RICERCA sull’importanza e
il significato della presenza di ANIMALI
in ISTITUTI CARCERARI della PROVINCIA di
MILANO
in
collaborazione con l’Ufficio Diritti Animali della Provincia di Milano
Direttore
scientifico dr. Annamaria Manzoni
La circolare 13716374-1 del 13 dicembre
1996, Ministero Grazia e Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione
Penitenziaria, indirizzata ai Direttori degli Istituti di prevenzione e di
pena, così recita:
“E’
stata da più parti segnalata l’opportunità di consentire ai detenuti e agli
internati – nell’ambito del generale principio di umanizzazione della pena,
per effetti benefici che può produrre sotto il profilo psicologico e
trattamentale in genere e in considerazione dell’accresciuta sensibilità verso
il mondo degli animali – di tenere con sé piccoli animali di compagnia.
Nel silenzio dell’Ordinamento Penitenziario appare opportuno lasciare alla
discrezionalità delle SS.LL. di concedere ai ristretti l’opportunità in parola,
valutando se le condizioni ambientali complessive dell’istituto consentano di
accogliere quanto richiesto e se nel caso particolare si reputi opportuna e
possibile la concessione.
A
tal fine potrebbero costituire parametri di valutazione la condizione di
condannato, la lunga pena da espiare, l’ubicazione in cella singola, la
presenza delle necessarie condizioni igieniche, la limitazione ad animali
tradizionalmente tenuti in cattività (piccoli uccelli tenuti in gabbia, piccoli
pesci tenuti in contenitori di vetro), l’assenza di situazioni che
pregiudichino le esigenze di sicurezza e le operazioni di perquisizione delle
camere, la non prevedibilità di trasferimenti del detenuto e di uscite per
motivi sanitari e di giustizia.
Si
confida nella sensibilità e allo stesso tempo nella prudenza delle SS.LL..
f.to
Il direttore generale
La circolare fa riferimento ad alcuni
principi che è necessario evidenziare:
- In primo luogo si parte dal
presupposto che la compagnia di
piccoli animali non può che produrre effetti benefici dal punto di vista
psicologico. Questa è
ormai un convinzione assodata e diffusa, condivisa a tal punto che il
numero degli animali da compagnia, nelle società occidentali, ha subito
negli ultimi anni un’impennata tale da parificarlo quasi al numero delle
persone. Quello che è il sentire comune, vale a dire che convivere con il
proprio animale è fonte di piacere e origine di una serie di miglioramenti
esistenziali, che invadono la sfera fisica e psichica, è supportato dalle
affermazioni conseguenti ai tanti
studi, che si sono susseguiti a partire dal congresso di Toronto del 1954
sulla virtù terapeutiche degli animali domestici, e poi comprovato dalla
diffusione della pet therapy, vale a dire quella terapia, nata negli Stati
Uniti nel 1961 ad opera dello psichiatra Boris Levinson: questi ha preso
avvio dall’osservazione dell’esistente, cogliendo appieno il grande
potenziale terapeutico insito nel rapporto biunivoco uomo-animale e lo ha
codificato e strutturato mettendo a punto
particolari interventi terapeutici a livello psico-fisico.
L’assunto di base è che gli animali domestici, per mezzo della loro presenza e della
loro capacità di comunicare, possono mitigare e alleviare condizioni di malessere
e disagio: certamente non sono guaritori di patologie, ma intervengono sul
malato, curando non la sua
malattia, ma lui, in modo
olistico. Gli studi su cui la pet therapy si basa sono trasferibili anche a condizioni che non sono di terapia
vera e propria, ma che hanno comunque una valenza importantissima: in
altri termini incredibili vantaggi
sono connessi all’avere un pet, alla cui
presenza possono essere
riferiti miglioramenti relativi alla sfera fisica, relazionale, cognitiva,
motoria, grazie ad una nutrita
serie di dinamiche che la sua
presenza mette in gioco.
- Se è vero
che la grande maggioranza delle persone risente positivamente del rapporto
con il suo animale, che fa da complemento all’articolazione delle relazioni familiari e sociali, tanto più importante tale presenza
risulterà per le persone detenute, che si trovano in una situazione di
durezza esistenziale, di solitudine rispetto alle relazioni affettive
significative. Il carcere, nella sua accezione moderna, e in Italia
soprattutto a partire dalla legge di Riforma Penitenziaria 354/1975, ha
tra i suoi obiettivi riconosciuti, anche se poi nei fatti ben
difficilmente perseguibili, non solo la punizione, ma la rieducazione, il
recupero, la promozione del reinserimento sociale: in questa ottica, la
presenza di animali può divenire strumento e mezzo trattamentale, in grado
di umanizzare la pena attraverso la
possibilità di relazioni gratificanti e affettivamente consistenti, e di
fare emergere nei detenuti risorse
e sentimenti, spesso disconosciuti dagli altri, ma persino da sé
stessi. In altri termini di provocare quei mutamenti positivi dal punto di
vista intrapsichico, comportamentale e di crescita umana che sono, o
dovrebbero essere, uno degli
obiettivi primari del “trattamento” carcerario.
- Fatte
salve le imprescindibili esigenze igienico-sanitarie e di sicurezza, la scelta degli animali viene indicata
come tendenzialmente limitata alle specie “tradizionalmente” tenute in
cattività: si parla esplicitamente di piccoli pesci e uccellini che,
nelle nostre abitudini e nella nostra cultura, sono visti come compatibili
con gli spazi stretti e delimitati di gabbie e contenitori, evitando la
segregazione di quelle specie, il cui benessere non sarebbe salvaguardato
in tale situazione. Questo è un punto fondamentale, in quanto fa riferimento
alla necessità di assumere un atteggiamento di imprescindibile attenzione
ai diritti degli animali, e ciò alla luce della rilevanza morale, che essi
hanno ormai assunto. Illuminante rispetto a questa aspetto è documento del
Comitato Nazionale per la Bioetica,
approvato il 21 ottobre
2005, attinente ai problemi
bioetici relativi dell’impiego di animali in attività correlate alla salute e al benessere umani. In tale documento
si sottolinea come sia imprescindibile che la salute e il benessere degli
uomini possano essere perseguiti solo e soltanto con l’attenzione rivolta
contestualmente alla tutela del benessere degli animali impiegati e al
miglioramento della qualità della loro vita: perché “è da un’autentica “alleanza
terapeutica”, e cioè da una relazione intersoggettiva, seppure nella
asimmetricità inevitabile del rapporto, che l’uomo può ricavare il maggior
vantaggio terapeutico ed esistenziale.” Il vantaggio derivante da questa
interrelazione deve essere reciproco, perché “ogni modello etico deve
riuscire almeno a includere l’altro nel proprio orizzonte esistenziale”.
- L’attuazione
del progetto fa appello alla sensibilità
di Direttori e Provveditori: in
assenza di una precisa normativa, si aprono le porte ad innovazioni che
non possono che contare sullo spirito di iniziativa, l’adesione, la
convinzione personale.
PRECEDENTI
Se a più di qualcuno l’idea di detenuti che
siano affidatari di animali può sembrare particolarmente straordinaria, uno
sguardo al passato, o ad un presente diverso dal nostro, permette di inquadrarla in un contesto di sperimentazione naturale già ampiamente
avvenuta.
Carcere
di Alcatraz, California, 1942/1963
E’ un film (L’uomo di Alcatraz, di John Frankenheimer, U.S.A. 1962) ad avere dato cassa di risonanza alla
strabiliante storia di Robert Stroud,
condannato una prima volta nel 1909 a 12 anni di prigione e, in seguito
all’uccisione di una guardia, alla pena di morte poi commutata in ergastolo, da
scontare nel carcere di Alcatraz in regime di isolamento. Un giorno, durante
l’ora d’aria in cortile, Stroud raccolse un passerotto agonizzante: lo tenne
con sé e cominciò a curarlo, dapprima nel silenzio-assenso dell’istituzione e
poi con un permesso ufficiale; in seguito,
ottenuta l’autorizzazione ad averne anche altri, che man mano si
riprodussero, si mise ad allevarne un numero tanto grande da riempire la sua
cella con le gabbie che lui stesso costruiva. Nella testarda volontà di curarli
quando malati, si diede, lui, che aveva frequentato solo pochissimi anni di
scuola, a leggere trattati e poi, trovandoli inadeguati e insufficienti, a
scriverne lui stesso sulla scorta delle
appassionate osservazioni su tutto ciò che ai suoi canarini succedeva. Il
risultato furono pubblicazioni di straordinario interesse internazionale, Stroud’s digest of bird disease e Diseases of canaries. Parallelamente
all’espressione di impensate risorse mentali, in Stroud si verificarono
tangibili cambiamenti nella sfera comportamentale: lui che era stato definito
uomo dalla personalità psicopatica, in grado di commettere violenze senza
sentirne il rimorso, rude, attaccabrighe, lui che aveva condotto fuori dal
carcere una vita sregolata e pericolosamente disordinata, andò trasformandosi in un uomo impegnato,
autocontrollato, deciso e determinato.
