La
storia di Angelo ha riempito le cronache recenti, sollevando enorme
indignazione, ma sfortunatamente è solo la punta dell’iceberg di una situazione
molto diffusa: Angelo è assurto alla ribalta di una cronaca nero pece soprattutto
perché della sua tortura si sono vantati i responsabili, che l’hanno filmata
e messa in rete, in quel moderno
ricettacolo cioè, che è una sorta di cloaca massima in cui tutto confluisce,
senza filtri, alla ricerca di una visibilità che amplifichi le proprie “gesta”,
e lusinghi di una popolarità perseguita con ogni mezzo. Nel caso diffuso in cui
non si abbia altro di cui vantarsi, ci si vanta della propria pochezza,
scambiandola per audacia: purchè gli altri guardandoci ci illudano che meritiamo attenzione:
e si arriva a mettere in scena un film
dell’orrore, ridendo e sghignazzando.
I
quattro di Sangineto l’obiettivo della
popolarità l’hanno certamente ottenuto, popolarità di dimensioni che non
avrebbero certo potuto immaginare, ma, purtroppo per loro, di segno
contrario a quello previsto. Trasmissioni televisive, manifestazioni,
interviste hanno fatto da megafono ad una vasta condanna, e hanno esposto i responsabili
ad una meritatissima gogna. Purtroppo le reazioni non sono andate oltre, in
quell’oltre in cui si aprono situazioni che non possono essere ignorate, se
davvero l’obiettivo, al di là della doverosa condanna dell’episodio, è quello di una necessaria prevenzione
affinchè nulla del genere debba ripetersi.
Le
notizie di regolari efferatezze su cani indifesi (come per altro su
ogni altra specie animale, a partire dai gatti) si inseguono in resoconti
agghiaccianti: volontari, associazioni animaliste, semplici cittadini
raccontano con drammatica frequenza di animali sepolti vivi, incendiati, impiccati;
foto raccapriccianti che testimoniano creative crudeltà sono reperibili a non
finire su facebook. Solo in riferimento alla cronaca recente, poche settimane fa
su BlogSicilia sono state postate le foto di un grosso cane seviziato e poi
bruciato; mentre a Pantano Borghese (Roma) nello scorso settembre veniva
ritrovato il cadavere di un cane bruciato, con gli arti posteriori parzialmente
amputati. L’irritazione dei quattro giovani
davanti alla pessima pubblicità che li ha colti impreparati e lo speculare fastidio dei loro compaesani (ben documentati nella trasmissione delle
Iene, andata in onda il 23 ottobre scorso) discendono certo da insensibilità,
ma anche da ruspante incapacità di capire: cosa c’è da scandalizzarsi tanto?
-si chiedono un po’ tutti- Dove è il problema se questo è quello che succede tutti i
giorni? “Per un c…o di cane!” è il raffinato commento di uno degli
intervistati. “Hanno fatto una cosa giusto per ridere!” argomenta un altro
profondo conoscitore delle umane dinamiche comportamentali. “Sono bravi
ragazzi: è una bravata!” incita a sdrammatizzare un altro. Anche il prete
svicola veloce sulla sua auto, evitando di farsi coinvolgere nelle umane
vicende di violenza, perché la vittima, in quanto d’altra specie, esula forse dalle
competenze di quel Dio, di cui lui si occupa, per entrare nel raggio d’azione,
se mai, di un dio minore.
Bene
sarebbe invece che l’orrenda vicenda di Angelo fosse l’occasione per una seria indagine sui diffusi crimini contro
gli animali d’affezione che sporcano tante strade italiane, sparse da nord a sud, ma senza ombra di dubbio
molto di più in alcune regioni meridionali, segnate da una significativa
discrepanza rispetto a quelle settentrionali: una ragione, o più d’una, ci sono
di sicuro, e le risposte ipotizzabili sono certo interessanti. E’
fondamentale, per esempio, riflettere che si tratta delle regioni in cui il randagismo non solo non è
sconfitto, ma in alcuni casi neppure affrontato, da una politica che porta il
peso di responsabilità enormi al riguardo con la sua colpevolissima e non
casuale passività: le indagini del Ministero della Salute sono davvero antiche,
segno evidente di sottostima del problema, visto che i dati ufficiali non sono
più stati aggiornati negli ultimi dieci anni e si riferiscono quindi alla
situazione del 2006 (Dossier randagismo, LAV 2016); nel dossier non sono
contenute informazioni (numero dei canili sanitari, sterilizzazioni, cani nei
canili, adozioni….) relative alla Calabria, che non ha evidentemente reputato
la richiesta del governo degna di risposta: sono informazioni del tutto ufficiose a
parlare di una significativa diminuzione a seguito del diffondersi del cimurro,
che si sarebbe sostituito ad altri più civili interventi nel compito di
contenere il problema.
