Il linguaggio al
servizio della svalutazione degli umani e degli animali non umani
“Per certe bestie nessuna pietà” proclamava pochi giorni fa sulle pagine
del Corriere della Sera il deputato Salvini riferendosi all’orrido omicidio
della giovane Sara, uccisa a coltellate e poi data alle fiamme dal suo ex
fidanzato. Poco originale il titolo: a proposito di un cittadino filippino
ucciso a calci e pugni sotto gli occhi dei passanti a Milano tempo fa, i
caratteri cubitali dello stesso giornale recitavano: “L’hanno ucciso, erano belve”.
E ancora, sfogliando qua e là: “Non sono
uomini: sono animali”, questa
volta a proposito dei responsabili degli agghiaccianti stupri e omicidi di
bambini e bambine nelle zone periferiche non lontano da Napoli. Pressochè
quotidiani sono questi riferimenti, sia perché tanto comuni sono, ahimè,
episodi di atroce cronaca nera, sia perchè la narrazione pare incapace di
astenersi dalle metafore animali per esprimere e dare forma al peggio, pur se
il linguaggio, a causa dell’usura, ha di fatto perso l’incisività, che
accompagna la forza di parole e immagini nuove: pare proprio non trovarsi di
meglio. Così animali, bestie, belve sono
per antonomasia i sadici, gli psicopatici, i delinquenti della peggior risma,
meritevoli di tutto il nostro sdegno: quelli, per intenderci, indiscutibilmente
appartenenti alla specie umana.
Ora, il linguaggio è fondamentale, come ben sappiamo
dalla nostra esperienza quotidiana, quando le cose che diciamo e le parole che
scegliamo con cura o pronunciamo senza riflettere, ci ritornano indietro con il loro carico di
conseguenze, positive o negative che siano: veicola informazioni, idee, modi di pensare
non solo attraverso l’elaborazione del pensiero, ma anche grazie all’uso dei
termini che sempre sono portatori di un
significato che va oltre il letterale per includere il suggerito, il metaforico,
il simbolico. Il linguaggio non è mai neutro: parla, appunto, e parla per noi e
di noi.
Il mondo
animale, in questo senso, è un pozzo senza fondo di idee, qualche volta frutto
di associazioni logiche, molto più spesso legate non agli animali reali, ma
alla rappresentazione che di loro costruiamo, e che è sempre funzionale a
qualche nostro interesse.
Si può
cominciare dalla constatazione che metafore dal mondo animale sono state e sono
regolarmente e sapientemente utilizzate nel corso delle guerre, antiche e
moderne, quando la necessità di
solleticare i peggiori istinti, di animare un odio che stenta a svilupparsi
perché non è nutrito da alcuna ragione (dice Cassius Clay, alias Mohamed
Alì: “Perché dovrei andare ad ammazzare i vietcong? Non mi hanno fatto
niente!”) , connota con epiteti animali il nemico: lo scopo, purtroppo raggiungibile,
è quello di disumanizzare l’altro, abbassandolo al rango di animale non umano e
rendendolo così più facile vittima di una violenza senza ragione. “Prima di morire, la vittima deve essere
degradata, affinchè l’uccisore senta meno il peso della sua colpa” commenta
lucidamente Primo Levi[1]
cercando l’introvabile senso degli orrori di Auschwitz. L’elenco è quanto mai
vasto: “topi di fogna” erano gli ebrei durante il nazismo, “scarafaggi” i tutsi nel massacro
ruandese in una ossessiva propaganda radiofonica che preparò e affiancò la
carneficina di 900.000 persone uccise a colpi di machete nello spazio di tre
mesi; “tacchini” gli iracheni durante la guerra del golfo in fuga dalla bombe, che
erano intelligenti solo in un uso per l’appunto sconsiderato del linguaggio; “cimici” gli slavi nel periodo fascista;
e se Churchill parlava del “cane giapponese”, i giapponesi non erano da meno definendo “maiali” i cinesi, mentre “topi
drogati” secondo Gheddafi i ribelli che lo stavano spodestando nel corso
della guerra civile del 2011.
Gli animali più
gettonati sono quelli più disprezzati, in grado di suscitare reazioni di
ribrezzo, grazie alla rappresentazione svilita che sempre ne diamo: quindi cimici
e scarafaggi, che quasi per definizione sono da schiacciare sotto i piedi; topi, da ricacciare nelle fogne; maiali, che sono il concentrato di tutte le
nefandezze; se per caso capita di riferirsi ai cani, allora meglio che
siano rognosi, appestati, oppure si deve
trattare di figli di cagna, di quell’animale cioè notoriamente dedito ad
attività sessuali del tutto disdicevoli.
