputazione di un arto”, diligentemente procede ad amputare per l’appunto arti ai primati che sono a sua disposizione nel laboratorio di San Francisco in cui lui esercita la sua professione. Giusto per scoprire che “anche negli adulti il cervello sembra quindi capace, entro certi limiti, di rispondere a nuove esperienze con un ulteriore sviluppo di strutture e funzioni”.(“La mente relazionale”, Daniel J. Siegel -  Raffaello Cortina Editore). Mentre il farmacologo irlandese John Cyran separa i cuccioli di ratto dalle madri “provocando negli animali un forte stress” (ah, ma allora i ratti provano affetto, creano legami filiali, sperimentano sofferenza psicologica nella separazione?!) valutando la loro conseguente depressione con il fatto che “se collocati in una vasca d’acqua, rimangono a galla meno a lungo degli animali di controllo non stressati”. E via imperversando fino alla conclusione, tutto fuorchè originale, che “tuttavia i topi non sono persone e dunque la possibilità di trasferire all’uomo questi risultati resta ancora da dimostrare” (“Mente e cervello”, agosto 2012).
Non c’è che dire: l’uomo è curioso, intelligente, vuole sapere e varcare i confini; l’uomo è prepotente, arrogante, egoista e la crudeltà di cui è capace è pari solo alla genialità della sua mente. L’uomo e la donna (questa solo un po’ più nelle retrovie) occidentali hanno fatto coincidere il processo di civilizzazione con un progressivo nascondimento delle manifestazioni  di malvagità  che hanno accompagnato tutto il percorso evolutivo, ma che ci piace attribuire a una animalità da cui sempre più prendiamo le distanze: ci siamo  ripuliti, educati, abbiamo imparato le buone maniere  e aborrito le manifestazioni di brutalità. Nel tragitto i comportamenti di sfrenata crudeltà hanno perso visibilità e liceità, ma, lungi dallo scomparire, hanno anzi ampliato a dismisura il numero di vittime su cui accanirsi: nello specifico,  la sperimentazione animale, nella nostra attuale società tanto amante degli animali, coinvolge ogni specie per ogni scopo, che sia medico o psicologico, che serva a  testare cosmetici o al bisogno evidentemente ineludibile di un nuovo detersivo, che sia finalizzata a  soddisfare curiosità fantasiose  oppure permetta una pubblicazione la cui utilità, oggettivamente opinabile, appare in tutta la sua pregnanza se valutata ai fini del  punteggio per un futuro concorso.