Tutto ciò, nella rigidità ottusa del
regolamento carcerario americano, non gli valse neppure un giorno di libertà:
ma lo rende oggi un impareggiabile testimone di tutto quello che un essere
fragilissimo, nell’assoluta innocenza e vulnerabilità di cui è portatore, può
smuovere andando a solleticare le corde di una sensibilità assopita nella
durezza esistenziale quotidiana.
Carceri
turche, anni ’70.
Certo le carceri della Turchia non sono
luoghi da cui molte informazioni possano uscire. E’ ancora, quindi, un film di
culto (Fuga di mezzanotte, di Alan
Parker, U.S.A.- Gr. Br. 1978), anch’esso basato su una storia vera, che ci
permette di dare uno sguardo al loro interno, all’inferno di sopraffazione,
angherie, soprusi e crudeltà che vi regna. Nella devastazione fisica e
psicologica, che appare come la norma, un giovane occidentale si distingue non
solo per il suo aspetto, ma perché la sua presenza è costantemente accompagnata
da quella di un gatto: lo tiene in braccio, sulle spalle, lo coccola, gli
parla, in una relazione drasticamente differente da quella che lo unisce o
meglio lo divide da tutti gli altri esseri viventi che condividono il suo
spazio. Il gatto è l’oggetto delle sue cure, il destinatario delle sue preoccupazioni;
il rapporto con lui è fatto di tenerezza, di calore, di accudimento; nella
totale assenza di positivi contatti, la
relazione con l’animale rende il giovane diverso e gli conferisce una posizione
privilegiata di cui gli altri si rendono vagamente conto. Al di là dell’esito
purtroppo intuibile, per cui il gatto viene impiccato per una sorta di vendetta
trasversale, fortemente significativa è la situazione: un animale, finito lì
dentro non certo per un intento rieducativo, ma per un caso che è poco importante
conoscere, sostiene con la sua presenza la fragilità psicologica del suo
affidatario, è un evidente antidoto alla sua solitudine, ne catalizza
l’attenzione, collaborando a preservarne la salute mentale, pesantemente
minacciata dal contesto, e destinata a crollare dopo che l’ultimo appiglio con
il mondo degli affetti che lui rappresenta viene drammaticamente reciso.
Carcere
minorile di San Pietroburgo, 2005
Il documentario, prezioso quanto raro,
girato dal giornalista Giorgio Fornoni per la trasmissione televisiva Report,
permette di entrare all’interno di quella sorta di girone infernale, fatto di
sporcizia, freddo, degrado, che sono le carceri, e non importa se destinate ai
minorenni, nella ex Unione Sovietica: la
totale mancanza di cure e attenzioni per i giovani e giovanissimi reclusi,
coniugata alla miseria e alla mancanza di risorse, le rende focolai di malattie, destinate a diffondersi poi su tutto il territorio.
Anche in questo caso le immagini di
abbandono, rovina, disperazione vengono a tratti addolcite dall’ inaspettato
apparire di ragazzini che sorridono
accogliendo nelle loro braccia dei gatti. E’ lo stesso atteggiamento di questi
animali, abbandonati e rilassati nel contatto con il loro giovane amico, a
testimoniare di quanto tale relazione sia sperimentata e rassicurante. Le
notizie e gli approfondimenti a disposizione non sono tali da consentire una
ricostruzione puntuale: Fornoni racconta
che i gatti in Russia sono
dovunque, appartengono all’habitat, al nucleo familiare in quanto
rivestono il ruolo di cacciatori dei topi, che risalgono dalle fogne
direttamente in quei grandi casermoni
che sono le case popolari. Di conseguenza è facile ipotizzare che la loro presenza in carcere sia tollerata in quanto rispondente alle identiche necessità: di certo nessuno si
è mai preoccupato di valutare il
significato che possono avere in termini di ricadute psicologiche. Il
giornalista conferma che la grande affettuosità per questi animali, che il filmato
permette di ipotizzare, è un evidente dato di fatto. Se è lecito sui pochi
elementi a disposizione fare considerazioni, si può correttamente pensare che,
ancora una volta in modo spontaneo e non strutturato, la presenza di animali di
cui occuparsi, da proteggere, da abbracciare è ricercata come naturale antidoto
alla situazione disperante del contesto.
GLI
ISTITUTI CARCERARI DELLA PROVINCIA DI MILANO
Le specifiche richieste rivolte ai
direttori dei singoli istituti hanno permesso di verificare che Bollate, Opera, Monza non ospitano
alcun animale. Le motivazioni addotte sono riferite agli spazi troppo ridotti,
al fatto che nessuno ne avrebbe fatta richiesta, o semplicemente ad uno stato
di fatto che non li prevede.
Il carcere minorile Beccaria, che negli anni scorsi aveva pubblicizzato sui media il
Progetto Argo, che prevedeva la possibilità di far entrare cani, risulta non
avervi mai dato corso.
Diversa la situazione di SAN VITTORE, che, stando alla memoria
storica di molti detenuti, per molti
anni ha visto la presenza al proprio
interno di molti animali (conigli, criceti, gatti, cavie), che però, una volta
usciti con il detenuto di riferimento, non sono stati rimpiazzati: oggi sono in
numero modesto: alcuni canarini, un criceto, pesci in due acquari, otto gatti, un furetto.
DETENUTI
AFFIDATARI DI ANIMALI a
SAN VITTORE
Pietro,
54 anni, sta scontando una condanna a quindici anni
per traffico di droga; non è alla sua prima detenzione e preferisce non parlare
delle precedenti.
Si definisce amante degli animali e ricorda
sorridendo che, da libero, possedeva cani, merli indiani, una voliera con 60
canarini, 1 pappagallo.
Non appena la legge lo ha previsto, ha
fatto la “domandina” per avere dei canarini: li ha scelti perché fanno compagnia,
cantano e non borbottano, trasmettono una forma di relax come se si fosse in un
giardino.
La sua famiglia gli ha procurato maschio e
femmina, che si sono riprodotti fino a diventare 15: fino a poco tempo fa li
aveva tutti con sé, ognuno nella propria
gabbietta, nella sua cella
trasformata in una sorta di voliera con i muri completamente occupati dalla
gabbie; poi, in previsione di un trasferimento al Carcere di Opera, li ha
progressivamente fatti “uscire”, affidandoli alla sua famiglia: ciò nella
preoccupazione di non poterli più avere con sé, perchè i trasferimenti spesso
sono improvvisi e non danno il tempo di organizzarsi; e poi, come lui dice, da
san Vittore è difficile uscire, ma, una volta fatto, lo è altrettanto rientrare
e di conseguenza riprenderli avrebbe
potuto non essere possibile. Ne ha
tenuti con sé solo due,
Pasqualino e Natalino. Dice di loro che gli riempiono la giornata per la
necessità di accudimento che richiedono: lo svegliano all’alba con un canto che
lui giudica piacevole, che prosegue e si modula diversamente per tutta la
giornata e si esaurisce solo con il buio. A Pietro piace, talvolta, unire il
suo fischio al loro in una sorta di melodia concertata.
E’ percepibile la tonalità affettiva della
relazione con loro, relazione in qualche modo paterna in quanto se ne sente
responsabile e sa di doverli proteggere, contaminata da una non sottaciuta vena di gelosia e ossessività: “Guai a chi me
li tocca”, dice, perché li deve difendere, ma anche perché sono un bene che non
vuole condividere: troppo prezioso in questo luogo dove la esagerata vicinanza
fisica è sempre lontananza affettiva.
