Viene giudicata originale, persino un po’ impertinente la trovata della Caritas altoatesina di promuovere quest’anno un modo alternativo di festeggiare un natale che sia solidale anziché consumistico: sì, perché non pensa solo agli alimenti per le persone bisognose dell’Alto Adige, alla legna per gli anziani della Serbia, alle scarpe per i bambini boliviani, agli alberi da frutta per l’Etiopia, alle sementi per Haiti o a un pozzo per una comunità del Kenia, ma si compiace del proprio anticonformismo nel proporre come regalo a comunità bisognose un asino o una capra, che vanno ad arricchire il parco-animali delle ormai usuali mucche, offerte come dono da altre associazioni umanitarie.
Le battute si sprecano: e
quindi l’asinello impacchettato con
tanto di fiocco sopra è pretesto per immancabili spiritosaggini sullo
stereotipo della presunta stupidità della sua specie: non fare l’asino! Oltre
all’uso, anche lo scherno, tanto alla luce di cause nobili tutto si può sdoganare.
Prescindiamo innanzi tutto dal
fatto che esseri viventi vengano mischiati ed equiparati a cose: asini o scarpe
fa lo stesso: e siamo già sul terreno scivoloso di una pericolosa confusione da
cui le altre hanno origine. Nessun dubbio che il rispetto per gli altri animali
sia tanto più imprescindibile quanto più le condizioni di vita sono tali da non
assorbire ogni energia per la propria sopravvivenza e possano concedere quindi spazio anche per la cura degli altri: superfluo dire che non è per
esempio perseguibile un’adesione al veganesimo nelle comunità del Senegal, che
hanno porti pescosissimi a fronte di una miseria eclatante e pervasiva in tutto
il territorio. Questo mentre la gran parte
del mondo occidentale, a pancia debitamente riempita, considera il
non nutrirsi con prodotti di origine animale una scelta masochisticamente
francescana, foriera di rinunce iperumane, novella impresa di Sisifo,
impraticabile se non grazie ad una forza di volontà che definire epica sarebbe
poco: il tutto in presenza di ipermercati strabordanti di qualsivoglia cibo
alternativo.
In
questa ottica chiedere a comunità in grande difficoltà di preoccuparsi
dell’asinello, della capra o della mucca
suonerebbe stonato, provocatorio, laddove gli stessi animali sono usati
e sfruttati da un’altra parte di mondo per motivi lontani mille miglia da
logiche di sussistenza.
Ma
il problema esiste ed è doveroso porselo; perché mai devono essere sempre e
comunque gli animali ad essere messi sotto l’ultimo dei gradini a fungere da
vittime pagando il prezzo più amaro di tutte le ingiustizie? Non sono i più
diseredati a dover rifiutare l’offerta, sono i donatori a non essere in diritto
di farla: nel momento in cui questo diritto se lo arrogano, sostengono ancora
una volta il proprio ruolo di padroni di
qualcuno (loro pensano di qualcosa) che di fatto non appartiene loro.
L’alternativa non è ovviamente quella di disinteressarsi di chi non ha mezzi di
sussistenza, ma quello di andare in suo soccorso con ciò che è lecito (sementi,
pozzi, legname, fertilizzanti…..) anzichè rimediare ad un’ingiustizia creando
un’altra ingiustizia.
Troppo
facile ammantarsi di una solidarietà, che furoreggia all’insegna del
siamotuttipiùbuoni a spese altrui. Il meccanismo è ben rodato, che si tratti di
portare cibo a che non ne ha, di sostenere la ricerca in soccorso di chi è
malato, di aiutare economie in crisi: se ne è avuta dimostrazione
evidente in risposta al terremoto della
scorsa estate nei paesi dell’Italia centrale, in seguito al quale in moltissime
parti d’Italia sono stati organizzati banchetti a base di amatriciana allo
scopo, si è sbandierato, di aiutare economie
in ginocchio. Francamente, per chi ha deciso di aderire, l’impegno non è stato
dei più onerosi dal momento che tutto ciò che si chiedeva di fare era mangiare,
mangiare e poi ancora mangiare, attività notoriamente apprezzata al di là di
ogni necessità. E se qualcuno, in preda a deliri di conoscenza, avesse deciso
di porsi qualche domanda su chi (non cosa) era parte di una prelibatezza quale l’amatriciana è, il
garbo del linguaggio avrebbe costituito ulteriore argine all’irrompere di qualche
pensiero disturbante: come ingrediente clou
della preparazione avrebbe infatti trovato, oltre al pecorino (ma tanto il
formaggio non si connette mai all’idea di sfruttamento animale) il guanciale:
lusinghe del linguaggio, che sollecita immagini di morbidezza, quiete,
accoglienza: il guanciale, quando non è quello che favorisce i nostri sonni
sereni, è, nel nostro immaginario, quello fatto di rose. In realtà nulla di più alieno dalla
verità, che è invece quella della guancia del maiale (nessuna parte di
questo animale viene in altri contesti chiamata con un termine tanto gentile:
se mai zampone, cotenna, strutto….) , sulla cui consistenza di grasso
e venature magre gli esperti vanno discutendo. Quanti sono quelli capaci di accostare
il pensiero di quella guancia, con quel sapore di umano che il termine
contiene, ai maiali uccisi, appesi a testa in giù a sgocciolare sangue, dopo
avere cercato di scalciare lontano la loro morte? Meglio che no: il piacere della gola e quello della pancia
normalmente zittiscono le cattive associazioni,
figurarsi la meraviglia di poter spostare tutta l’attenzione sulla solidarietà,
di cui piace tanto sentirsi interpreti.