Non c’è da meravigliarsi: il  confine fittizio e utilitaristico tra umano e animale, una volta superato, immette nel regno del tutto possibile.  Considerare gli animali  al nostro completo servizio si traduce dal punto di vista alimentare nella licenza di ucciderne miliardi ogni anno; dal punto di vista della sperimentazione nel non farsi mancare nulla: si sperimenta in vista di una presunta necessità per la salute umana, o di qualcosa che forse, chissà,  potrebbe anche  rivelarsi importante in futuro, per stabilire le conseguenze dello spazio di frenata dell’automobile, o perché gli studenti apprendano i necessari rudimenti medici dalla viva carne, che è molto meglio. Dove fermarsi? Perché farlo? 
Un acceso sostenitore della sperimentazione animale (che, per ragioni sconosciute, si firma solo MB), lo chiarisce molto bene in un sito ad hoc ,”In difesa della sperimentazione animale”, quando sostiene che la conoscenza scientifica fine a se stessa, l’amore per il sapere sono l’uso più Nobile (la maiuscola è sua) che l’uomo possa fare degli animali: in altri termini, gli unici  limiti sono quelli stabiliti dalla possibilità di ideazione della mente umana, che non viene ripulita da tutte le possibili aberrazioni che la possono contraddistinguere. Il superamento di ogni confine, quando riferito ai nonumani, è sempre lecito, oltrepassa i limiti pur porosissimi posti in relazione alla specie umana , che di cavie ne ha comunque fornite ad abundantiam, dal momento che i più derelitti, poveri, esclusi dai diritti  di fatto  sono sempre stati utilizzati in  forme di  “sperimentazione”: i medici nazisti imperversarono indisturbati grazie al materiale umano di cui potevano servirsi a piacimento; i manicomi, per tanto tempo luoghi non di cura, ma di esclusione, non hanno ancora finito di lasciar filtrare notizie di tutte le nefandezze praticate al loro interno;  la pratica della tortura, in molti paesi del mondo del tutto attuale, sperimenta  i limiti e la sopportazione umana al dolore.  
Nonostante il grande lassismo della morale, tutto ciò non è però politicamente corretto: la sperimentazione sugli animali sì. La giustificazione morale degli obiettivi da perseguire non solo sdogana ogni pratica sugli animali: fa di più, la rende invisibile. Risulta interessantissima, in merito a questa dinamica,  la ricostruzione che Vittorino Andreoli, stimatissimo psichiatra, fa della sua carriera di medico, ricordando la propria impassibilità quando  a venti anni, brillante studente e fervente cattolico,  si trovò  per la prima volta davanti all’orrore dei manicomi, dove esseri umani potevano essere tenuti per mesi o anni legati ai letti, abbandonati nei propri escrementi, o “terapeuticamente” obbligati a docce gelate. Solo oggi arriva a chiedersi: “Come è accaduto che non solo io, ma uomini di grande levatura morale potessero accettare tutto questo? Come ho potuto non provare un moto di ribellione di fronte a tanto degrado? Dove trova la sua ragion d’essere una simile anestesia dell’uomo nei confronti della sofferenza di altri uomini?......  Credo che a legittimare la nostra insensibilità, a darle un sostegno, fossero una serie di convinzioni, di razionalizzazioni”. (“I miei matti” –Vittorino Andreoli- Rizzoli Editore)  Evidentemente le stesse convinzioni e razionalizzazioni, che consentono ancora oggi a tante persone di assistere o di provocare personalmente, anestetizzate e senza sensi di colpa, inaudite sofferenze agli animali nei laboratori di vivisezione, dove la violenza è normalizzata (perché è normale che nuove sostanze o tecniche siano sperimentate), giustificata (perché è necessaria), negata (perché gli animali, si sostiene, non soffrono, essendo trattati con rispetto).
Esistono  potenti meccanismi nella mente umana al servizio del nostro benessere: sanno fornirci una narrazione dei fatti tale da consentirci di convivere con sufficiente tranquillità con noi stessi, senza il peso di troppe angustie, quali che siano (state) le nostre azioni: il delitto senza castigo, neppure quello psichico, è quello che prediligiamo.
Per concludere l’analogia con il mondo dei manicomi, vale ancora  la pena di ricordare  che un altro medico vi mise piede, alcuni anni dopo Andreoli , e vide ciò che generazioni di psichiatri prima di lui avevano visto e accettato come normale: ma lui quella  violenza su esseri deboli non la scambiò per pratica terapeutica necessaria: la valutò come inaccettabile abuso, vide il dolore di individui sfiancati non tanto dalla malattia quanto da altri individui in camice bianco, e rifiutò di esserne complice. Era Franco Basaglia: nel 1978 la legge che porta il suo nome decretò per sempre la chiusura dei manicomi.