Ma c’è
anche dell’altro: Pietro si è andato scoprendo curioso del loro comportamento,
dal quale cerca di inferire regole generali relative alla specie: ha rilevato,
avendo assistito alla nascita di molti di essi, che le mamme li seguono per 40
giorni, e poi, diversamente dalle omologhe umane, non se ne occupano più e se
ne distaccano emotivamente. Il loro canto è modulato, dice, a seconda dello
stato d’animo sottostante: a lui dedicano suoni ben diversi da quelli emessi in
presenza di estranei, davanti ai quali urlano per tutto il tempo in cui tale
per loro sgradita presenza si prolunga nella cella. Pietro ha una particolare
teoria, funzionale a liberarlo da ogni possibile senso di colpa per essere
responsabile della loro detenzione, speculare alla sua: sostiene cioè che in
Italia liberi non potrebbero vivere in quanto clima e ambiente non sono
funzionali alle loro necessità; quindi è bene che siano in carcere perché un
detenuto, se di tutto manca, ha però tempo in abbondanza da dedicare loro. In fondo considera che sia
nella loro natura restare in gabbia: li vede tranquilli ed è sicuro di
trattarli bene, nella convinzione che il rapporto con gli animali sia biunivoco, in quanto si
riceve l’amore che si dà. Per rinforzare la sua convinzione, rimarca che
certamente non tutti gli animali condividono analoghi bisogni: tanto è vero
che, da libero, i suoi cani li portava in giro
anche senza guinzaglio, riconoscendo loro il diritto ad una libertà, per
quanto vigilata fosse; ma i canarini no: “loro in gabbia stanno bene”,
ribadisce.
Se ne avesse la possibilità, si metterebbe
ad allevarli, gli piacerebbe fare mostre. Forse L’uomo di Alcatraz lui non lo
ha visto, ma certo il tipo di passione e di impegno che mette nell’allevare,
studiare, curare i suoi uccellini sono la riproduzione bonsai di ciò che Robert
Struod faceva.
Pietro è convinto dell’importanza di
potersi occupare di animali, di qualunque specie siano, all’interno del carcere, perché la loro
funzione di antidoto alla solitudine è innegabile: bisogna però fare i conti
con lo spazio a disposizione e quindi limitarsi ad animali piccoli, per esempio
i criceti; lui è soddisfatto dei suoi
canarini: riconosce che il legame che si viene a creare deriva
inizialmente dal riconoscimento dell’impegno che ci si assume, ma questo poi si
evolve e tramuta in passione.
Certo la loro presenza non ha potuto
modificare la sua vita da recluso, ma ha avuto il potere di incidere sui suoi
stati d’animo, facendolo sentire meno solo, meno ansioso, più tranquillo; e in
un modo che fa fatica a spiegare, percepisce che anche la sua immagine si è
modificata agli occhi degli altri detenuti, che gli riconoscono qualche cosa
che a loro manca: si mostrano
incuriositi e non negano che amerebbero poter godere anche loro della
compagnia di un animale. Dallo stesso tipo di interesse non sono esenti anche
gli agenti, ai quali Pietro ha fatto dono di alcuni dei suoi uccellini, per i
loro bambini: e ciò non tanto per il desiderio di compiacerli, quanto nel
percepire la possibilità di un’inversione della relazione, in cui lui, privo di
ogni diritto, ha avuto la possibilità di dimostrare di avere così tanto da
poter decidere di dividerlo. Quel così tanto non è in termini di possesso
materiale, perché Pietro esprime la consapevolezza che gli animali non sono un
gioco e quindi non devono essere regalati come se lo fossero, ma con l’intento
di smuovere affettività nei loro confronti.
“Trasmettono una forma di relax, come se si
fosse in un giardino”: Pietro
coglie appieno il bisogno che ognuno ha di convivenza con le altre specie
viventi, animali e piante, convivenza che in natura esiste e nei contesti
urbani viene ricercata e riprodotta con l’abitudine a tenere, curare,
crescere in casa piante e animali da
compagnia. Il contesto carcerario è estremamente limitante anche da questo
punto di vista: la presenza di un piccolo animale è di aiuto nel tentativo di
superare la forzosa segregazione dalle altre forme di vita e, con la sua
presenza, richiama il ricordo di situazioni fatte di aria, luce, piante, che
sono o dovrebbero essere il suo contesto naturale.
Il rapporto tra l’uomo e i suoi canarini,
funzionale al superamento del senso di solitudine, ha anche connotati
affettivi, come dimostra la cura nel pensare alla loro tutela, in previsione di
un suo spostamento in altro carcere: si è messo in moto il senso di
responsabilità e la preoccupazione amorevole perchè “Nei loro confronti prima
c’è l’impegno e poi nasce la
passione”: che la relazione con l’animale
mobiliti emozioni e sentimenti forti lo testimonia il linguaggio di Pietro che parla di “amore” e di “passione”.
La presenza dei piccoli animali attrae
l’attenzione degli altri, detenuti e operatori: è una sorta di valore aggiunto
che ripropone nel contesto carcerario una dinamica tipica anche del mondo
libero, dove portare a spasso il proprio cane sblocca le inibizioni sociali e
favorisce il contatto e la conoscenza con gli altri e dove le immagini di vita
animale sono usate non a caso nella pubblicità, in modo anche del tutto
improprio, nella consapevolezza che essi,
per loro stessa natura, sono in grado di animare una curiosità
istintiva. .
Pietro ha imparato a decodificare il
linguaggio dei canarini e distingue il canto di gioia da quello di irritazione,
di rabbia o di paura: è quindi in grado di riconoscere in loro l’esistenza di
emozioni che si manifestano attraverso forme congeniali alla loro natura. Forte il
confronto con quanto è avvenuto recentemente all’esterno, dove i volatili, in
concomitanza della diffusione dell’influenza aviaria, sono stati buttati via, seppelliti vivi, gasati:
semplicemente reificati, trattati come cose: gli uomini, quelli liberi, lungi
dal preoccuparsi delle loro emozioni, non hanno neppure preso atto del dolore
fisico, come se non esistesse.
”Con
gli animali si riceve l’amore che si da” afferma ancora Pietro: vale a dire gli animali sono capaci di
affetto, di sentimenti e i loro sentimenti sono speculari a quelli dimostrati
nei loro confronti. Vi è in lui chiara
consapevolezza di un rapporto che, nella sua ovvia asimmetricità,
provoca nell’altro l’emergere di sentimenti di uguale intensità. In questo
senso, secondo Pietro, la condizione di detenzione è in qualche modo ideale
perché consente grande possibilità di dedicare ai piccoli animali tutto il
tempo di cui hanno bisogno.
Pier
Luigi, 57 anni, almeno una
ventina dei quali, in una approssimazione per difetto, trascorsi in carcere a più riprese per reati quali
traffico internazionale di armi, resistenza a pubblico ufficiale, tentato
omicidio: non quello che normalmente si definisce uno stinco di santo; il fine
pena è ancora molto lontano.
Si considera ed è considerato dagli altri
un duro; è sarcastico, cinico, fortemente diffidente; fa riferimento ad un
codice d’onore del tutto personale per cui non si vergogna di avere sparato a
molte persone, ma si vanta di non avere mai tradito. I suoi rapporti con gli
altri detenuti sono improntati alla sospettosità, ad una chiusura pressochè
totale: non esce di cella perché l’unico sentimento che prova verso gli altri è
quello dell’odio; non vuole condividere
nulla con nessuno; le persone, dice,
“per natura hanno radicato in sé tradimento, ambiguità, falsità.”
Da libero, ha sempre avuto animali: cani,
gatti, canarini. In carcere ha chiesto il permesso di avere con sé due
pappagallini, gli Inseparabili, che avrebbe voluto in quanto sono in grado di
camminare e stare senza gabbia, ma la
domandina (che mortificazione per uno come lui questo linguaggio che riporta ad
una condizione di dipendenza infantile!) gli è stata rifiutata.
Sei mesi fa ha avuto in regalo da un altro detenuto un canarino,
che si trovava in pessime condizioni: un’ala paralizzata, una frattura ad una zampetta, una cancrena
che lo ha indotto a strapparsi col becco le dita dell’altra zampa: lo ha
curato, gli ha costruito un sostegno, lo ha ingessato. Lo ha battezzato Micaule
(nome aulico, in pugliese antico, in onore della sua compagna originaria di
quella terra), per gli amici solo Michelino.
Di lui si occupa pulendogli la gabbia tre
volte al giorno, attento ad evitare che
si appoggi sullo sporco causandosi nuove
infezioni; gli parla, lo saluta, lo
considera parte della famiglia, una ben piccola famiglia; lo vede debole e sente di doverlo aiutare
perché, paralitico come è, non può
cavarsela da solo; preservandolo da possibili malattie, gli potrà forse
assicurare una vita sufficientemente lunga da potere, un giorno, “ uscire” con
lui.
Pier Luigi ha imparato a decodificare i
messaggi che Michelino gli manda,
riconoscendo le variazioni nel
suo sistema di canto, atte ad esprimere
gioia o al contrario fastidio e disappunto quando, per esempio, non si sente
salutare da lui.
