Quando
si parla di tutela degli animali, il riferimento principale è alla legge 189 del 2004, (che in verità, come
sancisce il Titolo IX-BIS, dichiaratamente tutela non loro, ma il sentimento degli uomini nei loro confronti) : questa, dopo
avere analiticamente descritto le sanzioni previste per il vasto repertorio di
maltrattamenti, sevizie, strazi, uccisioni a cui gli uomini tanto spesso li
sottopongono, all’art. 3 chiarisce che gli stessi comportamenti non sono
sanzionabili quando hanno luogo in riferimento a caccia, pesca, allevamento,
trasporto, macellazione, sperimentazione scientifica, attività circense, zoo,
manifestazioni storiche e culturali.
La vastità di deroghe al divieto di
tormentare gli animali si risolve di fatto in una loro tutela assolutamente
parziale e non è da sottovalutarne un aspetto conseguente, relativo al fatto che le autorizzazioni ai maltrattamenti
concesse dalla legge determinano inevitabili effetti anche nel costume: perchè
sanciscono quello che, essendo legale, è non solo permesso, ma anche connotato
con parametri di giustizia, secondo una spesso automatica sovrapposizione dei
concetti di giustizia e legalità.
Le ricadute sono enormi perché contemplano,
per opporvisi, lo sviluppo di un
pensiero divergente rispetto a quello imperante: cosa non facile, come dimostra lo stato delle cose. Nello specifico
di quanto previsto dalla legge, i tempi arrancano
e non si rivelano certo maturi per mettere al bando allevamenti, trasporti,
macellazione; ma neppure la pesca,
ancora oggi tanto circonfusa da un alone bucolico da essere anzi considerata
pacifico passatempo per nonni e nipoti,
oltre ad essere in molti contesti definita “sportiva”; si discute all’infinito,
con sacche arroccate sulla difesa dell’indifendibile, sulla fine dell’impiego
di animali nei circhi; la caccia può
contare su lobby tanto potenti da determinare il supporto interessato di vari
partiti in totale spregio di una volontà popolare di segno ben diverso; per tacere della
vivisezione e delle tante ignominie compiute al suo interno. Non un bel quadro
di sicuro: ma, pur nella consapevolezza
di uno stato dell’arte tutt’altro che confortante, non si può non rimanere allibiti di dovere
ancora convivere, all’ombra della legalità, con manifestazioni che, allignate dietro la
connotazione di essere storiche e
culturali, sdoganano maltrattamenti pubblici di animali di ogni tipo e genere,
purchè autorizzate dalla regione competente, che nei fatti risulta quasi sempre
estremamente accogliente dei desiderata di richiedenti, amministrazioni
comunali o associazioni che siano.
E’ necessario premettere che il problema
non è di secondaria importanza, per quanto venga abitualmente
sottostimato: in Italia sono migliaia le manifestazioni “culturali” condotte con
l’uso di animali, che vengono costretti in situazioni etologicamente incompatibili,
che di conseguenza possono persino risultare letali, e che comunque
regolarmente contemplano la loro sofferenza. Una sorta di rimozione collettiva favorisce la nostra
autoassoluzione, ributtando con facilità l’Ombra fuori di noi: siamo in molti a
stigmatizzare le corride o le altre
manifestazioni di rara efferatezza che la Spagna si ostina a sostenere, quali
il Toro della Vega, inseguito per le
strade, terrorizzato e costretto ad indicibile agonia, finito a colpi di lance
da un pubblico sadicamente eccitato: manifestazione protetta in quanto rituale di origini medievali e insignita
dello stato di interesse turistico nazionale; o ancora del Bou Embolat, toro a cui questa volta vengono incendiate le corna:
tutte graziose tradizioni, testimoni della cultura locale. Ma non ci mostriamo
un gran chè indignati contro le italiche tradizioni, o meglio: contro abitudini a cui il termine tradizione
conferisce un’aurea di sacralità, capace di obnubilare la lucidità del
pensiero. Se anche non si arriva agli estremi di crudeltà sopra
descritti, è pur vero che, anche in Italia, nessun animale sembra essere al
riparo dalle nostre violenze “culturali”:
cavalli, asini, tori, mucche, buoi, capre, agnelli, piccioni, oche, rane, nelle
date prestabilite, vengono sottoposti ad abusi fantasiosamente architettati,
geograficamente differenziati: il carattere localistico delle manifestazioni
permette che la risonanza mediatica sia contenuta e vada di conseguenza persa la dimensione
globale del fenomeno complessivo.