Allo stesso modo, anche per quanto concerne la vivisezione, non va sottaciuto il peso del comportamento dei singoli, ognuno dei quali ha una precisa responsabilità personale in quello che decide di fare  e in quello che si astiene dal fare: in altri termini, con le parole del sociologo  Zigmunt Bauman,  l’ingiustizia è  -anche- negligenza individuale. Per altro il dibattito attuale, la messa in discussione della sperimentazione da parte di una fetta sempre più cospicua del mondo scientifico, la revisione in atto consentono di assumere posizioni critiche, di rifiuto dello status quo anche senza attitudini eroiche e  pur in mancanza di quel coraggio che notoriamente, se uno non ce l’ha, non se lo può dare; e contestualmente, chi decide di praticarla, lungi dal considerarsi solo parte di un ingranaggio che funziona in automatico, deve riconoscersi  portatore  di una scelta precisa. Esiste in altri termini il peso specifico della responsabilità che ogni singolo si assume, peso tanto maggiore visto che si tratta di un campo in cui non sono neppure invadenti altre spinte, che di fatto possono vanificare la libertà personale, quali quella economica: a differenza di quanto si verifica nel  raccapricciante mondo dei macelli a catena di montaggio,  popolato da immigrati costretti a scelte  obbligate, il mondo  degli sperimentatori scientifici gode di un livello culturale e di conseguenza socio economico spesso privilegiato.
Tutto questo considerato, riveste notevole interesse conoscere l’atteggiamento emotivo di coloro che, consapevolmente, optano per  questa strada, che comporta la necessità di fronteggiare l’inenarrabile dolore inflitto nella carne viva di vittime, immobilizzate sui tavoli, quelle che guardano terrorizzate ogni loro movimento nell’attesa insopportabile del prossimo gesto, quelle che supplicano pietà perché non hanno commesso colpe,  quelle che lasciano solo  intuire i propri gemiti perché le corde vocali sono state tagliate, quelle che possono chiedere grazia solo a chi è il responsabile del  loro martirio,  esattamente come accade alle vittime della tortura di ogni dittatura, di ogni scellerato aguzzino. 
Cosa provano i vivisettori nel guardare questi animali disperati,  terrorizzati, impazziti dal dolore e dalla paura? Non sono domande da poco conto, perché all’interno del macrosistema,  sono i singoli individui a consentirne il funzionamento: se il grande contenitore della vivisezione è costituito dalle convinzioni esistenziali,  filosofiche, religiose che vedono nel mondo degli altri animali il magazzino inesauribile di materia prima, se sono gli  enormi interessi economici coinvolti, a fare  inizio da quelli delle società farmaceutiche,  il motore primo di tutto il meccanismo, nulla succederebbe senza  la disponibilità al lavoro sporco.  
Cominciano ad essere pubblicati studi che provano a gettare fasci di luce sulla personalità dei vivisettori, sui loro tratti di  base, ma soprattutto sui  mutamenti indotti dalla pratica reiterata di  infliggere  tormenti ad esseri senzienti. Si è così aperta la strada alla comprensione delle dinamiche in gioco, alla cui definizione concorrono altresì le stesse dichiarazioni dei diretti interessati, soliti a  scansare ogni critica attraverso un meccanismo di corposa negazione della realtà, con un  richiamo  al  rispetto (?!) con cui gli animali verrebbero trattati nei laboratori.  E' innegabile che, nelle  pubblicazioni scientifiche, anche la descrizione delle peggiori pratiche che invadono la carne degli  animali,  documentate da fotografie  inguardabili da un essere umano di media sensibilità,  è condotta con un  linguaggio asettico, esente da qualsivoglia compartecipazione, si tratti di piccoli di scimmia con gli occhi cuciti,  di gatti con elettrodi nel cranio, di maiali usati per cronometrare il tempo necessario a morire in variegate situazioni.  Nè succede mai, nelle interviste, di cogliere negli sperimentatori espressioni di dispiacere nè vago disagio, che non sia quello provocato da domande imbarazzanti.
Certo, il distacco emotivo, la separazione dell’affetto è condizione imprescindibile per un lavoro tecnicamente corretto:  l’autocontrollo, che presuppone gestione delle emozioni, è tratto necessario così  per il medico che deve imporre un percorso doloroso al suo paziente, come lo può essere a volte per un genitore che deve aiutare un figlio in difficoltà: ma in questi casi la capacità di tenere a bada l’emotività trova il proprio senso nel perseguimento del benessere dell’altro, che richiede non di abolire, ma di controllare le proprie reazioni. Nel caso della vivisezione tutto si può sostenere tranne che sia pratica  condotta nell’interesse dell’animale coinvolto. In assenza di outing al riguardo da parte dei vivisettori, non resta che rifarsi a  spezzoni di filmati, rigorosamente  clandestini e quindi rari, girati nei laboratori: mostrano beagle gettati violentemente  e rabbiosamente contro il muro perché, nonostante la loro assoluta mitezza, provano a  ribellarsi all’ago troppo grosso forzato nella vena; mostrano ricercatori prendersi una pausa di riposo per caffè  e quattro chiacchiere mentre il coniglio sul tavolo è lasciato a “metà lavoro”, tanto di lì non si muove; mostrano  la ricercatrice sorridere alla videocamera  mentre muove gli arti inerti, a mò di bambola, alla scimmietta inebetita, con lo sguardo perduto, la testa attraversata dalla ricucitura di una ferita che la percorre in  tutta la sua lunghezza.
