venerdì 8 luglio 2016

LINGUAGGIO E ANIMALI: ANIMALE SARAI TU


Il linguaggio al servizio della svalutazione degli umani e degli animali non umani
Per certe bestie nessuna pietà” proclamava pochi giorni fa sulle pagine del Corriere della Sera il deputato Salvini riferendosi all’orrido omicidio della giovane Sara, uccisa a coltellate e poi data alle fiamme dal suo ex fidanzato. Poco originale il titolo: a proposito di un cittadino filippino ucciso a calci e pugni sotto gli occhi dei passanti a Milano tempo fa, i caratteri cubitali dello stesso giornale recitavano: “L’hanno ucciso, erano belve. E ancora, sfogliando qua e là: “Non sono uomini: sono animali”, questa volta a proposito dei responsabili degli agghiaccianti stupri e omicidi di bambini e bambine nelle zone periferiche non lontano da Napoli. Pressochè quotidiani sono questi riferimenti, sia perché tanto comuni sono, ahimè, episodi di atroce cronaca nera, sia perchè la narrazione pare incapace di astenersi dalle metafore animali per esprimere e dare forma al peggio, pur se il linguaggio, a causa dell’usura, ha di fatto perso l’incisività, che accompagna la forza di parole e immagini nuove: pare proprio non trovarsi di meglio.  Così animali, bestie, belve  sono per antonomasia i sadici, gli psicopatici, i delinquenti della peggior risma, meritevoli di tutto il nostro sdegno: quelli, per intenderci, indiscutibilmente appartenenti alla specie umana.  
Ora, il  linguaggio è fondamentale, come ben sappiamo dalla nostra esperienza quotidiana, quando le cose che diciamo e le parole che scegliamo con cura o pronunciamo senza riflettere,   ci ritornano indietro con il loro carico di conseguenze, positive o negative che siano:  veicola informazioni, idee, modi di pensare non solo attraverso l’elaborazione del pensiero, ma anche grazie all’uso dei termini che sempre sono portatori  di un significato che va oltre il letterale per includere il suggerito, il metaforico, il simbolico. Il linguaggio non è mai neutro: parla, appunto, e parla per noi e di noi.
Il mondo animale, in questo senso, è un pozzo senza fondo di idee, qualche volta frutto di associazioni logiche, molto più spesso legate non agli animali reali, ma alla rappresentazione che di loro costruiamo, e che è sempre funzionale a qualche nostro interesse.
Si può cominciare dalla constatazione che metafore dal mondo animale sono state e sono regolarmente e sapientemente utilizzate nel corso delle guerre, antiche e moderne,  quando la necessità di solleticare i peggiori istinti, di animare un odio che stenta a svilupparsi perché non è nutrito da alcuna ragione (dice Cassius Clay, alias Mohamed Alì: “Perché dovrei andare ad ammazzare i vietcong? Non mi hanno fatto niente!”) , connota con epiteti animali il nemico: lo scopo, purtroppo raggiungibile, è quello di disumanizzare l’altro, abbassandolo al rango di animale non umano e rendendolo così più facile vittima di una violenza senza ragione. “Prima di morire, la vittima deve essere degradata, affinchè l’uccisore senta meno il peso della sua colpa” commenta  lucidamente Primo Levi[1] cercando l’introvabile senso degli orrori di Auschwitz. L’elenco è quanto mai vasto:   topi di fogna” erano gli ebrei durante il nazismo, “scarafaggi” i tutsi nel massacro ruandese in una ossessiva propaganda radiofonica che preparò e affiancò la carneficina di 900.000 persone uccise a colpi di machete nello spazio di tre mesi;  tacchini” gli iracheni durante la  guerra del golfo in fuga dalla bombe, che erano intelligenti solo in un uso per l’appunto sconsiderato del linguaggio; “cimici” gli slavi nel periodo fascista; e se  Churchill parlava del “cane giapponese”, i giapponesi non erano da meno definendo “maiali” i cinesi, mentre   topi drogati” secondo Gheddafi i ribelli che lo stavano spodestando nel corso della guerra civile del 2011.
