“Alcuni militari brasiliani hanno
dovuto abbattere un giaguaro, fuggito dopo essere stato esibito al passaggio
della torcia olimpica a Manaus, capitale dello Stato delle Amazonas.
"Durante il passaggio da una gabbia all'altra nello zoo dell'esercito, il
giaguaro è scappato. E' stato inseguito e gli sono stati sparati tranquillanti
con una saracena, ma malgrado quattro dosi, si è precipitato su un veterinario
e l'abbiamo dovuto sacrificare", ha spiegato il colonnello Luiz Gustavo Evelyn
del Centro d'istruzione di guerra nella giungla (Gigs) di Manaus. Il giaguaro,
considerato il simbolo dell'Amazzonia, è il più grande felino delle Americhe in
via d'estinzione. Quello scelto per accompagnare il passaggio della torcia
olimpica si chiamava Juma e viveva in cattività con altri animali salvati dalle
mani dei bracconieri”. (21.06.2016 Repubblica)
Questa volta è Juma, splendido
giaguaro, che ci prova a sottarsi alla prigionia e, come farebbe qualunque
carcerato che soffra l’ingiustizia di una carcerazione senza colpa, approfitta
di un insopportabile spostamento da una gabbia all’altra per cercare la
libertà: niente da fare. Inseguito e chissà quanto terrorizzato, dicono si sia precipitato su un veterinario, ragion
per cui lo abbiamo dovuto sacrificare. Eccoci di nuovo: questa volta siamo
a Manaus, Brasile, ed è tempo di
Olimpiadi; veniamo a sapere che qui l’esercito
ha un suo zoo, dove animali, nati liberi per essere liberi, vengono tenuti
prigionieri e mai lasciati in pace, perché sono esibiti nelle manifestazioni
pubbliche, al passaggio di torce olimpiche, quindi alla presenza di folle di umani con i quali
non possono avere nulla da spartire, se non un insopprimibile desiderio di
andarsene lontano. E il veterinario che ci faceva lì? Lui, che gli animali li
dovrebbe conoscere, magari qualche dritta sul fatto che proprio non era il
posto giusto per portarci il più grande felino delle Americhe in via
di estinzione avrebbe potuto darla.
Posto d’onore anche ai
giornalisti a cui dobbiamo la cronaca, grandi sostenitori del sistema, alieni
da qualsivoglia atteggiamento critico: nelle
loro parole, tese a connotare l’episodio con un buonismo schierato e fuori
luogo, l’uccisione, pardòn:
l’abbattimento (fondamentale marcare anche con il linguaggio la separazione
umano-animale: i primi vengono uccisi o assassinati, i secondi abbattuti) l’abbattimento,
si diceva, dell’animale, diviene sacrificio,
pur se proprio nulla di sacro si intravede
in questo contesto pagano,
inquinato da egocentrismo, ignoranza,
prepotenza. Giusto per prudenza, infilano tra le righe una buona spiegazione
che suona come una giustificazione preventiva, tanto per anticipare le reazioni
dei soliti scalmanati sempre pronti a prendere le difese degli animali contro
questi santi uomini: la cattività, si legge, è il modo per salvare gli animali dalle mani dei bracconieri. Una volta salvati, quindi, vengono imprigionati, esibiti, spostati in contesti che
li atterriscono, e a volte uccisi quando non c’è proprio modo di convincerli ad
avere un po’ più di rispetto per gli umani. Devono proprio essere dei predatori
nati questi giaguari!