Non
si può sottovalutare la portata incivile del randagismo, per le sue proporzioni
(il numero complessivo in Italia si aggirerebbe sulle 6/700.000 unità, a fronte
di alcune regioni dove risulta praticamente debellato) ma anche per i suoi
correlati. Si tratta di un fenomeno dalle ricadute enormi, che va
regolarmente di pari passo con le mancate sterilizzazioni: tende quindi ad amplificarsi in modo esponenziale, dal
momento che le cucciolate, mediamente di 5/6 piccoli, si riprodurranno a propria volta. Le femmine,
partoriti i piccoli, avranno impellente bisogno
di cibo per se stesse per poterli allattare; non essendoci nessuno ad aiutarle, vagheranno
ogni giorno per cercarlo, osando anche inoltrarsi per disperazione dove di
solito sanno di non poterlo fare, in risposta ad un insopprimibile istinto materno e di
sopravvivenza.
Inoltre
spesso i cani randagi tendono ad abitare
territori prossimi alle aree urbane, perché è lì che possono trovare cibo, e a riunirsi in branchi, che rispondono al
naturale bisogno di aggregazione: inevitabilmente possono creare problemi
sanitari e di sicurezza, che si trasformano in breve tempo in giustificazione per
la popolazione locale a intervenire con metodi violenti: si specula facilmente
sulla paura e la loro soppressione viene vissuta come meritoria, in quanto
difensiva del sempre prioritario benessere umano. I metodi usati per liberarsi
di loro si mischiano e si confondono con l’espressione di una violenza bruta,
che va a punire il potenziale colpevole di qualche danno: si parla di sicurezza
(e ben sappiamo quante malvagità, anche in contesti d'altra specie, vengano perpetrate
in suo nome) e si procede ad eliminazioni di massa.
Inoltre
ci saranno cani, vittime di incidenti stradali, che resteranno
feriti ai bordi delle strade, sempre che qualcuno abbia il buon gusto di
spostarli dal centro della carreggiata, e finiranno per rimanere lì a morire
lentamente, nell'indifferenza generale. Tutti o quasi vagano, spesso con evidenti infezioni, sempre smagriti, raggelati
o riarsi a seconda della stagione: quando la fame è tale da indurli ad
avvicinarsi a qualche umano, nonostante una annichilente diffidenza, della
scelta dovranno spesso pentirsi: perché nessuna situazione naturale raggiunge
mai l’efferatezza che l’uomo sa imprimere al proprio operato.
In
interi paesi e vaste zone, comunità assuefatte a tutto questo sanno da tempo immemorabile che quelli sono esseri di serie zeta, senza diritti; incarnano
l’immagine del nemico, quello che viene da fuori e che deve essere scacciato, perché
certamente pericoloso; su cui infierire,
perché diventa inevitabilmente capro espiatorio di frustrazioni variegate; su cui
non mobilitare forme di empatia. Si comincia con lo scacciarli a sassate e si
finisce per esercitare contro di loro ogni perverso impulso sadico: il link è
evidente. In questa ottica si inserisce la posizione degli abitanti di
Sangineto, arroccati sulla difesa dei quattro ventenni, tanto aggressiva quanto
inargomentata: vi si legge il desiderio difensivo di allontanare i riflettori.
Ma la mancata reazione di sdegno, inutilmente sollecitata dagli intervistatori,
parla anche di una reale incapacità a
indignarsi davanti a scene di violenza, anche inaudita, sugli animali: scene
che non indignano per il motivo semplicissimo che non se ne coglie
l’inaccettabilità, dal momento che sono diffuse.
Il confine tra scacciare impietosamente a sassate, magari azzoppandolo, un
animale affamato, si sposta progressivamente e prenderlo a badilate non è
un’evenienza lontana: i comportamenti si
situano su un continuum che è fonte di una crescente desensibilizzazione,
favorita dal fatto che di tutto questo si è stati testimoni da sempre, da
bambini: lo si è imparato e introiettato come comportamento normale, anzi
doveroso, giusto, civile.
