venerdì 21 gennaio 2022

Gogna e vergogna


       Pubblicato su Comune-info il 17 Gennaio 2022


Il 30 dicembre in Cina, a Jingxi, città della provincia meridionale di Guangxi, quattro uomini, accusati di traffico di esseri umani, aggravato dai confini chiusi per Covid, sono stati costretti a sfilare con le mani legate dietro la schiena, ognuno condotto da due persone, che li tenevano per le braccia. Completamenti coperti da tute bianche anti rischio biologico, risultavano comunque riconoscibili da un cartello appeso al collo con il loro nome e la loro foto. Questo ricorso alla gogna, all’umiliazione pubblica quale mezzo di punizione e contrasto al male compiuto, ha avuto una potente risonanza a livello mondiale, ed ha registrato qualche critica persino entro gli stessi confini cinesi, dove il dissenso all’operato delle autorità è per lo meno poco tollerato, tanto per usare un eufemismo: segno che si tratta di una pratica che conserva la sua connotazione particolarmente odiosa, anche nel confronto con tante altre forme di violazione dei diritti umani, che pure in Cina abbondano.

Si tratta di una pratica tutt’altro che indolore, in grado di distruggere l’identità stessa di chi la subisce: le reazioni variano in funzione della situazione e della forza di carattere, e quindi della resistenza psicologica, di chi le sperimenta; ma la sensazione è sempre penosa perché è troppo difficile affrontare la condanna altrui, di quegli altri che appaiono come un tribunale morale, giudici inflessibili, misura del bene e del male, in assenza di avvocati difensori. Lo scopo prefisso non è quello di provocare sensi di colpa portando l’accusato a riflettere su quello che è considerato un cattivo operato, ma di suscitare vergogna. Vergogna che è un’emozione sociale, che dipende dalla riprovazione degli altri: il peso del loro giudizio negativo ferisce la propria immagine, danneggia l’autostima, fa sentire indegni dell’ideale che si ha di sé stessi o dell’idea di sé che attribuiamo agli altri. Si vorrebbe scomparire, si gira lo sguardo e si abbassano gli occhi, come se non vedere potesse magicamente corrispondere a non essere visti.

Nei paesi totalitari, in cui il sistema squalifica non solo chi disobbedisce alle leggi, ma anche chi non condivide il pensiero dominante, il mezzo per contrastare la devianza è anche quello di sottoporre i dissidenti alla squalifica proprio attraverso l’esposizione alla vergogna, alla disconferma pubblica, alla estromissione dal contesto di riferimento, che è invece fondamentale: perché la solitudine, l’isolamento, la non condivisione sono esperienze mortifere.

È più che lecito pensare che l’episodio di cui si parla non sia un fatto isolato: anche se la pratica della gogna pubblica in Cina risulta abolita come forma di punizione da una quindicina d’anni, non avrebbe potuto riapparire improvvisamente se non all’interno di un contesto che è forse capace se non di apprezzarla, almeno di tollerarla. Per nulla secondario è il fatto che la sua abolizione è recente: se ha avuto modo di essere estromessa dal codice penale, è lecito pensare che non altrettanto abbia potuto fare rispetto alle coscienze che non hanno ancora avuto modo di eradicarla dal proprio universo, dove era stata introiettata quale consuetudine, per quanto drammatica. Di certo il suo uso è stato cospicuo in decenni non lontani: dalle maglie della censura, anni fa ne era emersa una drammatica messa in onda all’interno di Vivere, film di Zhang Yimou del 1994 che, ripercorrendo insieme alle sorti di una famiglia i rivolgimenti epocali del paese, proponeva indimenticabili scene sull’esposizione alla pubblica umiliazione di persone cadute in disgrazia durante la rivoluzione culturale. La maschera di sofferenza fisica e mentale del piccolo uomo costretto a correre tra ali di folla insultante rimane potente rappresentazione dello sconquasso fisico e mentale conseguente.

Varie sono le forme di abuso con cui viene costretta a convivere parte del popolo, in una terra dove sono legali pratiche inaccettabili per molti paesi del mondo occidentale, a cominciare dalla pena di morte (con la scandalosa eccezione di Stati Uniti e dall’altra parte del mondo, del Giappone), che in quella terra non solo sopravvive, ma viene eseguita con una frequenza tale da far guadagnare alla nazione il poco invidiabile primato mondiale nel numero delle esecuzioni: Amnesty International ritiene lo si possa affermare con certezza anche in assenza di dati precisi, che non vengono mai resi pubblici in quanto considerati segreti di stato, esattamente come avviene in Corea del Nord, Siria, Vietnam. Talmente segreti che a volte neppure i familiari dei condannati vengono informati dell’imminente esecuzione: lo vengono a sapere solo dopo, a morte avvenuta, a volte in contemporanea con la richiesta di risarcire il costo della pallottola, se l’esecuzione ha avuto luogo tramite fucilazione. Drammatici e rarissimi documentari mostrano poi l’ultimo saluto del condannato al proprio figlio: l’uno deve fare ammissione della propria imperdonabile colpa, e l’altro deve apprezzare la saggezza e l’equità dello stato: viene in questo modo negato persino un ultimo momento di tenerezza e pietà nella condivisione del dolore immenso della morte imminente, sacrificato al dovere di omaggiare lo stato.