Quelle che il legislatore
con tanta sollecitudine ha deciso di tutelare sono in genere manifestazioni che si stanno riproponendo da
lunghissimo tempo, tanto che a volte è per lo meno laborioso risalire alle
origini che spesso finiscono per perdersi, o in ogni caso per non interessare
affatto astanti e organizzatori, con l’esclusione di qualche isolato studioso
che si affanna a giustificare l’ingiustificabile a beneficio di una locandina
dell’Ufficio del Turismo. Il significato
si è perso ed è rimasta semplicemente
l’abitudine alla ripetizione, sdoganata dalla connotazione di “culturale”, che
diventa magico salvacondotto in grado di
bypassare insensatezze e crudeltà. Il termine “cultura” in questi contesti
viene di fatto mistificato, perché il suo vero significato fa sì riferimento a
quel vasto patrimonio di conoscenze, credenze, comportamenti, abitudini,
costumi, convenzioni che vengono coltivati e tramandati da una generazione
all’altra, ma il passaggio è per sua stessa natura dinamico,
in quanto nulla può davvero rimanere immutato nel tempo: la trasmissione intergenerazionale si
attua attraverso gli individui, i quali cambiano in funzione del contesto,
spinti inevitabilmente ad elaborare nuovi comportamenti ogni qualvolta si trovano
in situazioni per le quali i modelli proposti sono ormai privi di senso, non sintonici con un pensiero nel frattempo
trasformato. In questo contesto dinamico ogni elemento si interseca in un
rapporto di dipendenza con gli altri: quando uno muta, è inevitabile che mutino
anche gli altri. E soprattutto non si può dimenticare che il
termine cultura contempla implicitamente
quello di civilizzazione, di affinamento
e ed evoluzione dei costumi, contempla il compito grande, per usare le parole
del filosofo Gino Ditadi, di ingentilire il mondo.
La cultura degli ultimi secoli, e in modo
esponenziale degli ultimi decenni, nel mondo occidentale ha visto cambiare radicalmente
la considerazione degli animali non umani, nostri compagni sulla scala
evolutiva, depositari di diritti da molti riconosciuti diversi ma non inferiori
a quelli umani, tanto che il loro sfruttamento indiscriminato contempla un
feroce atto di accusa da parte di quelle che oggi sono ancora esigue minoranze,
capaci tuttavia di incidere sul pensiero comune.
In questo scenario, non si può che rimanere
esterrefatti davanti al proliferare, che la bella stagione amplifica a
dismisura, di sagre costruite sul tormento degli animali.
Qualche caso esemplificativo: a
Chieuti, paese alle porte di Foggia, ogni anno il 22 o il 23 di aprile dei buoi, legati in
pariglia, vengono attaccati a carri,
pesanti alcuni quintali, e costretti a trascinarli, correndo con il cuore che
impazza per cinque kilometri, pungolati con le aste brandite da uomini a
cavallo, che li terrorizzano, li sfiancano, li feriscono. Grande festa in
paese: la tradizione si ricollega alla leggenda di San Giorgio che, convertita
al cristianesimo una città libica, uccide il drago che la affliggeva e ne fa
trascinare il cadavere fuori dalla città da una coppia di buoi. Pure
fossero appurate la credibilità storica dell’esistenza del suddetto drago, la
compatibilità del concetto di santità con l’uccisione di un essere vivente
qualunque sia, la liceità della conversione di un’intera città ad altra
religione, ove tutto questo fosse appurato, si diceva, nonché ben presente alla
mente dei cittadini di Chieuti, perché mai devono essere martirizzati dei buoi
in onore di tutto ciò? Quale è il nesso logico, quale la giustificazione?