Insomma un quadro che definire empatico non è proprio possibile. Di certo la frequentazione quotidiana con la sofferenza induce una progressiva desensibilizzazione: il cervello è plastico, ogni esperienza si coniuga con l’attività neuronale e crea nuove connessioni: gli avvenimenti che ci coinvolgono non vanno perduti dal punto di vista psicologico ed  entrano a fare parte del nostro mondo psichico; è conseguente che muoversi in un universo di dolore e disperazione può comportare il plasmarsi su tale esperienza, perdere sensibilità ed  indurirsi. Questo mentre  un  altro meccanismo entra prepotentemente in gioco con effetto autosalvifico,  con   la capacità di separare aspetti della propria  identità da altri che ruisulterebbero incongrui . E' una sorta di scissione, messa in atto da coloro che fanno convivere un ruolo positivo e affettivo, quale per esempio quello di buon padre di famiglia, con l'abitudine a comportamenti  crudeli e criminali nel contesto sociale: le due identità convivono senza disturbarsi l'una con l'altra. Sono tanti gli studi che se ne sono occupati, a fare inizio dall'esame della personalità di torturatori naziasti, dipinti in famiglia come genitori e mariti esemplari. 
Si aprono nuovi ambiti di ricerca e soprattutto vanno ampliati e approfonditi gli studi fondamentali  sulle conseguenze della violenza legalizzata, categoria a cui la vivisezione appartiene come del resto vi appartengono per esempio a livello intraspecifico la guerra, la pena di morte, regimi carcerari di intollerabile ferocia, certe forme di punizioni corporali o psicologiche sui bambini, e, a livello interspecifico, la macellazione degli animali, la caccia, la pesca, l’addestramento degli animali nei circhi, il loro uso nelle sagre. In tutti questi casi, e in molti altri ancora, la violenza viene disconosciuta come tale  proprio in quanto legale, condotta secondo regole stabilite, in luoghi stabiliti, da persone stabilite. Per inciso basterebbe pensare agli stessi atti compiuti in contesti diversi perché a tutti risultasse chiara la loro inaccettabilità.
Non bisognerebbe dimenticare che le regole che, in periodi storici specifici, le società si danno risultano spesso del tutto relative,  palesemente scollate dalla morale se esaminate in epoche o anche solo in climi culturali mutati: ci vuole tempo, purtroppo, perché quello che pochi illuminati intuiscono, entri nella coscienza della maggioranza delle persone. Basta pensare alle tante ignominie che nel corso della storia sono state compiute legalmente , secondo riti e leggi: ci si può riferire ai roghi delle streghe, vale a dire di donne e ragazzine troppo belle o troppo intelligenti o troppo indipendenti per essere tollerate dai maschi dominanti, bruciate vive sulla pubblica piazza con la benedizione dei tribunali e nell’entusiasmo della folla. Siccome agiva in ossequio alle norme vigenti, chi quei roghi accendeva e chi ad essi plaudeva deve godere del nostro rispetto?
Gli studi, si diceva, sulle conseguenze della violenza legale sono un campo di ricerca enorme:  per altro il gran numero di variabili che comportano li rende per forza di cose  estremamente complessi: difficile per esempio capire  esattamente come incida sulle persone vivere in uno stato in cui vige la pena di morte, con il correlato di orrori che comporta. Ma alcuni dati cominciano ad emergere; una ricerca del 1988 per esempio dimostra alla base della violenza diffusa nella società americana l’intreccio in quella cultura di “ineguaglianza economica e razziale, punizione corporale dei bambini, sport violenti, pena capitale e altre forme di violenza legittimata”.  La psichiatra Felicity de Zulueta nota che “In Svezia dove l’abolizione dell’uso di schiaffeggiare i figli è in vigore da dieci anni, nessun bambino è morto per l’effetto dell’abuso fisico, laddove nel Regno Unito- dove le punizioni corporali sui bambini sono ammesse- due bambini alla settimana muoiono a causa di abuso e trascuratezza” (“Dal dolore alla violenza”- Felicity De Zulueta - Raffaello Cortina Editore) : si aprono nuovi orizzonti di studio e di comprensione, dove restituire il significato di crudeltà a qualsiasi atto che abbia come conseguenza il male inflitto coscientemente  ad un altro essere vivente, indipendentemente dalla specie a cui esso appartiene e dal motivo per cui viene cpmpiuto.
Per concludere, la vivisezione, pratica estrema di prevaricazione della specie umana su  altre e di un individuo umano su un individuo non umano, imprigionato, immobilizzato, torturato e normalmente ucciso, si situa all’interno di rapporti  di violenza, che sollecitano considerazioni connesse al  tema generale dei diritti  e a quello  più privato della compassione, dell’empatia, del rispetto, così fondamentali  in ogni  relazione e imprescindibili ai fini di una pacificazione, ora così tremendamente lontana, degli abitanti di questa terra.
Resta attuale l’invito di Richard Wagner al vivisettore  perchè guardi non all’interno dell’animale che lui ha sventrato, ma piuttosto nei suoi occhi: ”Se guardasse ancora più a fondo, gli parlerebbe la sublime tristezza della natura per la sua esistenza piena di tormento, poiché lì dove egli scherza con la scienza, l’animale prende la cosa sul serio”, la prende sul serio fino al punto, alla fine, di abbandonare, inconsolato, il suo respiro su un mondo dove avrebbe dovuto poter vivere e morire secondo le regole della natura e il ritmo delle stagioni,  e ha invece dovuto farlo secondo quelle stabilite da chi sciaguratamente ha preso il comando. 