Le ripercussioni psicologiche della
presenza dell’uccellino sono davvero cospicue: non solo tampona la sua
solitudine, ma lo rinforza, lo responsabilizza, lo esorta a non mollare: il
gioco delle proiezioni e delle identificazioni è evidente: anche Michelino,
come lui, è in gabbia, diversamente da lui senza esserselo meritato; anche lui non può fare nulla per
uscirne; si guardano negli occhi e
l’uomo tranquillizza l’animale,
esortandolo a resistere fino a quando sarà il momento di andarsene. Pier Luigi
ribadisce che per l’animale non c’è vita fuori dalla gabbia, perchè è nato in
cattività e perché non avrebbe le risorse per resistere: ma se fossero fuori
gli procurerebbe una voliera enorme!
Michelino non ha cambiato la via
relazionale di Pier Luigi, che continua a rifiutare, per quanto possibile, i
contatti con gli altri; ha però fortemente inciso sulla sua vita intrapsichica
e sulla sua emotività: attraverso un meccanismo proiettivo, Pier Luigi vede
nella cattività dell’altro la propria; proietta su di lui il proprio desiderio
di andarsene; se ne fa carico responsabilizzandosi. Esprime nei suoi confronti
tenerezza, affetto, sollecitudine, sentimenti che nega di possedere quando
parla degli uomini (però ha una compagna….); esce dalla spirale del non
silenzio perché ha un dialogo con lui; la comunicazione interspecifica è
funzionale all’espressione della propria emotività: la non appartenenza di
Michelino al genere umano, con cui
Pier Luigi ha troppi conti in sospeso, la sua posizione ovviamente non
giudicante gli permettono l’espressione libera di sentimenti che
altrimenti rimarrebbero trattenuti. Con lui Pier Luigi non ha inibizioni e può
scaricare almeno parte delle sue tensioni; può conoscere di sé stesso non solo
gli istinti aggressivi, violenti, distruttivi, di cui si vanta, ma anche la
parte che tende a disconoscere, perché non congrua con l’immagine di sé, di tenerezza, dolcezza, affettività, che si
esprime attraverso le parole, ma anche i gesti, che quindi diventano
controllati, attenti, delicati.
Anche in questo caso l’interesse dell’uno
si coniuga con quello dell’altro: per Pier Luigi la convinzione che Michelino
senza di lui non sopravviverebbe è fondamentale, perché gli consente di sentirsi utile, difensore dei deboli, e di
creare all’interno del carcere una microsocietà con valori diversi: lui,
delinquente incallito, rinchiuso in gabbia
da una società giudicante che è stata più forte di lui, e lo ha relegato
in uno spazio di anaffettività, esprime una forma di libertà nello scegliere di
dedicarsi al più debole dei deboli, e riesce a sentirsi ancora forte perchè
capace di salvargli la vita.
Alejandro, 44 anni, uruguayano, alla terza
detenzione, in carcere da 6 anni per rapina e sfruttamento della prostituzione.
Uscirà fra qualche anno.
Lavora nella pelletteria di San Vittore; è
sorridente, comunicativo, delicato nei modi; da libero ha girato il mondo,
fatto vari lavori manuali, avuto 4 figlie sparse in paesi diversi; e possedeva
un cane.
In carcere aveva sempre guardato con
desiderio i canarini degli altri detenuti, senza mai avere il coraggio di
chiederne uno per sé, fino a quando un
giorno ha trovato sulla finestra un canarino, piccolo, al primo volo. Con
l’attenzione a non fargli del male, si è deciso a prenderlo, contando sul silenzio assenso del personale
senza nemmeno pensare ad ufficializzare la cosa; cercata e trovata in laboratorio una gabbia molto grande, se ne
sta occupando da sei mesi: quotidianamente gli pulisce la gabbia, cambia il
giornale e l’acqua, gli dà il grano. Lo tiene in laboratorio durante la
settimana e lo sposta nella propria cella la domenica, in modo da averlo sempre
con sè. Lo ha chiamato NERO, il suo soprannome
da piccolo.
La relazione con lui è tutta sul registro dell’intenerimento;
comunicano in un dialogo in cui uno usa le parole e l’altro modula il fischio; hanno messo in
atto una sorta di rito quotidiano per cui Alejandro comincia a parlargli, la
mattina quando arriva in laboratorio, dal fondo del corridoio, per preannunciarsi
e godere del piacere di sentirlo rispondere;
quando poi comincia ad occuparsi di lui, il fischio di risposta manda
segnali precisi. Il canarino lo riconosce perfettamente e dedica a lui fischi
che non riserva a nessun altro, anche se può
godere dell’amicizia di altri detenuti, che esprimono il loro piacere di
vederlo con gesti e atteggiamenti di accettazione: ma Alejandro per lui è
speciale.
E Alejandro con lui si diverte, si sente meno solo, più
tranquillo, più contento, più utile: ha una passione fuori dal lavoro; è come
avere un bambino di cui occuparsi.
Non sottovaluta i problemi e si interroga
sul fatto che forse Nero avrebbe bisogno di una compagna per sentirsi meno
solo; soffre nel vederlo in gabbia perché stare in gabbia non è giusto per nessuno,
e mille volte ha pensato di lasciarlo andare, ma la convinzione che potesse non
farcela ha avuto il sopravvento e ha allora deciso che Nero uscirà un giorno
insieme a lui.
La relazione con ogni animale è in funzione delle caratteristiche di personalità:
Alejandro è una persona sorridente, cordiale, accogliente e quindi anche con Nero si rapporta con una modalità
scherzosa, che dà spazio al divertimento e alla gioia reciproca.
C’è un enorme identificazione in lui, a
partire dal fatto che lo ha battezzato con il suo stesso nome, ma il suo nome
di un altro tempo, quando era piccolo ed
era libero, e molti ricordi si risvegliano nel chiamarlo. E’ per lui una sorta
di alter ego: immagina che si senta solo e che abbia desiderio di una compagna
(lui di compagne ne ha sempre avute, e tante, quando era fuori); soffre nel
vederlo chiuso, perché “non è giusto essere in gabbia”: non lo dice forse a sé
stesso?
La
presenza di Nero ha una funzione rassicurante, rasserenante, è antidoto alla
solitudine: ha risvegliato il senso di responsabilità, perché “è come avere un
bambino”. Anche in questo caso non è certo casuale il riferimento alla sua esperienza personale, dal momento
che di figli ne ha quattro: di loro non può occuparsi (chissà se e quanto lo
hai fatto…) e il canarino gli offre la possibilità di risperimentarsi in un ruolo genitoriali in senso lato. Fondamentale
che lui non lo abbia messo in gabbia “comprando” la sua libertà, ma che la loro
amicizia sia nata sulla scorta di un sentimento di protezione: lo ha soccorso
vedendolo indifeso e bisognoso. Questa esperienza incide sull’autopercezione di Alejandro,
permettendogli di riconoscere in sé la
predisposizione all’intenerimento, la disponibilità all’aiuto, il senso di
responsabilità: una iniezione di autostima relativamente alla propria umanità,
così fortemente messa in discussione dai crimini che sta scontando e che lo
connotano come indegno di vivere in mezzo
agli altri.
Ahmed, 34 anni, marocchino, in carcere per la
terza volta, ora da 5 anni per rapina a mano armata e violenza carnale: uscirà
fra qualche anno.
Da libero aveva un cane e dei pappagallini,
che giravano liberi e ad un certo punto se ne sono andati e mai più ritornati,
lasciandolo a piangere come un bambino;
piacevano molto anche ai suoi bambini. In carcere ha desiderato per anni
di poter avere un animale, senza sapere come fare per procurarselo, finchè si è
deciso a farne richiesta ed ha ottenuto
un pappagallino, con cui si è creato un
bel rapporto di familiarità: stava sul
suo letto, sulla sua spalla, usciva all’aria con lui; lo ha tenuto per 6 o 7
mesi, ma poi gli dispiaceva troppo vederlo in carcere e lo ha fatto uscire
grazie ad una volontaria, affinché fosse più libero. Ha poi chiesto all’allora
direttore Pagano di poter avere due canarini, perchè a suo avviso più idonei
alla vita in gabbia: ottenuta l’autorizzazione, si è procurato un maschio e una
femmina, che ha da un anno, e che ora si sono riprodotti: attualmente sono tre.