In tempo di pace
le cose non vanno tanto diversamente: esiste un dirompente meccanismo di
proiezione per cui il peggio che si annida nel nostro mondo di istinti,
pulsioni e passioni inconfessabili non
viene riconosciuto come appartenente a noi umani, ma gettato addosso ad altra
specie: noi ci ripuliamo, ce ne liberiamo, e, contestualmente, costruiamo dell’altro una rappresentazione
falsa, funzionale ai nostri scopi. Se “bestia” e “animale” è chiunque si macchi
di crimini orrendi, “verme” è un inetto,
un pavido incapace di vivere a testa alta, che striscia per colpire
nascondendosi; “sciacalli” sono quegli
umani che approfittano delle disgrazie altrui per infierire ulteriormente su
chi è già in disgrazia, con buona pace degli sciacalli veri, che invece restano
in paziente attesa dei resti dei banchetti altrui; il “branco” è quello dei
giovani stupratori che traggono forza dal numero, benché davvero non si sappia a quale animale si
affaccerebbero alla mente imprese del genere. Un posto di primo piano, in
questa forsennata costruzione di un “altro” da denigrare, è riservato al
maiale, affiancato alla tipologia di chi
non sa governare i propri istinti e si lascia andare all’esternazione di una
natura sporca, grassa, indecente. La metafora del maiale ha avuto uno sviluppo
davvero imprevedibile in tempi relativamente recenti quando il suo nome è stato
usato per battezzare una legge, che peggio non poteva essere ideata, il “Porcellum” appunto, così chiamato dal
suo stesso ideatore, l’onorevole Calderoli, che l’ha firmata in veste di ministro,
ma poi, evidentemente richiamato a valutare, diciamo così, qualche falla nel
suo funzionamento, che lo ha fatto definire da diverse fonti un’abominia, una
sozzeria, un disastro, ha pensato bene che fosse da avvicinare ad un maiale,
senza alcuna riflessione sul dato di realtà che a nessun maiale al mondo, ma
solo a un uomo, lui nello specifico, poteva essere attribuito un capolavoro del
genere. Non comunque una butade del momento, ma convinzione profonda
dell’idoneità del termine, visto che, si
è letto su qualche giornale “stanno per varare l’ennesima porcata, ma un po’ meno grave, il “maialinum”, così battezzato
questa volta da un altro politico di lungo corso, Antonio Martino. Per altro
l’onorevole Calderoli pare invaso da una speciale attrazione verso il mondo
degli altri animali, se è vero che, come ha a tutti comunicato, la vista
dell’allora ministro Cecile Kienge lo faceva immediatamente pensare ad un
orango: ancora una volta con lo scopo
implicitamente espresso di usare un accostamento animale come mezzo di
denigrazione, essendo l’orango, nei pensieri dell’onorevole, da situare su un
gradino più basso (del suo) nella scala evolutiva. La metafora, oltrechè essere
inaccettabilmente offensiva, pecca ancora una volta di scarsa originalità, essendo stata nella storia la più usata per umiliare
i popoli di colore. Ed è di drammatica attualità l'epiteto di scimmia offensivamente lanciato a Chinyery, per altro bellissima ragazza di colore, che passeggiava con il suo compagno per le vie della civilissima Fermo: prologo al passaggio all'atto e alla barbara uccisione del giovane Emmanuel Chidi .
Il maiale, dal
canto suo, è davvero diffamato oltre ogni dire: porcata è tutto ciò che è
basilarmente sbagliato, porco è l’appellativo di ogni bestemmia. La profondissima
insensatezza di tutto questo è che si tratta di un animale, che di fatto è
molto intelligente, giocherellone, simpatico, affettuoso, amante della prole,
capace di sentimenti e comportamenti amicali verso chi si occupa di lui con
rispetto.
Ma esistono
sottigliezze linguistiche maggiori: basta pensare alle espressioni del tipo “trattati
come animali”, “stipati come animali al macello”, “lavorare come una bestia”: la
gravità di questo linguaggio è tutta nell’implicita
legittimazione del male che viene agito:
il messaggio subliminale veicolato è che non è giusto sottoporre gli umani alle
vessazioni che è normale invece riservare ai non umani, loro appannaggio per una sorta di legge
di natura.
Allo stesso modo
“sentirsi come un cane bastonato”, “uccidere il vitello grasso”, “tagliare la
testa al toro” sono espressioni che si riferiscono ad abitudini crudeli, a cui
in questo modo viene concesso diritto di cittadinanza, private come sono da
ogni connotazione compassionevole o critica. Ancora: “matador” è il giocatore che ha compiuto la strabiliante impresa di
infilare un pallone in rete, senza un pensiero all’orrore indicibile che il
temine dovrebbe richiamare.