venerdì 22 luglio 2016

JUMA IL GIAGUARO




    “Alcuni militari brasiliani hanno dovuto abbattere un giaguaro, fuggito dopo essere stato esibito al passaggio della torcia olimpica a Manaus, capitale dello Stato delle Amazonas. "Durante il passaggio da una gabbia all'altra nello zoo dell'esercito, il giaguaro è scappato. E' stato inseguito e gli sono stati sparati tranquillanti con una saracena, ma malgrado quattro dosi, si è precipitato su un veterinario e l'abbiamo dovuto sacrificare", ha spiegato il colonnello Luiz Gustavo Evelyn del Centro d'istruzione di guerra nella giungla (Gigs) di Manaus. Il giaguaro, considerato il simbolo dell'Amazzonia, è il più grande felino delle Americhe in via d'estinzione. Quello scelto per accompagnare il passaggio della torcia olimpica si chiamava Juma e viveva in cattività con altri animali salvati dalle mani dei bracconieri”. (21.06.2016 Repubblica)
Questa volta è Juma, splendido giaguaro, che ci prova a sottarsi alla prigionia e, come farebbe qualunque carcerato che soffra l’ingiustizia di una carcerazione senza colpa, approfitta di un insopportabile spostamento da una gabbia all’altra per cercare la libertà: niente da fare. Inseguito e chissà quanto terrorizzato, dicono si sia precipitato su un veterinario, ragion per cui  lo abbiamo dovuto sacrificare. Eccoci di nuovo: questa volta siamo a Manaus, Brasile,  ed è tempo di Olimpiadi; veniamo  a sapere che qui l’esercito ha un suo zoo, dove animali, nati liberi per essere liberi, vengono tenuti prigionieri e mai lasciati in pace, perché sono esibiti nelle manifestazioni pubbliche, al passaggio di torce olimpiche, quindi  alla presenza di folle di umani con i quali non possono avere nulla da spartire, se non un insopprimibile desiderio di andarsene lontano. E il veterinario che ci faceva lì? Lui, che gli animali li dovrebbe conoscere, magari qualche dritta sul fatto che proprio non era il posto giusto per portarci  il più grande felino delle Americhe in via di estinzione avrebbe potuto darla.