Parlando di loro sorride, gli si illuminano
gli occhi: ricorda il primo incontro come un momento di grande gioia, che poi è
proseguito perchè questi animali con la loro presenza lo riportano indietro nel
tempo, quando era libero, con i suoi figli. Pulisce loro la gabbia , dà loro da
mangiare mele e insalata; la sera gioca con loro: quando la cella viene chiusa,
lui apre per mezz’ora le due gabbie: a
quel punto si innescano particolari dinamiche perchè la femmina resta in
gabbia, il figlio esce dalla propria per entrare in quella della madre e il
papà si oppone e lo caccia via. Lui li
guarda e non può fare a meno di pensare
alla loro sorte comune di carcerati.
Prova per loro affetto, hanno migliorato la
sua vita in quanto prima si occupava solo di sé stesso e ora ha invece spostato
il suo baricentro; ritiene di avere modificato radicalmente il suo rapporto con gli altri osservando e
imparando dal loro comportamento, per
esempio dalla relazione genitori/figli; sente che qualcosa è cambiato dentro di
sé, rendendolo disponibile e aperto verso gli altri, come quando era libero,
anziché chiuso e rintanato in sé stesso. Non indifferente poi è l’atteggiamento
degli altri nei suoi confronti: una forma di invidia da parte degli altri
detenuti lo fa sentire come portatore di un’esperienza diversa, mentre il rispetto
del personale di sorveglianza, che talvolta si traduce in forme di aiuto per esempio procurandogli il
mangime, ha inevitabilmente modificato in senso positivo la relazione con le
guardie stesse.
Ovviamente se li porterà con sé quando
uscirà.
Anche nel caso di Ahmed la presenza dei
piccoli animali è fondamentale: è lui stesso a prendere atto delle
trasformazioni da loro indotte in termini prima di tutto di conoscenza: dal
loro comportamento, dalle dinamiche interne alla loro ristretta comunità inferisce
tratti comuni anche agli umani. Grazie alla loro presenza ha nuovamente
sperimentato emozioni intense e gli è parso di riassaporare quasi fisicamente
esperienze provate all’esterno. Tutto ciò ha finito per riverberarsi sul suo
rapporto con gli altri, rendendolo più sciolto, spontaneo, meno astioso. Il rapporto con i piccoli animali non è
centrato solo sul proprio interesse: Ahmed ha saputo rinunciare al pappagallo
quando si è reso conto che lo stava penalizzando costringendolo a una vita da
recluso. Ma i canarini lui li ritiene
più idonei alla “detenzione”: probabilmente la sua convinzione è parzialmente
utilitaristica a giudicare dalla sorridente tristezza con cui vede la sua sorte
rispecchiata nella loro. E’ comunque solito dedicare loro particolari attenzioni: interessante la sua
abitudine ad aprire per mezz’ora le gabbie quando chiudono la cella: di certo
c’è la preoccupazione per il loro bisogno di movimento, ma forse anche una
sorta di rivalsa simbolica: si chiudono le porta della cella, lui apre la porta
delle gabbie, riappropriandosi
simbolicamente di un diritto che di
fatto gli è negato: da carcerato assume il ruolo di carceriere.
Romeo, 36 anni, albanese, in carcere da due anni
per traffico di droga; dovrà restarci
per altri 12.
Quando era libero aveva due cani; in
carcere gli sarebbe piaciuto poter avere un pappagallo, ma non sapeva come
fare, mentre per i due canarini non ci sono stati problemi in quanto donatigli
da un vicino di cella. Ha chiamato la femmina Joni, mentre il maschio è tuttora
senza un’identità sancita da un nome.
Si occupa di loro ogni giorno; la sera apre
la gabbia per circa un’ora lasciando che loro escano e poi, come sono abituati
a fare, rientrino da soli.
Dice di provare per loro affetto e ritiene
che loro siano in grado di riconoscerlo; la loro detenzione non è cosa che lo
preoccupi, perché ritiene che sa normale per loro vivere in gabbia.
Quando uscirà, li porterà con sé “se si
sarà affezionato”.
Romeo
si mostra almeno apparentemente come una
persona fredda, che non trasmette affettività e non parla con connotazioni
affettive dei suoi canarini, che sembra conoscere poco, e sulla cui
“detenzione” non mostra alcuna riserva;
si sente loro padrone e non pare interessato a come si sentono loro. Per
altro la specificazione che li porterà
con sé se si sarà affezionato, è una esplicita dichiarazione che a tutt’oggi il
processo di affiliazione non ha avuto forse nemmeno inizio.
Alessandro, reparto dipendenze, 24 anni, in carcere da
un anno con una condanna a tre per abuso di cocaina e un numero francamente
elevato di rapine.
Da libero possedeva gatti e criceti, che, a
suo dire, si somigliano in quanto indipendenti, menefreghisti; ora è
responsabile di un criceto, che era in precedenza affidato ad un altro ragazzo,
poi uscito dal carcere: quando lo ha
visto, non gli è parso quasi vero ed ha
immediatamente sentito che doveva essere suo!
Incurante della sua precedente identità, lo ha chiamato Ari, come un suo
amico, che, a suo dire, gli somiglia.
Gli ha costruito giochi, gli pulisce la gabbia quotidianamente, un’ora
al giorno lo lascia libero sul tavolo, dove lui gira tranquillamente, mentre
Alessandro lo osserva apprezzando il suo spirito libero. Prova per lui affetto,
ma soprattutto parla delle intense
emozioni che lui gli smuove: quando lo tiene in mano, gli sembra che non esista
niente altro, che tutta la vita sia lì. La presenza del criceto ha reso
decisamente più allegra la sua permanenza in carcere; giocare con lui è un
antidoto alla tristezza, guardarlo è fonte di piacere, come succedeva “fuori”
con gli altri criceti.
Inoltre sente di avere acquisito visibilità
rispetto agli altri detenuti, che gli riconoscono una sorta di valore aggiunto
in quanto si occupa di qualcosa che agli
altri è precluso, e rispetto agli agenti,
il cui interesse verso l’animaletto diventa veicolo di maggiore
socializzazione.
Non si nasconde che anche quella di Ari è
una forma di detenzione, ma la giustifica con la paura che possa scappare; per
altro non è sua intenzione portarlo con sé quando uscirà, perché pensa che un
giorno potrà essere utile ad altri detenuti.
Alessandro è un ragazzo sorridente,
estroverso, capace di intrattenere rapporti disinvolti con gli altri, bene adattato anche alla realtà carceraria
(per altro la sua sezione gode di un’organizzazione certamente privilegiata),
senza negli occhi la disperazione visibile nei detenuti di altri raggi: qui si
sente seguito, preso in carico, si rapporta con i visitatori alla pari,
senza l’atteggiamento di attesa e
richiesta, tipico di altri.
Certamente è molto interessato al criceto, ma lo è con leggerezza, allegria, senza
problematizzazione. Per quanto sia a lui affezionato, questo non lo induce ad
un atteggiamento di empatia che consenta di
cogliere per esempio gli atteggiamenti di paura, che invece sono
chiaramente riconoscibili all’avvicinarsi di qualcuno, né si pone il problema
del suo possibile bisogno di compagnia; anche la convinzione che Ari resterà in
carcere quando lui uscirà, è sintomatica di una concezione utilitaristica del
criceto: Alessandro lo vede funzionale al benessere del detenuto di turno, ma
non si interroga sul suo di benessere; gode delle ricadute positive del
rapporto con lui, ma è troppo avvolto nel
proprio irruente egocentrismo per accorgersi d’altro.
Michele, 27 anni, repartodipendenze; in carcere da
tre anni per rapina e reati connessi all’uso di cocaina, uscirà presumibilmente
tra un paio d’ anni.
Da libero aveva un cane, Buck, che sa ora
essere morto, e avrebbe voluto potere averne uno anche in carcere. Ha visto
l’acquario in sala comune, donato dalla ASL al momento dell’apertura del
reparto e ha chiesto di poterne diventare responsabile. Se ne occupa pulendo i
filtri ogni 15 giorni, fa le pulizie generali, è “responsabile” della sala
parto dove vengono spostate le mamme per non mangiare i piccoli. In precedenza
non sapeva nulla di pesci; si è documentato leggendo ed ha imparato anche osservando: ora sa che i
pesci non devono mangiare troppo, che si corteggiano, che giocano con il getto
d’acqua: gli piace guardarli e considera occuparsene un impegno delicato.
Alcuni li ha visti nascere; tiene tantissimo a loro, se ne preoccupa, ne è anche geloso; lo fanno
sentire bene, più responsabile, orgoglioso perché li sente suoi; ama vederli
crescere. Tra gli altri detenuti ve ne sono altri che vorrebbero poter fare lo stesso, ma possono
solo limitarsi ad essere premurosi con i suoi pesciolini. Anche gli agenti apprezzano la situazione e
qualcuno dà informazioni, suggerimenti, anche se all’inizio erano inesperti .