Assordante il silenzio decennale di Nichi Vendola e speriamo quello a termine
di Michele Emiliano, responsabili quali presidenti della regione Puglia
dell’autorizzazione alla corsa, muti davanti alle proteste reiterate di tante
associazioni (Movimento Antispecista, CEDA, LAC, ANPANA…), in una posizione che
risulta tanto più inaccettabile quando coniugata alle istanze di una sinistra
che, nell’immaginario, si continua a vedere come insofferente e ribelle davanti
alle ingiustizie. Per completare il quadro: la Chiesa Cattolica, che si
vorrebbe portatrice di messaggi di pace a 360°, non manca di dare la propria
benedizione al martirio dei buoi.
La latitudine non è la discriminante: i
buoi, animali lenti per natura, sono fatti correre in evidente spregio delle
loro caratteristiche etologiche, anche nel corso di “una bella festa” che si
ripete ogni anno ad Asigliano,
provincia di Vercelli: in questo caso il ricordo da salvaguardare (ma chi è che
davvero “ricorda” o è anche solo interessato a farlo?) sarebbe quello di
un’epidemia di peste del 1436 in cui fu San Vittore a compiere il miracolo
della guarigione collettiva: gli
abitanti si impegnarono allora
a fare correre “in segno di gioia
e di gratitudine” gli animali più lenti, secondo la diffusa pratica di far
pagare ad altri i propri debiti: in sintonia con la tradizione dell’agnello da
sacrificare per pagare i peccati del mondo.
Gli storici per altro contestano la ricostruzione, ma tant’è: foto e
video delle passate edizioni mostrano animali terrorizzati, inseguiti e
bastonati con grande convinzione dai giovani locali in preda a delirio machista mentre anche i bambini ai lati della
pista urlano e si divertono, imparando una lezione di prepotenza e
prevaricazione distante anni luce da un
approccio all’educazione e al rispetto di chi è diverso ed è debole, tanto auspicabile
in ogni tempo e quanto mai necessario in quello attuale.
A
Sacile, invece, provincia
di Pordenone, la sagra è quella degli
Osei: ogni anno, in una reiterata riproposizione di quanto iniziato a
partire dal 1274, vengono messi in
mostra migliaia di “uccelli da richiamo”, espressione che parla di animali
rinchiusi in gabbie anguste, l’una sopra l’altra e l’una di fianco all’altra.
Esseri di pochi grammi di peso, i quali servono, a propria insaputa e loro
malgrado, a richiamarne altri, ammaliandoli con le lusinghe del proprio canto
per portarli sulla traiettoria dei pallettoni dei cacciatori, i quali, armati
di tutto punto per una guerra unilateralmente dichiarata, restano
incredibilmente immuni da ogni sentimento di vergogna nell’esibirsi in un
confronto immensamente impari (si veda
“Volare” a cura di AFG; NOsagra OSEI 2016) : del tutto fuori luogo l’orgoglio esibito dalla comunità di
Sacile che definisce “festa della natura” una tradizione che è solo
repressione: della libertà, del diritto di volare, della dignità e, ancora una
volta, del rispetto.
E poi c’è la corsa del Gallo alla Saga del
Crostone, a Strozzacapponi (in nomen
omen…), provincia di Perugia: qui nell’ameno borgo umbro, l’evento più atteso è
la corsa di 400 metri con un gallo, sollevato dagli uomini mentre corrono, in
portantina, a mò di statua: lui cade, scappa, viene recuperato: ci si diverte
davvero tanto a vederlo mentre cerca di sottrarsi ad un gioco che di certo deve
sembrargli, oltre che tanto pericoloso per lui, francamente privo di senso. Non
bastasse, l’assistenza al pollastro (come leggiadramente lo chiamano alcuni
cronisti) termina poi con un grande banchetto: perché la Sagra è
quella del Crostone, vale a dire
pietanza con ben venticinque ingredienti a base di interiora di pollo.