E’
lecito supporre che i quattro ventenni azioni analoghe le avessero
già compiute, magari in una diversa composizione del gruppo, o avessero
assistito a quelle messe in atto da altri, bravi maestri di una crudeltà,
regolarmente seguita da una rassicurante impunità. L’arroccamento difensivo della comunità
intorno a loro è lì a sostenere l’ipotesi. Limitarsi a considerarli una
minibanda di psicopatici, mostri ai confini della realtà da mettere alla gogna,
è soluzione a portata di mano, ma ben poco esplicativa della realtà; di certo
essi si sono dimostrati allievi zelanti alla scuola di una violenza diffusa e
quanto hanno fatto ad Angelo testimonia
della loro incapacità di empatia, del sadismo che li ha indotti a provare
piacere davanti alla sofferenza di una vittima indifesa, del machismo e del
malinteso concetto di virilità che li anima, nella convinzione perversa che forza
e violenza sino concetti sovrapponibili (e
il pensiero non può non correre alle dinamiche alla base dei tanti femminicidi),
anziché antitetici.
Un
evidentissimo innegabile link arricchisce il quadro argomentativo, se ci
sforziamo, bypassando la nostra diffusa schizofrenia morale, di pensare secondo
coerenti categorie di giudizio. Riguarda la caccia, ancora oggi considerata attività
sportiva, e i suoi cultori, i cacciatori: anche loro sono persone che provano
un’eccitazione sfrenata, come raccontano regolarmente in rete, nell’andare a inseguire
e stanare animali a volte mitissimi, sempre indifesi, tesi solo a cercare una via di fuga;
mettono in campo una forza assolutamente sproporzionata grazie all’uso di armi devastanti; progettano come braccarli;
procedono a ferirli e, nella migliore delle ipotesi, ad ucciderli presto, ma spesso li lasciano ad
agonizzare nelle trappole o sul terreno, senza neppure prendersi la briga di andare a raccoglierli. Uccidono tanto,
sembra non bastargli mai ed occorrono norme di legge a limitare un istinto che,
fosse per loro, si placherebbe solo con carneficine totali. Usano richiami vivi; mandano i loro cani nelle tane a stanare volpi
che cercano di difendere se stesse e i loro cuccioli, che vengono invece
sbranati e lacerati; costringono animali a fughe disperate che fanno scoppiare
loro il cuore. Si divertono un mondo nel farlo, non si fermano davanti alla
mitezza delle loro vittime, non si impietosiscono davanti ai loro perdenti
tentativi di non farsi strappare la vita; si vantano molto e, come i quattro di
Sangineto, mettono foto e filmati a ricordo e imperitura testimonianza delle
loro gesta, foto e filmati in cui si mostrano orgogliosi di sé, soddisfatti e
sorridenti davanti al cadavere di una vittima importante o alla strage di tante
vittime più umili. Non riescono nemmeno a cogliere la vigliaccheria e il
sadismo insiti nei loro comportamenti, anzi: orgogliosi nella propria protervia, si meravigliano delle proteste altrui:
esattamente come i quattro di Sangineto. Allora, nel momento stesso in cui
inorridiamo davanti a loro e chiediamo giustizia per la loro vittima, non possiamo
che prendere atto che stiamo confrontandoci con quella che è la punta
dell’iceberg: sotto la superficie c’è un inestricabile intreccio di altre
analoghe nefandezze, inscindibili l’una dall’altra: perchè tutte le forme di
violenza sono interrelate e non è possibile decifrare nessun fenomeno isolandolo da tutti gli altri.
Per
concludere, ricordiamo Angelo, la sua muta sofferenza che è un atto di accusa
verso tutto quello che l’uomo è in grado di infliggere a chi è debole;
ricordiamolo come un piccolo scodinzolante cane bianco, a propria insaputa
metafora di ogni essere senza diritti, di ogni migrante senza patria, di ogni
uomo senza identità.
Articolo pubblicato su www.l'indro.com
Il discrimine irrazionale che l'Essere Umano attua nei confronti delle varie specie animali si fonda su rapporti meramente egoistici laddove una determinata specie ha soddisfatto un qualche bisogno umano, compreso quello di sentirsi dominatore e spietato carnefice.
RispondiEliminaSpero che il tuo articolo, con una splendida disamina di quello che è il controverso rapporto tra Umani ed Animali possa arrivare a quante più persone possibili, e se non ne smuove le coscienze questo, non so cosa mai potrà farlo; tremo e dispero al solo pensiero.
grazie del tuo prezioso contributo.
Grazie Roberto. Abbiamo un enorme bisogno di sostegno e reciproca condivisione di un diverso pensiero.
RispondiEliminaAmiamo i cani, a cui mettiamo il guinzaglio, perseguitiamo i lupi che non se lo lasciano mettere: e per questo ci sentiamo persone perbene, dotate di buon senso.
E poi ci sono quelli che disprezzano anche chi il guinzaglio se lo lascia mettere: debole, e quindi vittima perfetta.
si: c'è di che disperarsi.
Grazie del contatto.