Quando la pesciolina ha partorito, agenti e detenuti erano presenti ed hanno
festeggiato l’evento applaudendo in un contesto
gioioso.
Prima di uscire, si preoccuperà di passare
le sue conoscenza a qualcun altro: è giusto così, perché sono della Nave, sono
di tutti.
Samuel,
31 anni, eritreo; in
carcere per la prima volta da 7 mesi per spaccio, dovrebbe uscire fra 1 anno.
Da libero, aveva un cane, Pedro, un bull-dog di 5 anni, che ora è con la sua
ragazza. Ha visto l’acquario al piano di sopra: quando i pesci si sono
riprodotti, ha chiesto di poterne avere qualcuno. Si è costruito lui stesso un
acquario con vetro e silicone e labirinti all’interno perché i pesci possano
giocare, favorito nel farlo dalle sue competenze di elettricista.
Occupandosi di loro, si sente rilassato,
sperimenta l’importanza di esserne
responsabile, rafforza la propria
immagine agli occhi degli altri detenuti; la vicinanza protratta per tutta la
giornata, gli consente di osservarli, studiarli, capirli; non crede che loro
soffrano dello spazio ristretto in cui sono costretti, in quanto, nati lì, non
conoscono altre possibilità, a differenza di quanto lo riguarda; ne è talmente
convinto che ha accettato di regalarne uno ad un suo compagno, desideroso di
prendersene cura, che, in mancanza di altro, lo tiene in un contenitore di
latta.
Quando uscirà, li darà ad uno dei detenuti,
che lo desiderano, perché vuole lasciare un ricordo a chi rimane.
Anche i pesciolini nell’acquario sono in
grado di smuovere affetto, cura, attenzione, orgoglio, senso di responsabilità:
acuiscono la capacità di osservazione, mobilitano l’interesse, spingono a
documentarsi. A Michele piace guardarli, lo fanno sentire bene; Samuel
riferisce di sentirsi rilassato: di fatto i pesciolini, con il loro movimento
sinuoso, fungono da ottimo calmante naturale, riducendo ansia, stress e
depressione.
Da sottolineare però come il punto di vista
dei pesci sia fortemente sottovalutato da Samuel, che, per quanto ad essi
legato, non è in grado di particolare empatia nei loro confronti: il suo
acquario è piccolo e addirittura ha regalato un pesciolino a chi può solo
tenerlo in un contenitore di latta: l’animale è solo funzionale al benessere
umano.
Lorenza, 58 anni, in carcere da 8 anni per
omicidio, è solo a metà pena.
Da libera aveva grande familiarità con animali di tutti i tipi (cani, gatti,
furetti, tartarughe, merli, oche…): in carcere avrebbe voluto tenere un cane,
ma la cosa sembrava oggettivamente poco realizzabile a causa dei problemi
connessi. Dopo 4 anni di detenzione, ha
chiesto di poter tenere con sé un furetto, in seguito ad un sogno in cui
si vedeva rincorrerne uno in un prato chiamandolo Gelsomino; ottenuta
l’autorizzazione della direzione, se ne
è procurato uno.
Gelsomino ha fatto una fine rimasta avvolta da
mistero: a dire della sua “padrona” sarebbe stato schiacciato accidentalmente
da una grossa compagna di cella sedutasi sopra di lui inavvertitamente; radio
carcere parla invece di un atto voluto e determinato a mo’ di vendetta privata.
La stampa interna addirittura riferisce di una impiccagione.
Gelsomino è stato poi sostituito da Bambi,
un suo consimile. Pur amandolo meno del predecessore, più sveglio e
intelligente, Lorenza riferisce di essergli legata, ma, mentre era sicura della
reciprocità del sentimento da parte di Gelsomino, resta più scettica rispetto a
Bambi, che considera menefreghista.
Bambi non risente della detenzione, in quanto può vagare libero nella celle in
cui è accettato dalle detenute e le sue “ore d’aria” in giardino sono
numerose. Lorenza parla del senso
di responsabilità da cui si sente investita,
dovendosi occupare dell’animaletto; non altro: è del tutto indifferente alle
reazioni delle altre detenute e delle agenti ed è sorda ai suggerimenti in merito ala sua gestione.
Tornerà ovviamente a casa con lei, “se sarà
sopravvissuto” dice con esibito cinismo.
Le persone in carcere mantengono le
caratteristiche peculiari della loro personalità: non è un caso che Lorenza,
appartenente ad una famiglia facoltosa e socialmente altolocata, scelga una
animale costoso, elegante, alla moda, che rappresenta inevitabilmente uno
status symbol, tanto più visibile in una realtà degradata quale quella
carceraria. Se molti detenuti, orgogliosi del loro pet, percepiscono il loro
status come arricchito dalla sua presenza agli occhi degli altri, Lorenza si
dichiara del tutto indifferente all’opinione e ai sentimenti delle sue
compagne: per altro il furetto anima
forse qualche simpatia, ma di certo anche una buona dose di malumore proprio per quello che e per
chi rappresenta. E non è forse un caso
la morte misteriosa di Gelsomino.
Non solo: Lorenza è persona complessa, che
esibisce la sua presa di distanza da chi
ritiene inferiore e che, all’occasione, non manca di attaccare con battute
velenose o brevi acting out aggressivi:
il furetto ha un comportamento speculare nel suo attaccare in modo inaspettato, a
piccoli morsi, ritraendosi subito dopo con il suo fare elegante.
Anche la motivazione della scelta del tipo
di animale, quella cosciente, è personale: un sogno: il tutto viene
relegato in una sorta di regno del
magico, da non decodificare, che esonera anche da una minima ed elementare forma
di introspezione.
Interessante altresì che Lorenza si
comporti in genere in modo fobico, indisponibile ad ogni contatto fisico, in
una distanza da persone e cose che lei giustifica con il suo essere vulnerabile ad ogni sorta di allergia: bene,
il furetto viene tenuto in braccio, accarezzato, avvicinato al viso, in un
totale superamento delle ideali barriere erette a protezione di sé.
Quanto la relazione tra la donna e il
furetto sia connotata affettivamente è difficile dirlo: nei suoi confronti vi è
indubbio bisogno; presumibilmente oltre non si può andare perché la coartazione
dell’affettività che appare come tratto caratterizzante della personalità di
Lorenza è già ampiamente superata dalla ricerca del contatto fisico; il passo
successivo, che investe la sostanza dei sentimenti, necessita del superamento
di altre barriere psichiche, a tutt’oggi, per quanto percepibile, ancora
impossibile.
Anche in questo caso, in sintesi,
l’animaletto è assolutamente funzionale ai bisogni della persona, bisogni
che si differenziano in parte da quelli
della gran parte dei carcerati. Resta
aperto uno spazio di riflessione su quella funzione di sensibilizzazione che la
relazione con l’animale dovrebbe favorire e che, in questo caso, sembra già
inficiata sul nascere dalla tipologia stessa del pet, il quale, tra l’altro,
certamente potrebbe ambire ad un habitat decisamente più idoneo alle sue caratteristiche.
Paola, 58 anni, in carcere da 13 per
narcotraffico; fine pena ancora lontano.