venerdì 8 luglio 2016

LINGUAGGIO E ANIMALI: ANIMALE SARAI TU


Il linguaggio al servizio della svalutazione degli umani e degli animali non umani
Per certe bestie nessuna pietà” proclamava pochi giorni fa sulle pagine del Corriere della Sera il deputato Salvini riferendosi all’orrido omicidio della giovane Sara, uccisa a coltellate e poi data alle fiamme dal suo ex fidanzato. Poco originale il titolo: a proposito di un cittadino filippino ucciso a calci e pugni sotto gli occhi dei passanti a Milano tempo fa, i caratteri cubitali dello stesso giornale recitavano: “L’hanno ucciso, erano belve. E ancora, sfogliando qua e là: “Non sono uomini: sono animali”, questa volta a proposito dei responsabili degli agghiaccianti stupri e omicidi di bambini e bambine nelle zone periferiche non lontano da Napoli. Pressochè quotidiani sono questi riferimenti, sia perché tanto comuni sono, ahimè, episodi di atroce cronaca nera, sia perchè la narrazione pare incapace di astenersi dalle metafore animali per esprimere e dare forma al peggio, pur se il linguaggio, a causa dell’usura, ha di fatto perso l’incisività, che accompagna la forza di parole e immagini nuove: pare proprio non trovarsi di meglio.  Così animali, bestie, belve  sono per antonomasia i sadici, gli psicopatici, i delinquenti della peggior risma, meritevoli di tutto il nostro sdegno: quelli, per intenderci, indiscutibilmente appartenenti alla specie umana.  

sabato 25 giugno 2016

DAL CARNISMO AL VEGANESIMO: scelta definitiva o fase transitoria?



    

              “Amati, odiati, mangiati”[1] libro di Hal Herzog, uscito in Italia nel 2012, riecheggia fortemente nel titolo il contemporaneo “Perché amiamo i cani, indossiamo le mucche, mangiamo i maiali”[2] di Melanie Joy. E in effetti analoghe sono le domande che entrambi gli autori si pongono, alla ricerca del  bandolo della matassa intricata dei nostri comportamenti scombinati, schizofrenici, dissociati che ci portano a trattare come un principino il nostro cane e a lasciare con indolente indifferenza che il maiale venga scannato nel più turpe dei modi. Pur compiendo un percorso investigativo nella psiche umana per certi versi coincidente, i due autori, entrambi  studiosi di psicologia,  pervengono a conclusioni fortemente divergenti, lei ad abbracciare uno stile di vita vegano, lui a santificare quella virtù che per definizione sta nel mezzo e quindi a perorare il  consumo di ogni prodotto di origine animale, però in modo moderato, senza esagerare.

venerdì 20 maggio 2016

LAUDATO Sì Mì SIGNORE PER ALCUNE TUE CREATURE





 
Domenica 14 maggio: Piazza San Pietro è gremita come sempre per  l’Udienza Giubilare.  La pioggia battente non ha certo trattenuto la folla dei fedeli, che hanno  lo sguardo rivolto in alto, verso papa Francesco, pendono dalle sue labbra, perché lui è il papa, ma soprattutto è Francesco, “papa buono”, che parla al cuore, al buon cuore, ai sentimenti. Nel farlo, non ha neppure bisogno di appellarsi al mito dell’infallibilità, perché possiede quello ben più popolare della credibilità, conquistata sul campo, tanto dirompente che neppure ci si fa caso quando, con il suo lessico schietto, un po’ domestico, mimando il  gesto, si chiede per esempio, nel caso in cui qualcuno offendesse sua madre, cosa mai potrebbe fare se non tirargli un pugno, e getta così all’aria in pochi secondi millenni di inviti a porgere l’altra guancia nonché, più modestamente, decenni di teoria sulla sublimazione dell’aggressività. Troppo grande l’amore da cui tutti lo riconoscono animato per rinfacciargli, anche se solo sottovoce, qualche uscita un filo discutibile; troppo grande la sua tensione verso Dio, che deve essere celebrato e laudato per tutte le sue creature. Tutte le sue creature? Beh, non proprio tutte: occorre qualche distinguo. Perché, dice, la pietà non va confusa con quel pietismo, piuttosto diffuso, che è solo un’emozione superficiale e offende la dignità dell’altro, né con  la compassione che proviamo per gli animali che vivono con noi. Accade che a volte si provi questo sentimento verso gli animali, e si rimanga indifferenti davanti alle sofferenze dei fratelli“.
Un invito quindi a una distinzione tra una sorta di Pietà con la P maiuscola, che è atteggiamento nobile, e invece una sua sottospecie, tanto gretta da offendere addirittura la dignità altrui, che va a identificarsi con la compassione verso gli animali, non virtù, ma difetto evidentemente da annoverare tra i vizi di questo nostro mondo allo sbando, perché poi questa gente attaccata a cani e gatti magari lascia sola la vicina. No, supplica papa Francesco, per favore No! E sancisce anche un patto non scritto con l’uditorio a non cadere in questa fuorviante deprecabile consuetudine: “D’accordo?!”