Si può entrare
in campi ancora diversi, in cui la degradazione dell’animale non umano non
appartiene ad una lingua parlata
imprecisa, ma viene elevata a concetto economico: in questo ambito esiste un
termine, “commodities”, che designa
le materie prime necessarie alla vita dell’uomo e soggette alla variazioni di
borsa: tra queste, oltre a beni quali oro, argento, benzina, gas, caffè o soia,
si trovano le voci “bovini vivi”, “suini”: quindi grandi animali dotati di
vita, sentimenti, bisogni ed emozioni, vengono accomunati con un unico termine
a sostanze inanimate o vegetali, con l’imprimatur delle leggi dell’economia.
Per altro il non riconoscimento della loro essenza vivente e senziente emerge
con vividezza nelle non rare sconvolgenti situazioni di ribaltamento di camion
che li trasportano al macello: “Nessuna vittima” rassicurano i titoli dei giornali
e solo la lettura dell’articolo ci informa che il “carico” ha “perso” un tot di animali, rimasti uccisi, ma per
fortuna il “proprietario” verrà
risarcito dall’assicurazione.
Ancora: tutto
ciò che concerne gli animali non umani cerca nel linguaggio termini che
consentano di marcare una diversità rispetto alle identiche situazioni che
coinvolgono gli umani: il loro corpo morto non è salma o cadavere, ma carcassa; loro non vengono cremati, ma smaltiti, come si fa con i rifiuti. Quando invece parole come dolore
e sofferenza vengono riferiti ad animali impiegati nella sperimentazione
animale, sulle riviste scientifiche vengono virgolettati, a mandare un
messaggio implicito che il senso non corrisponde a quello assunto dalla stessa
parola quando riferita agli umani, ma
viene usato giusto per suggerire, marcando al tempo stesso una diversità. Quindi
un gatto con gli elettrodi puntati nella testa, un cane a cui vengono rotte le
zampe, una scimmia con gli occhi cuciti non soffrono, ma “soffrono”.
Non è problema
di poco conto: tra linguaggio e pensiero esiste una dinamica di reciproco
influenzamento: dal momento che il pensiero si esprime attraverso il linguaggio
e il linguaggio a sua volta ridetermina il pensiero, è evidente che un uso tanto improprio, come
quello fino a qui descritto, non resta neutro, ma è mezzo di diffusione e di
consolidamento di un approccio totalmente antropocentrico: noi siamo il meglio,
tutto ciò che di brutale, idiota, inaccettabile facciamo non ci definisce come
esseri umani, ma lo proiettiamo sul mondo animale, ad esso appartenente. Al di
là dell’insostenibilità logica e razionale di queste implicite connotazioni,
esiste un problema che attiene al non riconoscimento di quelle che sono invece
le nostre parti oscure, la nostra Ombra, che avremmo invece l’obbligo morale e
umano di riconoscere per conoscere noi stessi, la materia di cui siamo fatti che possiede luci
(poche) ed ombre (tante). E per non commettere l’enorme ingiustizia di
attribuire tutto il male al mondo degli altri animali, costruendo costantemente
di loro una rappresentazione falsa, funzionale solo alla nostra
autoassoluzione. Sostenere, come facciamo, la loro spregevolezza, ci permette di trattarli come li trattiamo in
tutti i posti del loro martirio senza tormentarci inutilmente, ci solleva da
responsabilità morali e senso di colpa.
Non è certo un caso che la vittima, ogni vittima, venga insultata nel momento stesso in cui
viene maltrattata o uccisa: lo abbiamo imparato già da piccoli (alcune
generazioni fa…) quando i bianchi uccidevano gli indiani al grido di qualcosa
del tipo “Muori lurido cane” : e per
quanto imbarazzante oggi sia ammetterlo, tanti di noi hanno tifato proprio per
i cow-boy: la rappresentazione che veniva fatta dei ruoli evidentemente
funzionava. Lo fanno oggi, per esemplificare con la cronaca quotidiana, gli
autori di femminicidi, che insultano la donna che uccidono mentre la uccidono:
insomma, se lo merita.
Per concludere, bisogna
prendere atto che il linguaggio facilmente mente per noi, è luogo di
falsificazione, e quindi la sua revisione è necessità imprescindibile: è solo
un piccolo, ma fondamentale passo nella direzione di un radicale rovesciamento
della visione del mondo, tale per cui il richiamo ad un animale, quale che esso
sia, solleciti nel nostro immaginario non la percezione di una subalternità
degradata, ricettacolo delle nostre
parti peggiori, ma un lusinghiero
richiamo all’infinita ricchezza delle loro vite.
[1]
“I sommersi e i salvati”, Einaudi 1986
L'articolo è stato pubblicato sul giornale on line www.lindro.com
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