Si è resa responsabile di otto gatti, ora
belli, grandi, ben pasciuti, trovati
l’uno dopo l’altro nel giardino interno del carcere: con ognuno ha messo in atto una tattica di progressivo
avvicinamento, grazie al quale è riuscita a superare la loro iniziale
diffidenza e a conquistarli uno per uno; provvede al loro nutrimento, facendo
in modo che abbiano sempre a disposizione acqua e cibo, e alla loro pulizia, spazzolandoli ogni sera,
ad eccezione di Micia, della quale
rispetta la ritrosia a lasciarsi toccare. Tutti e otto sono liberi di entrare e
uscire dal giardino al laboratorio alla sua cella; in ognuno di questi spazi
esiste per loro una lettiera; tutti, tranne la solita “randagia”, amano dormire in cella, la cui
finestra al piano terra viene lasciata sempre socchiusa per permettere il
possibile andirivieni. Paola parla con grande cipiglio e convinzione di come è
riuscita a creare la situazione in atto,
superando l’opposizione di parte delle sue compagne, tra cui c’è chi prova
repulsione per gli animali e chi non nasconde compatimento e sorrisi ironici
per il suo coinvolgimento. Ma Paola è una che non demorde; il legame che la
unisce ai suoi gatti è, sono parole sue,
di “amore sviscerato”: loro le hanno regalato emozioni quando ha percepito di averli
“addomesticati” nel senso migliore del termine, vale a dire di avere creato un
legame di conoscenza, rispetto, bisogno reciproco; ora il legame è quello che unisce i membri di
una stessa famiglia. Tra le emozioni ci sono anche quelle dolorosamente connotate, che
sperimenta quando li vede stare male: in questi casi il carcere si fa sentire
con la sua forza coercitiva, che non risparmia gli animali, impedendo
immediatezza di intervento e creando un vissuto amaro di impotenza. Per questo
Paola li controlla ossessivamente cercando di prevenire possibili incidenti,
perché risolverli poi non sarebbe facile. L’affetto smodato che prova è a suo
dire del tutto speculare a quello che esprimono loro, animati da analoghi
sentimenti, da cui non è esclusa la gelosia reciproca, mobilitata immediatamente
da un’attenzione di troppo rivolta al preferito di turno. Paola ritiene che su
di lei i suoi gatti esercitino un effetto terapeutico nei momenti difficili, in
quanto l’atto stesso di accarezzarli le permette di scaricare l’emotività e di
tranquillizzarsi; a suo avviso per loro, con lei che provvede a tutte le loro
necessità, non esiste posto migliore per vivere
in quanto gli spazi interni di San Vittore sono maggiormente tutelanti
che non possibili colonie esterne dove sono sempre presenti i pericoli connessi
al traffico. A tal punto condizionano la situazione che Paola (incredibilmente
rispetto al comune pensiero) ha rinunciato alla possibilità di un lavoro
“esterno”, a cui avrebbe accesso, per
non doverli lasciare a sé stessi per tutta la giornata. Interpreta
l’atteggiamento di quelle sue compagne, che sono incapaci di decodificare il
legame instauratosi, come frutto dell’eccessiva concentrazione sui propri
drammi personali, che non consente di spostare il pensiero su altro. Per altro
anche tra le agenti, accanto a qualcuna che
la aiuta anche procurando cibo, vi sono quelle un po’ spaventate dalla
situazione: l’importante per lei è comunque che ci sia, se non condivisione,
rispetto per la situazione: ed è convinta che sia così.
La personalità di Paola rivela elementi di
forza, determinazione, sicurezza fuori dal comune: non ha cercato di procurarsi
un animale che le facesse compagnia, ma ha strutturato la presenza libera di
gatti randagi in modo che ne derivasse un beneficio reciproco, Il risultato è una
colonia di gatti paciosi, curati, accuditi. Il legame è basato su una forte
affettività, sul senso di responsabilità, sulla tutela, che non la fa però
sentire in alcun modo loro “proprietaria”, ma se mai “affidataria”: in primo
luogo perché sono i gatti che non accetterebbero un legame di dipendenza, poi
perché sa valutare lucidamete che loro non le devono più di
quanto lei non debba a loro; li rispetta di conseguenza non reclamando ciò che
desidera, ma apprezzando ciò che loro
decidono di darle, accettando anche la
loro eventuale riottosità.
Anche in questo caso c’è un rispecchiamento
reciproco: Paola è segregata, ma all’interno del carcere ha strutturato
attività che la rendono una persona fortemente impegnata (per avere colloqui
con lei è necessario aspettare che abbia tempo), punto di riferimento per le
altre, dominante.
I suoi gatti si comportano in modo non
dissimile: all’interno di uno spazio chiuso e divenuti dipendenti nei loro
bisogni, si mantengono orgogliosi, padroneggiando gli spazi e concedendosi
solo a chi e quando vogliono.
CONSIDERAZIONI
CONCLUSIVE
Þ
Il
primo dato emerso dall’indagine
conoscitiva è che di fatto nelle carceri
della Provincia di Milano, con l’unica eccezione di San Vittore, la circolare ministeriale è rimasta lettera
morta, in quanto nessun animale vi è mai stato ammesso.
Þ
Per
quanto riguarda San Vittore, sono sì presenti degli animali, ma in
numero assolutamente esiguo se si pensa che su una popolazione carceraria
di circa 1200 persone, sono a malapena una decina i reclusi che ne detengono
uno.
Þ
Non è
privo di importanza il fatto che questi
animali sono in parte poco più che clandestini: canarini trovati in cortile
oppure figli dei pochi entrati “ufficialmente”, pesci introdotti come regalo
della ASL e poi adottati, riprodotti e scambiati; gli otto gatti frequentavano
per conto loro il cortiletto, provenienti probabilmente dagli scantinati.
Questo significa che tutto o quasi ha luogo al di fuori di un progetto; implica
che i tantissimi detenuti che vorrebbero potersi occupare di un animaletto in genere non avanzano nemmeno
una richiesta perché considerano quelli presenti come frutto di fortunate
casualità o un privilegio non alla propria portata: il pensiero è realistico in
quanto le poche autorizzazioni sono tutte di vecchia data. Coloro i quali
invece ne “possiedono” uno, se lo gestiscono in modo del tutto autonomo, tanto
che addirittura per verificarne la presenza è stata necessaria una vera e
propria ricerca condotta raggio per raggio. E’ certamente vero che non è
necessaria un’organizzazione per potersi prendere cura e affezionare ad un pet,
ma è altresì vero che la valenza anche educativa e di arricchimento che la
relazione con un animale può comportare a volte necessita almeno di qualche
momento di riflessione.
Þ
La
situazione, così come si è presentata, con l’estremamente esigua quantità di
dati a disposizione, ha inficiato la
possibilità di un lavoro articolato, perchè ha offerto osservazioni
limitate e ridotti spunti di riflessione.
Þ
A ciò
si aggiunga che non è stato possibile valutare le ricadute della presenza degli
animali sui detenuti prendendo in considerazione anche il punto di vista
del personale di sorveglianza, in quanto tale personale in parte è risultato
persino ignorare la situazione.
Þ
Ciò
che si può affermare in base agli
elementi emersi dai colloqui con i detenuti è che, quando
la relazione con il proprio pet è affettivamente connotata, la sua presenza ha valenze fortemente
positive, in quanto:
o
è
antidoto alla solitudine
o
accresce
l’autostima
o
smuove
il senso di responsabilità
o
favorisce
la capacità di osservazione
o
mobilità
l’affettività
o
influisce
sulla modulazione delle emozioni
o
favorisce
l’espressione di sentimenti
o
permette
un rispecchiamento reciproco
o
crea
un ponte con la realtà esterna
o
mobilita
meccanismi di identificazione.
Þ
Queste
potenzialità risultano drammaticamente potenti se si considera
il contesto in cui si estrinsecano: un fragilissimo canarino ferito riesce a
calamitare l’attenzione e a coinvolgere emotivamente quello che viene
normalmente considerato un delinquente incallito, incattivito dalla reclusione
e dal deserto relazionale. Altri uccellini entrano nella testa e nel cuore di un ultracinquantenne che ha vissuto più in
carcere che fuori e gli offrono una ragione di vita con la possibilità di farsi
carico di loro. Una donna matura, madre di famiglia, in carcere da un tempo che
si misura in lustri, rinuncia alla possibilità di uscire nel mondo libero per
buona parte della giornata grazie ad un lavoro esterno, nel timore che i suoi
gatti vengano trascurati in sua assenza.
Þ
Esistono
però anche casi (e su numeri così
bassi ogni unità è significativa), in
cui il detenuto non ha sviluppato un legame di affezione, per motivi vari e meritevoli di
approfondimento, da ricercare comunque nella struttura di personalità o in un
approccio con l’animale reso superficiale dalle difficoltà contingenti. In
queste situazioni l’approccio resta in
chiave utilitaristica e l’animale è solo funzionale ad alcuni bisogni personali
quali quello di avere compagnia o di acquisire, grazie alla sua mera presenza, un elemento di
distinzione. Il detenuto è consapevole dell’importanza che riveste per lui
l’animale, ma di certo vanno perse molte potenzialità insite nella relazione .
Queste ultime considerazioni sono in linea
con i risultati di una recente ricerca della Psicologa Camilla Pagani sulla violenza
dei bambini sugli animali: non è sufficiente “avere” un animale perché si possa
dare il via ad un rapporto empatico in egual modo utile all’umano e
all’animale, come dimostra l’esistenza del fenomeno dei maltrattamenti a carico
del proprio pet. E’ necessario che si stabilisca una relazione affettiva
affinché tale rapporto dia origine ad un processo di crescita e di
arricchimento, che contenga anche una valenza terapeutica per l’uno a fronte di
uno speculare vantaggio per l’altro. Per
altro questa considerazione è ovvia, applicabile ad ogni relazione, anche a
quelle intraspecifiche: non è sufficiente, cioè, avere rapporti di vicinanza,
conoscenza, familiarità anche tra umani perché si possa parlare di indiscussi
benefici reciproci: è la natura della relazione, non la sua esistenza, quello
che conta. E’ questo il motivo per cui sarebbe importante che la presenza di
animali in carcere venisse monitorata e rientrasse in un progetto strutturato.