sabato 30 aprile 2016

DIVIETO D’ACCESSO NEI MATTATOI




L'ultimo lungo flash dal mondo dei macelli è un video di EssereAnimali, che riprende l'agonia, protrattasi per  oltre mezz'ora,  di una scrofa presa a martellate e i piccoli suinetti sottoposti ad altre  variegate e creative angherie: non in qualche luogo sperduto, non per qualche azienda sconosciuta: no: in un civilissimo luogo del centro Italia in un allevamento connesso alla produzione del mai abbastanza celebrato prosciutto di Parma. 
Il filmato, pressochè inguardabile per l'inaccettabile atrocità messa in onda, è l’ennesima occasione per alzare  il velo su quella realtà negata e offuscata in tutto il mondo occidentale che è quella dei macelli. Realtà rimossa e nascosta dal punto di vista fisico e della sua stessa esistenza, se è vero che, nonostante l’immenso numero di animali quotidianamente mangiati (dati Fao non aggiornati) parlino di 56 miliardi di animali terrestri uccisi ogni anno) , i luoghi della loro uccisione sono molto spesso ignoti: non ne conosciamo la dislocazione e tanto meno sappiamo cosa veramente abbia luogo al loro interno. Ne intravediamo la realtà visto che ci capita di incontrare  su strade e autostrade camion stipati di vitelli, mucche, maiali, cavalli: incrociamo persino il loro sguardo attraverso le barre che li imprigionano e ne sentiamo i lamenti se ci capita la malaugurata sorte di fermarci in una piazzola dove anche il loro autista si è preso una sosta. Imbarazzante allora camminare vicino a loro e cogliere l’orrore in atto nel rapido sguardo che gettiamo prima di girare di scatto la testa dall’altra parte, perché non ce la facciamo proprio ad osservarli ancora. E se l’estate è torrida o l’inverno gelido, i lamenti che udiamo  sono strazianti non solo di sete e stanchezza. Da qualche parte, dobbiamo pur dircelo, stanno andando e dove se non ad essere ammazzati? Ma dove sia il posto in genere lo ignoriamo.

sabato 16 aprile 2016

TORI : FIESTA PER CHI?


 


  A volte siamo colpevoli di colpe che proprio non attengono alla tipologia delle nostre manchevolezze, colpe che non commetteremmo mai se solo fossimo liberi di scegliere, come quando, pacifisti nel profondo, siamo costretti a sostenere con le nostre tasse, senza averlo mai voluto,  le spese per una produzione (esorbitante) di armi da vendere qua e là per il mondo; non meno odiosa e altrettanto insensata è la somma che per anni abbiamo versato, quali cittadini europei, per sovvenzionare regolarmente e lautamente (129 milioni di € ogni anno) un’istituzione nefasta, crudele e ignobile quale  è la corrida, che  il parlamento europeo ha fino a tutto il 2015 sostenuto con un flusso di denaro pubblico, che solo nell’ottobre scorso è stato per la prima volta interrotto dal voto finalmente contrario di una maggioranza di deputati.
Siamo lontanissimi dalla  fine della corrida, ma si tratta comunque di un passo importante per contenerne  la diffusione, visto che, in assenza di questi aiuti da parte dell’Europa, le municipalità, che in Spagna si scontrano  per decidere se disinvestire da altri progetti in favore della nobile  causa della mattanza pubblica dei tori, incontreranno per lo meno difficoltà a sostenerne i costi. Al momento si  stanno confrontando animatamente i vari partiti.