La Cina è anche lo stato in cui il controllo demografico attraverso la politica del figlio unico, imperversata tra il 1979 e il 2015, ha significato centinaia di milioni di aborti imposti, di abbandoni di neonate, di vendita o di omicidi delle stesse, in una scempio di cui il documentario One child nation della regista Nanfu Wang (1919; ora visibile su Netflix) è riuscita a dare spasmodica testimonianza; in cui i dissidenti sono trattati alla stregua di criminali; in cui le minoranze etniche subiscono imprigionamenti di massa, torture e persecuzioni, dando vita a centri che la segretaria generale di Amnesty International, Agnès Callamard, ha definito un inferno distopico di dimensioni gigantesche.

Nelle cosiddette democrazie occidentali, siamo lontani anni luce da tutto ciò; ma per quanto ci possiamo sentire assolti, alcune considerazioni non guastano. A partire dal fatto che il “nostro” mondo non gode di verginità al proposito: in epoca medievale il termine gogna definiva addirittura uno strumento ben conosciuto, che immobilizzava il condannato di turno, di solito reo di crimini non gravi, costretto alla pubblica esposizione sulla piazza del mercato per un tempo che poteva essere di ore o di giorni, alla mercè dello sguardo della gente, autorizzata a disprezzarlo e ad infierire su di lui con una crudeltà inimmaginabile. Progressivamente, nei vari paesi, si è arrivati ad una concezione del diritto che proibisce trattamenti degradanti in un’ottica della pena che, almeno teoricamente, non viene più considerata come il mezzo per far pagare il male compiuto con un altro male di uguale intensità, ma percorso rieducativo. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, recita l’articolo 27 della Costituzione Italiana; e, per quanto la lontananza dalla sua efficace applicazione sia stratosferica, l’assunto di base risulta almeno in parte introiettato dal pensiero comune, nonostante i rigurgiti reazionari siano sempre virulenti.

Il discorso va allargato ad atteggiamenti che solo apparentemente non hanno nulla da spartire con i fenomeni più drammatici: per esempio, non è da sottostimare la diffusione dell’ammonimento Vergognati! frequentemente rivolto ai bambini, vale a dire alla fascia più debole delle persone, che, in funzione dell’età, possono non avere capacità alcuna di una valutazione critica dell’imposizione. L’immagine del bambino, annichilito, occhi bassi, magari in lacrime ben rappresenta la risposta all’emozione penosa e distruttiva della vergogna, sollecitata dalle parole dell’adulto: non valgo nulla, non sono degno, merito di essere svergognato: perché lo dice lui, che è grande, sa tutto, e non può che avere ragione. L’asimmetria della relazione rende il risultato dell’intervento “educativo” scontato. Sono pochissimi i decenni che ci separano dai castighi comminati all’interno delle aule scolastiche attraverso l’esposizione alla pubblica vergogna: staccare un bambino dal contesto della classe e metterlo di fonte ai suoi compagni in situazioni umilianti, come castigo a sue mancanze sortiva l’effetto di farlo sentire inferiore, diverso, isolato: dal punto di vista psicologico una punizione drammatica, capace di colpire nel profondo il senso di identità. Non è difficile ritrovare nei racconti degli adulti richiami ad esperienze di questo tipo che, pur lontanissime nel tempo, conservano tutta la loro potenza devastante, incistate nel profondo come ferite indelebili, presenze ingombranti a inondare con il senso di indegnità l’idea di sé negli anni successivi, talvolta per l’intera vita. L’espressione Pedagogia Nera, che usa Alice Miller nel raccontare i soprusi all’infanzia ne dà lugubre rappresentazione.

E molto ci sarebbe ancora da dire sui riflessi lunghi di un altro tipo di gogna, quella mediatica oggi drammaticamente diffusa: a volte investe giovani e giovanissimi esposti alla derisione dei compagni per vere o presunte fragilità, oppure ragazze consegnate alla stigmatizzazione pubblica attraverso la diffusione di immagini private, in genere a sfondo sessuale; ma anche adulti di cui vengono sviscerati segreti intimi o riservati, allo scopo di degradarne l’immagine. Qualunque sia lo scopo che ci si prefigge, le reazioni possono essere tragiche e a volte oltrepassare di gran lunga le previsioni: la propria immagine in frantumi, il senso di isolamento, la disconferma della propria persona si possono trasformare in forme acute e pericolose di depressione o innescare risposte controaggressive di impensabile violenza, pari a quella subita. Non basta: il suicidio non raramente è visto come l’unica risposta possibile a tanto dolore.

Tutte le pratiche del male hanno un percorso di formazione, da forme considerate tenui, lungo un continuum sempre più drammatico: non sarà mai troppo presto prenderne atto, e riflettere come anche i personali comportamenti di vita quotidiana, per quanto sottovalutati, abbiano un proprio peso specifico nello tsunami autodistruttivo che incombe sulla nostra specie.