Þ
Si è
detto all’inizio che la circolare ministeriale fa specifico riferimento a piccoli animali compatibili con la
struttura e tradizionalmente tenuti in
cattività quali pesci e uccelli: di fatto sono proprio queste specie quelle
più rappresentate, perché facilmente reperibili e perché la loro presenza, nel
chiuso di gabbie o acquari, non arreca
alcun disturbo, al punto tale da poter persino passare inosservata.
Le ragioni sono quindi plausibili; ne
consegue però una semplice riflessione:
il carcere è fortemente
caratterizzato dalla presenza di sbarre: un cancello sbarrato dopo l’altro per
giungere all’interno, sbarre ad ogni cella che si affaccia sui corridoi; e poi
all’interno delle celle le gabbie, per
altro ristrette, degli uccellini. Non si può non notare che il carcerato,
mettendo il canarino in gabbia, si trasforma lui stesso, per quanto
inconsapevolmente, in carceriere. Si può
parlare in senso lato di un meccanismo di identificazione con
l’aggressore, che porta a difendersi da
una realtà insopportabile assumendo il ruolo di aggressore: il detenuto finisce
per esercitare con chi è più debole di
lui il potere che è costretto a subire da chi, per il ruolo che copre, è più
forte. E in questo modo domina
l’angoscia che la sua situazione esistenziale lo costringe a sperimentare.
Qualcuna delle persone con cui ho parlato
si è dimostrata cosciente della possibile sofferenza degli uccellini nella
privazione della libertà, e si è difeso dal senso di colpa conseguente con una
razionalizzazione: l’animaletto, fuori di lì, non potrebbe sopravvivere, il chè
in alcuni casi corrisponde al vero. Qualcuno fa della liberazione
dell’uccellino lo scopo del suo resistere lì dentro: “uscirà con me”. Altri
rimuovono il problema, negando, come nel caso del criceto o del pesciolino nel
barattolo di latta, i segnali di disagio.
Certo, se è consuetudine anche nel mondo
libero tenere uccelli in gabbia, non si vede perché questo non dovrebbe essere
possibile in carcere: non si può pretendere da chi vive una situazione di forte
penalizzazione la generosa consapevolezza dei diritti altrui tanto carente
anche nel mondo dei liberi. Ciò nonostante, non si può prescindere dalla
considerazione che non tutto ciò che è consuetudine è per ciò stesso giusto: è
inoltre doveroso osservare che ormai i regolamenti sui diritti degli animali
stabiliscono dimensioni minime per le gabbie, tali da permettere agli uccellini
almeno voli essenziali. Di certo le gabbiette di San Vittore non rispettano
tali standard, mentre credo che salvaguardare i diritti degli animali anche in
carcere non solo sia doveroso, ma sia anche strumento educativo: le persone che
sanno o imparano a dare valore alla vita di ogni creatura vivente,
inevitabilmente considerano importante anche la vita umana e la ritengono degna di rispetto. Questo credo sia l’obiettivo più
ambizioso di qualunque programma teso ad
un positivo reinserimento dei detenuti nella società.
Ben diversa certamente la situazione degli
otto gatti, i quali continuano a vivere in colonia, non sono stati spostati in
modo funzionale al benessere umano, ma il loro benessere, nell’essere mantenuti
nell’ambiente a loro più congeniale, è assolutamente speculare, per
l’evidentissima ricchezza di relazione che ne deriva, a quello della donna che se ne fa carico.
Vale la pena di notare che vanno
moltiplicandosi in molte carceri sperimentazioni diverse, che hanno come comune
denominatore la convinzione che occuparsi di un animale, nell’attenzione al suo
benessere, sia esperienza fortemente positiva. Anche ai margini della Provincia
di Milano si stanno realizzando attuazioni diversificate del progetto Argo, che
prevede la creazione di strutture destinate all’accoglienza di cani, il loro
ricondizionamento positivo, finalizzato al reinserimento in famiglia, o
l’addestramento per servizi di rilievo sociale, quale l’assistenza ai disabili
o attività di protezione civile. A Brescia una decina di cani provenienti dal
canile sono stati trasferiti in recinti ad hoc all’interno del carcere, dove
quotidianamente altrettanti carcerati, selezionati sulla base della
disponibilità e dell’interesse, si
occupano di loro: è in corso un progetto di addestramento delle singole coppie
uomo/cane per la protezione civile; l’adesione e l’entusiasmo dei detenuti sono
assolutamente tangibili. Nel carcere di Voghera sono stati costruiti spazi
adeguati, dove vengono ospitati cani provenenti dal canile, affidati alle cure
di due ristretti, cani da avviare con la collaborazione dell’ENPA all’affido
presso famiglie.
Il grande merito di questi progetti è, tra
gli altri, anche quello di creare un ponte con la realtà territoriale esterna.
Episodi quali il permesso della
direzione ad una visita al carcerato del
proprio cane cominciano a comparire ripetutamente nelle cronache: la
motivazione è concedere al recluso un momento di irresistibile affettività,
come è quello del reincontro, ma anche alleviare la riferita apatia in cui il
cane è caduto dopo la “scomparsa” del “padrone” (non a caso il termine è
virgolettato, in quanto abituale, ma del tutto improprio a definire quella che
dovrebbe essere la relazione uomo/cane).
Tutto ciò testimonia di quanto sia ormai
diffusa la consapevolezza che le
incredibili valenze insite nel rapporto uomo/animale costituiscono una
risorsa importantissima all’interno del sistema carcerario: gli animali sono
parte integrante dell’habitat umano e in grado di stabilire con gli umani
relazioni ricchissime, se vi è rispetto per le loro caratteristiche di specie.
Un atteggiamento salvifico come quello contenuto nel prendersi cura di animali
abbandonati e quindi bisognosi diventa per chi è recluso un’occasione di
riscatto, un’esperienza relazionale fondamentale, un’occasione di conoscenza,
uno stimolo all’empatia, un ponte con la realtà esterna.
POSSIBILI
PROSPETTIVE
Allo stato attuale delle cose negli
istituti penitenziari della provincia di Milano il problema non viene giudicato
prioritario. Nel momento in cui lo divenisse, le strade percorribili sono
tante, basate su un impegno organizzativo variabile. Le forme diversificate in cui si può
esplicare il progetto Argo, di cui
Voghera e Brescia sono possibili esempi, danno molteplici
indicazioni. Un’altra ipotesi
percorribile è quella, che risulta essere già stata pensata, ma poi non
realizzata, di pensioni per animali domestici.
La possibilità che tutte queste soluzioni
comportano di offrire anche possibilità lavorative o durante la detenzione o
dopo la sua conclusione, non è certo da sottovalutare.
Non si possono poi dimenticare i casi in
cui per qualcuno l’ingresso in carcere comporta l’abbandono a sé stesso di un
proprio animale: nei limiti del realizzabile, l’ospitarlo in carcere sarebbe
salvifico per entrambi gli elementi della coppia.
In sintesi, credo che il punto di partenza
sia la consapevolezza del ruolo che gli animali rivestono nella vita degli
umani: da questa consapevolezza si può partire per lavorare, nella convinzione
che permettere a persone detenute di occuparsi di un animale, lungi dall’essere
privilegio o concessione sporadica, dovrebbe essere un progetto strutturato in
funzione dei risultati; dovrebbe essere considerato, nel quadro del trattamento
educativo, un potente strumento di realizzazione della personalità, in grado di
arginare la demotivazione radicale che con tanta facilità si instaura in
carcere e di rimettere in contatto con le proprie emozioni in un contesto che,
per sua stessa natura, tende ad impedire la libera espressione di bisogni e
desideri .
Che ricerca interessante e articolata...
RispondiEliminaMi è piaciuta molto.
Mi hai fatto venire in mente le Lettere dal carcere di Gramsci, quando descriveva con estrema minuzia i passerotti che andavano a trovarlo.
Paola Re
Grazie Paola. Hai ragione: bisognerebbe articolare il discorso con altri riferimenti, "a cura" di grossi personaggi che hanno vissuto il carcere sulla propria pelle ed hanno perciò molto da dire al proposito.
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