Gli animali più gettonati sono quelli più disprezzati, in grado di suscitare reazioni di ribrezzo, grazie alla rappresentazione svilita che sempre ne diamo: quindi cimici e scarafaggi, che quasi per definizione sono da schiacciare sotto i piedi;  topi, da ricacciare nelle fogne;  maiali, che sono il concentrato di tutte le nefandezze;  se per caso  capita di riferirsi ai cani, allora meglio che siano  rognosi, appestati, oppure si deve trattare di figli di cagna, di quell’animale cioè notoriamente dedito ad attività sessuali del tutto disdicevoli.
In tempo di pace le cose non vanno tanto diversamente: esiste un dirompente meccanismo di proiezione per cui il peggio che si annida nel nostro mondo di istinti, pulsioni  e passioni inconfessabili non viene riconosciuto come appartenente a noi umani, ma gettato addosso ad altra specie: noi ci ripuliamo, ce ne liberiamo, e, contestualmente,  costruiamo dell’altro una rappresentazione falsa, funzionale ai nostri scopi. Se “bestia” e “animale” è chiunque si macchi di crimini orrendi,  “verme” è un inetto, un pavido incapace di vivere a testa alta, che striscia per colpire nascondendosi;  “sciacalli” sono quegli umani che approfittano delle disgrazie altrui per infierire ulteriormente su chi è già in disgrazia, con buona pace degli sciacalli veri, che invece restano in paziente attesa dei resti dei banchetti altrui; il “branco” è quello dei giovani stupratori che traggono forza dal numero, benché  davvero non si sappia a quale animale si affaccerebbero alla mente imprese del genere. Un posto di primo piano, in questa forsennata costruzione di un “altro” da denigrare, è riservato al maiale, affiancato alla tipologia di  chi non sa governare i propri istinti e si lascia andare all’esternazione di una natura sporca, grassa, indecente. La metafora del maiale ha avuto uno sviluppo davvero imprevedibile in tempi relativamente recenti quando il suo nome è stato usato per battezzare una legge, che peggio non poteva essere ideata, il “Porcellum” appunto, così chiamato dal suo stesso ideatore, l’onorevole Calderoli, che l’ha firmata in veste di ministro, ma poi, evidentemente richiamato a valutare, diciamo così, qualche falla nel suo funzionamento, che lo ha fatto definire da diverse fonti un’abominia, una sozzeria, un disastro, ha pensato bene che fosse da avvicinare ad un maiale, senza alcuna riflessione sul dato di realtà che a nessun maiale al mondo, ma solo a un uomo, lui nello specifico, poteva essere attribuito un capolavoro del genere. Non comunque una butade del momento, ma convinzione profonda dell’idoneità  del termine, visto che, si è letto su qualche giornale “stanno per varare l’ennesima porcata, ma un po’ meno grave, il “maialinum”,  così battezzato questa volta da un altro politico di lungo corso, Antonio Martino. Per altro l’onorevole Calderoli pare invaso da una speciale attrazione verso il mondo degli altri animali, se è vero che, come ha a tutti comunicato, la vista dell’allora ministro Cecile Kienge lo faceva immediatamente pensare ad un orango:  ancora una volta con lo scopo implicitamente espresso di usare un accostamento animale come mezzo di denigrazione, essendo l’orango, nei pensieri dell’onorevole, da situare su un gradino più basso (del suo) nella scala evolutiva.  La metafora, oltrechè essere inaccettabilmente offensiva, pecca ancora una volta  di scarsa originalità, essendo  stata nella storia la più usata per umiliare i popoli di colore. Ed è di drammatica attualità l'epiteto di scimmia offensivamente lanciato a Chinyery,  per altro bellissima ragazza di colore, che passeggiava con il suo compagno per le vie della civilissima Fermo: prologo al passaggio all'atto e alla barbara uccisione del giovane Emmanuel Chidi .


