venerdì 13 dicembre 2013

QUANDO TE NE ANDRAI DA QUI


                                                                    
 “Hai solo cinque anni”- dice  Franco Marcoaldi al suo cane- “ma penso di continuo alla tua morte.”  E lui ribatte ”Con tutto quello che possiamo fare: rincorrerci, annusarci, baciarci con la lingua, giocare con i gatti,  cacciare le lucertole, mangiare. Dai retta a me, padrone mio, pensa di meno a te e asseconda il vento.  Svuotato l’io, sarai pieno di vita: importa poco se per un anno, dieci o cento”(Animali in versi). Già: la fa facile il cane: ma come lo svuotiamo l’IO da tutti i suoi fantasmi, come facciamo a vivere un presente incontaminato? No, noi anche quando giochiamo e ridiamo, il vento non lo assecondiamo proprio:  ci lottiamo contro, proviamo a contrastare il tempo  che lui ci porta, restando in compagnia di quella angoscia che è paura senza oggetto, paura dell’ineluttabile, di dover sapere che tutto questo finirà: perché, dopo,  la morte arriva di sicuro.

Il tema della propria morte e di quella delle persone che si amano disorienta da sempre l’umanità: è un nemico, un’intrusione che induce all’elaborazione di filosofie e religioni in grado di dare un senso alla limitatezza del tempo, così poco consona all’infinitezza dei nostri pensieri, dei nostri progetti, del nostro IO smisurato,  e anzi di fare per noi qualche cosa di più, quando ci assicurano  che possiamo stare tranquilli, non è così, si fa per finta e dopo, in un modo o nell’altro, con o senza corpo, nel nostro o in quello altrui,  si risorge e si  ricomincia a vivere.

giovedì 5 dicembre 2013

RISPOSTE ARTICOLATE A TRE DOMANDE SEMPLICI: perché amiamo i cani, mangiamo i maiali, indossiamo le mucche.



di Annamaria Manzoni
“Non ci sono domande più pressanti delle domande ingenue” dice Wistawa Szymborska. E “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali, indossiamo le mucche”, le tre domande che Melanie Joy si pone (e pone a titolo del suo libro-Sonda 2012), sono essenziali nella loro capacità di andare dritte al cuore del problema. 


Sui motivi per cui amiamo i cani non ci sono problemi: siamo in grado di rispondere in modo eccitato, perché vengono toccate nostre corde scoperte e diventiamo subito incontenibili nel fornire motivazioni che attengono alle doti di fedeltà, intelligenza, amorevolezza che i nostri animali preferiti, ne siamo certi,  posseggono, e su cui non abbiamo neppure un dubbio che qualche ruolo lo giochi la proiezione. Che se  anche fosse, del resto, che importa? Va bene  così.

 Sono gli altri due interrogativi a provocare in genere più  di un momento di latenza, necessario a riordinare le idee per andare a cercare argomentazioni, davvero faticose, a sostegno di ciò che appare talmente ovvio da farci giudicare le domande irragionevoli, provocatorie nella misura in cui sollecitano spiegazioni su ciò che non ne contempla. Proprio qui risiede il fulcro delle articolate argomentazioni di Melanie Joy: nel non potere, le risposte a queste domande,  essere trovate  se non all’interno di  una spiegazione tautologica  riferita al fatto che la ragione ultima e vera del nostro nutrirci e servirci degli animali si trova  semplicemente nella considerazione che non esiste nessuna ragione se non quella, disarmante,  che semplicemente  le cose stanno così. Nel fatto, cioè,  che siamo talmente immersi in una cultura che, in fatto di rapporto con gli animali, stabilisce regole di riferimento basate sul loro regolare, continuo, scontato sfruttamento, che , pure educati come siamo a mettere in discussione in modo disincantato ogni comportamento, tanto da sottoporre a una ruminazione dubbiosa persino le ragioni della scelta del dentifricio al supermercato, non ci poniamo domande davanti al piatto di carne che consumiamo, e ci asteniamo da riflessioni sulla sua origine ed essenza, che pure vanno a confliggere con  realtà immense per grandezza, importanza, implicita violenza e sofferenza.