domenica 20 marzo 2016

IL GRANDE AFFARE DELL’AVORIO E LA TRAGEDIA DEGLI ELEFANTI




   Il  31 marzo 2016 a Roma al Circo Massimo ha avuto luogo un Ivory Crush, evento straordinario, almeno per l’Italia: un grande rogo ha bruciato, dopo averli triturati,  quintali di avorio sequestrati a trafficanti e cacciatori nonché tutti quegli oggetti in avorio che turisti poco responsabili o pentiti si sono portati dai loro viaggi esotici o, molto più semplicemente, qualcuno ha comperato  in negozi, che tranquillamente ancora li vendono e che, ahimè, non mancano sul patrio suolo.
L’avorio è finalmente diventato politicamente scorretto e bruciarlo sulla pubblica piazza è un modo prima di tutto per impedirne definitivamente un ulteriore commercio, secondariamente per dare visibilità e risonanza ad una realtà, quella dello sterminio degli elefanti,  che colpevolmente tarda a entrare nella testa e nelle coscienze della gente: richiama altresì altre cerimonie analoghe in cui non ci si limitava a distruggere qualcosa (o qualcuno!),  ma si voleva distruggere  l’idea stessa, annientare, liberarsi anche dei miasmi postumi: per secoli si sono fatti roghi di streghe, e poi si sono bruciati libri pericolosi; ora finalmente è l’avorio, oggetto di precedenti Ivory Crush a partire dal 1989 in Kenia, a New York, in Mozambico….: ad imporre l’insolita cerimonia è  la tragedia che vede un numero enorme di elefanti uccisi ogni anno, in un balletto di cifre che si misura comunque in alcuni esemplari uccisi ogni ora (!!!) , e che ci parla del loro numero ridotto dai 27 milioni del 19° secolo agli attuali 350mila con una previsione di estinzione nel giro di pochissimi decenni, forse anni: 2050? 2025?

sabato 30 gennaio 2016

LA GALLINA DI ALEXANDER BOETTCHER



   
A volte la realtà è tanto disgustosa che persino i media, pur tanto prodighi di immagini orrifiche, si astengono dall’esporla nella loro interezza:  succede a proposito di Alexander Boettcher, parte maschile della famosa coppia all’acido, che occupa da tempo le cronache per essersi macchiata, secondo le accuse, di crimini efferati e senza senso: avrebbero ustionato con l’acido ragazzi, rei di avere avuto trascorsi sessuali con Martina Lovato, allo scopo delirante di conseguire una sorta di  purificazione da tale contaminazione . Il prezzo pagato dalle vittime è inenarrabile: ustioni, conseguenze invalidanti, traumi fisici e psichici pressochè insuperabili, sconvolgimento di tutto lo stile di vita.

SULLA STELLA DI DAVID BOWIE
















Sono vibrazioni  dell’anima quelle che David Bowie provoca ogni volta con le note di  Space Oddity, quello spazio strano in cui, nei panni di  Major Tom, è andato a perdersi, in un’avventura spaziale diventata mito musicale. E oggi, che la sua natura terrena si è dissolta, la fascinazione di saperlo lassù, anzichè in grigia terra, è tale che chi dà  i nomi alle stelle, ne ha vista una in cui poterlo ritrovare. Perché i miti non muoiono: alimentarli ci è necessario per immaginare l’eterno dove invece c’è il finito.
E’ bello allora saperlo per sempre là, seduto sopra il mondo, dove the stars look very different today, dove le stelle oggi sembrano così diverse; non è da solo però a errare nell’universo: c’è un’altra non lontano da lui, lei partita  senza averlo deciso né mai voluto, e condannata a vagare in uno spazio di cui non aveva mai sentito il desiderio, perché  Laika, cagnetta randagia, non chiedeva altro che continuare a raccattare un po’ di cibo nelle strade pur fredde e  inospitali di Mosca, magari insieme a  qualche compagno vagabondo, tanto per vincere la solitudine ed ingannare il gelo.