Situazione, quest’ultima, che porta nel cuore
di un’altra costante delle sagre che spesso si trasformano semplicemente in
occasione per abbuffate smisurate: la vittima privilegiata è lo stesso animale
di cui si celebra la “festa”, pubblicizzata senza pudore in manifesti che invitano alla sagra del maiale,
del cavallo, dell’asino, dell’oca, e di tanti altri ancora. Un insulto
per il termine stesso di sagra, in
cui si riconosce l’etimologia di sacer,
che ricorda l’origine tradizionale di festa religiosa, di una consacrazione o
della commemorazione del santo patrono. Davvero nulla più di sacro si
intravede, di spirituale e tanto meno di etico: ancora una volta sarebbe
doveroso che il linguaggio non falsificasse, non obnubilasse, giustificandola,
una realtà che è di fatto un delirio di ingordigia, nemmeno giustificato quale
compensazione a prolungati digiuni, ma da
umani generalmente più che satolli,
che celebrano piuttosto il
trionfo dell’ingordigia, dell’indolente riempirsi lo stomaco al di là di ogni
necessità e buon gusto, nella serena rimozione di chi, non di cosa, stanno
mangiando.
Impossibile citarle tutte le sagre, i palii
dei cavalli, degli asini, quelle delle oche, delle rane e di tutti gli altri, messi lì a celebrare,
in tempi di globalizzazione, anacronistiche
rivalità tra borghi e a vivacizzare momenti di normalmente scolorita devozione
religiosa. Tutte, nella loro diversità, si risolvono nella esibizione di forza a danno di
qualcuno, un animale, che è più debole, costretto con la violenza a
comportamenti innaturali, sforzi estremi,
competizioni rovinose, in totale assenza di una qualsiasi utilità reale:
solo esibizioni pubbliche tese ad eccitare il pubblico presente, spronato ad
entusiasmarsi davanti al disagio, alla
difficoltà, alla sofferenza degli animali coinvolti, in un clima di per quanto
breve euforia collettiva. Nel disinteresse per le conseguenze in termini di
desensibilizzazione di quella parte di pubblico ancora plasmabile, quello dei
bambini, perseguita grazie all’attribuzione di
connotazioni positive ad atti irrispettosi o crudeli.
Poche ad oggi sono le città che, in Italia,
hanno accettato di rinunciare alle manifestazioni culturali con animali: nel
2015 nessun pitu, termine locale ad
indicare un tacchino, è stato decapitato a
Tonco (Asti), dove per la prima volta è stato sostituito con un fantoccio.
Tante restano le retroguardie arroccate
sulla difesa della tradizione, a scapito di una seria riflessione
sull’importanza e la necessità del
rispetto per ogni creatura vivente. Ma per quanto poche sono lì a dimostrare
che il cambiamento è possibile oltre che doveroso: e non sarà un malinteso
senso della cultura e della tradizione ad arrestarlo. Legislatori illuminati non dovrebbero essere spettatori, ma
promotori di cambiamento, alla luce delle convinzioni personali che
necessariamente devono nutrirsi della ricchezza delle riflessioni, delle
osservazioni, delle conoscenze che danno atto della complessità e della
articolazione della realtà, innumerevoli volte modificatasi da quando certe
manifestazioni hanno visto la luce. E quand’anche invece, come nel caso delle
manifestazioni più note e popolari, è possibile ricostruirne il percorso
attraverso i decenni o i secoli, la mente umana possiede comunque la capacità
di simbolizzazione e i simboli sono in grado di risvegliare la coscienza viva e
il ricordo esplicito: di essi ci si può e deve di conseguenza servire,
qualunque sia il ricordo o la memoria che si vuole risvegliare.
La vita non è un gioco a somma zero, diceva
Paul Watzlawick: la perdita di un
giocatore non significa la vincita dell’altro, perché si vince solo insieme,
sommando il bene dell’uno a quello dell’altro; quello da perseguire è quindi
un’ideale di armonia con il benessere biologico, psicologico, sociale di tutte
le forme viventi. Le manifestazioni culturali, che si offrono come momento di
riproposizione di un passato da cui si vuole trarre vigore e incitamento, non possono essere il luogo dove tutto ciò
viene negato e calpestato.
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