Il maiale, dal canto suo, è davvero diffamato oltre ogni dire: porcata è tutto ciò che è basilarmente sbagliato, porco è l’appellativo di ogni bestemmia. La profondissima insensatezza di tutto questo è che si tratta di un animale, che di fatto è molto intelligente, giocherellone, simpatico, affettuoso, amante della prole, capace di sentimenti e comportamenti amicali verso chi si occupa di lui con rispetto.
Ma esistono sottigliezze linguistiche maggiori: basta pensare alle espressioni del tipo “trattati come animali”, “stipati come animali al macello”, “lavorare come una bestia”: la gravità di  questo linguaggio è tutta nell’implicita legittimazione del  male che viene agito: il messaggio subliminale veicolato è che non è giusto sottoporre gli umani alle vessazioni che è normale invece riservare ai  non umani, loro appannaggio per una sorta di legge di natura.
Allo stesso modo “sentirsi come un cane bastonato”, “uccidere il vitello grasso”, “tagliare la testa al toro” sono espressioni che si riferiscono ad abitudini crudeli, a cui in questo modo viene concesso diritto di cittadinanza, private come sono da ogni connotazione compassionevole o critica. Ancora: “matador” è il giocatore che ha compiuto la strabiliante impresa di infilare un pallone in rete, senza un pensiero all’orrore indicibile che il temine dovrebbe richiamare.
Si può entrare in campi ancora diversi, in cui la degradazione dell’animale non umano non appartiene ad una  lingua parlata imprecisa, ma viene elevata a concetto economico: in questo ambito esiste un termine, “commodities”, che designa le materie prime necessarie alla vita dell’uomo e soggette alla variazioni di borsa: tra queste, oltre a beni quali oro, argento, benzina, gas, caffè o soia, si trovano le voci “bovini vivi”, “suini”: quindi grandi animali dotati di vita, sentimenti, bisogni ed emozioni, vengono accomunati con un unico termine a sostanze inanimate o vegetali, con l’imprimatur delle leggi dell’economia. Per altro il non riconoscimento della loro essenza vivente e senziente emerge con vividezza nelle non rare sconvolgenti situazioni di ribaltamento di camion che li trasportano al macello: “Nessuna vittima” rassicurano i titoli dei giornali e solo la lettura dell’articolo ci informa che il “carico” ha “perso” un tot di animali, rimasti uccisi, ma per fortuna il “proprietario” verrà risarcito dall’assicurazione.
Ancora: tutto ciò che concerne gli animali non umani cerca nel linguaggio termini che consentano di marcare una diversità rispetto alle identiche situazioni che coinvolgono gli umani: il loro corpo morto non è salma o cadavere, ma carcassa; loro non vengono cremati, ma smaltiti, come si fa con i rifiuti. Quando invece parole  come dolore e sofferenza vengono riferiti ad animali impiegati nella sperimentazione animale, sulle riviste scientifiche vengono virgolettati, a mandare un messaggio implicito che il senso non corrisponde a quello assunto dalla stessa parola  quando riferita agli umani, ma viene usato giusto per suggerire, marcando al tempo stesso una diversità. Quindi un gatto con gli elettrodi puntati nella testa, un cane a cui vengono rotte le zampe, una scimmia con gli occhi cuciti non soffrono, ma “soffrono”.
Non è problema di poco conto: tra linguaggio e pensiero esiste una dinamica di reciproco influenzamento: dal momento che il pensiero si esprime attraverso il linguaggio e il linguaggio a sua volta ridetermina il pensiero,  è evidente che un uso tanto improprio, come quello fino a qui descritto, non resta neutro, ma è mezzo di diffusione e di consolidamento di un approccio totalmente antropocentrico: noi siamo il meglio, tutto ciò che di brutale, idiota, inaccettabile facciamo non ci definisce come esseri umani, ma lo proiettiamo sul mondo animale, ad esso appartenente. Al di là dell’insostenibilità logica e razionale di queste implicite connotazioni, esiste un problema che attiene al non riconoscimento di quelle che sono invece le nostre parti oscure, la nostra Ombra, che avremmo invece l’obbligo morale e umano di riconoscere per conoscere noi stessi, la  materia di cui siamo fatti che possiede luci (poche) ed ombre (tante). E per non commettere l’enorme ingiustizia di attribuire tutto il male al mondo degli altri animali, costruendo costantemente di loro una rappresentazione falsa, funzionale solo alla nostra autoassoluzione. Sostenere, come facciamo, la loro spregevolezza,  ci permette di trattarli come li trattiamo in tutti i posti del loro martirio senza tormentarci inutilmente, ci solleva da responsabilità morali e  senso di colpa. Non è certo un caso che la vittima, ogni vittima,  venga insultata nel momento stesso in cui viene maltrattata o uccisa: lo abbiamo imparato già da piccoli (alcune generazioni fa…) quando i bianchi uccidevano gli indiani al grido di qualcosa del tipo “Muori lurido cane” : e per quanto imbarazzante oggi sia ammetterlo, tanti di noi hanno tifato proprio per i cow-boy: la rappresentazione che veniva fatta dei ruoli evidentemente funzionava. Lo fanno oggi, per esemplificare con la cronaca quotidiana, gli autori di femminicidi, che insultano la donna che uccidono mentre la uccidono: insomma, se lo merita.
Per concludere, bisogna prendere atto che il linguaggio facilmente mente per noi, è luogo di falsificazione, e quindi la sua revisione è necessità imprescindibile: è solo un piccolo, ma fondamentale passo nella direzione di un radicale rovesciamento della   visione del mondo, tale per cui  il richiamo ad un animale, quale che esso sia, solleciti nel nostro immaginario non la percezione di una subalternità degradata,  ricettacolo delle nostre parti peggiori, ma un   lusinghiero richiamo all’infinita ricchezza delle loro vite.


[1] “I sommersi e i salvati”, Einaudi 1986

L'articolo è stato pubblicato sul giornale on line www.lindro.com

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