Il
copione di base, mutatis mutandis, viene recitato in altri contesti: siamo in
tempi di maratona Telethon, alias raccolta fondi (tantissimi) per la ricerca. Buonisti di tutto il mondo unitevi: tutti in
abiti da sera, festosi e luccicanti, presumibilmente ben pagati, a sollecitare dagli
schermi i migliori istinti solidaristici in favore di chi sta male: urletti di
entusiasmo per la generosità dei telespettatori, che non deludono mai e magari,
qua e là, un’intervista a bambini affetti da malattie genetiche, con primi
piani soltanto un po’ sfocati (un po’ di rispetto, che diamine, per il dolore
altrui!), a schiacciare il pedale dell’emotività. Anche in questo caso, grande
assente è parte dell’informazione: non una sola parola, neppure per sbaglio, a
ricordare che la ricerca viene svolta anche con la sperimentazione sugli
animali, vale a dire con metodi sottoposti a fondamentale revisione scientifica.
Soprattutto silenzio tombale sulle inaudite terrificanti sofferenze di tutti
gli animali coinvolti, convitati di
pietra alla serata di gala, quelli, pensando alla cui disperazione, Elsa
Morante commentava “Non c’è parola in
nessun linguaggio umano capace di consolare le cavie che non sanno il perché
della loro morte”.
Sulla
pelle degli animali vengono quotidianamente compiute le peggiori nefandezze,
nel silenzio delle coscienze tacitate da meccanismi che tendono a rimuovere o
negare una realtà tanto scomoda che ci dovrebbe piuttosto inchiodare alle
nostre responsabilità. Ai meccanismi rodati, va ad aggiungersi in questi casi quello
della giustificazione morale: il male inflitto, nel caso in cui
fuoriesca dalle maglie della rimozione e della negazione che tendono a tenerlo
ben lontano dalla nostra consapevolezza, è comunque non solo necessario, ma
anche legittimato da nobili scopi, da ideali superiori: soccorriamo chi è in
difficoltà, ci diamo da fare per alleviare le sue sofferenze. Non siamo lontani
dalla dottrina machiavellica del fine (elevato) che giustifica i mezzi
(disumani): l’attenzione tutta concentrata sul bene in corso d’opera, vero o presunto
che sia, che tendiamo ad amplificare ed esaltare, viene distolto dai metodi
usati, dal dolore con cui è lastricata l’intera strada. Ogni intervento in
difesa degli animali, in un contesto del genere, suscita reazioni
scandalizzate, che, nel solito marasma di argomentazioni, mistifica la realtà
riorganizzandola nel binomio che oppone le persone per bene, quelle che fanno
loro la assodata gerarchia dei viventi, in cima alla quale pongono se’ stessi,
alle altre che, nell’identificazione con chi le proprie ragioni le vede sempre
negate, vengono delegittimate, condannate senza processo per crimini di
insensibilità.
“E’
nel buio che devi guardare, con disobbedienza, ottimismo e avventatezza”,
raccomandava Marguerite Yourcenar: in questo buio, a ben guardare, li possiamo
vedere tutti gli esseri che continuano a pagare senza colpa, senza poter capire
altro che la propria stessa sofferenza, senza
poter fare nulla per sottrarvisi. Allora
forse almeno il buon gusto di non ammantarci di un altruismo, che davvero ci è
estraneo, dovremmo conservarlo.
Eh si. Così come la green economy, tutto ciò che è bio, eco e chi più ne ha più ne metta. Buona giornata Roberto
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