Juma, in
cerca di libertà, ci ricorda tanti altri animali in fuga dalle gabbie, che
siano quelle di uno zoo o di un circo, abbattuti
perché pericolosi, mentre forse reagivano alla domanda, martellante nelle loro
teste: “Che ci faccio qui?” A noi il dovere di porci un’altra domanda sul
perché, appena possono, cercano la fuga: la risposta ha avuto tanto tempo per
articolarsi, visto che sono migliaia di anni che la cosa si ripete. Si, perché
uno sguardo al passato, sempre fondamentale
per decodificare il presente, ci informa che[1]
la nascita degli zoo è davvero antica, risalente al tempo degli egizi, i primi ad ammaestrare animali e a raccoglierli in
parchi che sono gli antesignani degli attuali zoo. Poi furono i greci, che
insegnarono a leoni, orsi, cavalli a danzare, inchinarsi e fare giochi di
abilità, e inventarono i primi serragli itineranti, precursori dei circhi
odierni. Roma invece non si limitò certo ad esibire animali in gabbia, ma li
impiegò nelle lotte creative che divennero una sua specialità, e che
coinvolsero a pari titolo umani e non umani: l’apoteosi della carneficina fu raggiunta al Circo Massimo, dove le lotte e le uccisioni
tra animali “feroci” affiancavano quelle
tra i gladiatori. In occasione dell’inaugurazione del Colosseo il pubblico si
entusiasmò davanti all’uccisione di alcune migliaia di animali, per poi festeggiare i successi
militari dell’imperatore Traiano con una
carneficina di 11.000 vite: l’abitudine e l’attrazione per sangue e morte,
alimentata nel corso delle guerre, strabordava
e celebrava se stessa. La sete di sangue era tale che i cittadini romani
erano se mai disposti a rinunciare al
“panem” ma non ai “circenses”: siccome
poi l’assuefazione col tempo rendeva le esibizioni sempre meno
strabilianti, per risvegliare un piacere che andava assopendosi, “veniva
escogitato ogni genere di atrocità: e allora si potevano incatenare insieme
un orso e un toro per godersi lo
spettacolo.”[2]
L’avvento della cristianità indusse a
mettere in discussione lo spettacolo dell’uccisione per puro divertimento tra
gli uomini e, progressivamente ma non certo ovunque, dello spargimento di
sangue animale, ma non al loro sfruttamento: in molti luoghi non più uccisi in pubblico, cominciarono ad
essere ridicolizzati e umiliati a tutto
beneficio degli spettatori, per altro autorizzati a molestarli.
Da allora ad oggi gli zoo non
hanno mai cessato di esistere: nei migliori dei casi si sono trasformati nei
cosiddetti bioparchi, certamente capaci di offrire spazi più ampi di quelli di
una gabbia, ma sempre e in ogni caso (con l’unica eccezione di quelli nati come
“santuari” dove ospitare animali salvati da condizioni di prigionia) strutture
dove gli animali vivono in ambienti, latitudini, contesti che non sono quelli
naturali e che sempre rispondono solo ad interessi, anche economici,
esclusivamente umani.
Per capire fino in fondo le
dinamiche che ne sono alla base, è illuminante ricordare che vi sono stati periodi,
cronologicamente e geograficamente vicini a noi in modo imbarazzante, in cui gli zoo animali sono
stati affiancati da zoo umani, in cui venivano rinchiusi ed esibiti altri
“diversi”[3],
diversi dal modello dominante dell’uomo bianco: quindi uomini, donne e bambini in genere africani, perché il
colore della pelle era sufficiente a destare interesse, ma anche persone fornite
di caratteristiche anomale d’altro tipo,
come fu per esempio il caso della Venere Ottentotta, al secolo Sarah Saartjie, che aveva fianchi allargati e natiche
sporgenti. Insomma, servivano elementi che li rendessero fenomeni da esibire
dentro gabbie o recinti, magari anche toccare, non nutrire però: a Bruxelles ( 1897)
un cartello, appeso alla gabbia dei congolesi, raccomandava e rassicurava: “Non
dare da mangiare ai negri: sono nutriti”. Si può anche ricordare un altro caso famoso, quello di Ota Benga,
piccolo schiavo pigmeo “importato” dal Congo da un missionario fino
al Giardino zoologico di New York (1906), esibito nella casa delle scimmie, dove
veniva pungolato tra le costole per vederne la reazione, mentre qualcuno gli
faceva lo sgambetto e tutti ridevano di lui: finì suicida, a fronte della morte
da prostituta alcolizzata e devastata di Sarah: a dimostrazione della
disperazione disconosciuta, conseguenza
del trattamento loro imposto.
Non si tratta
di casi isolati, perché questi strani umani furono esibiti nelle Grandi
Esposizioni Internazionali, gli antecedenti del recente Expo; nel 1889 ( nel
centenario della Rivoluzione francese combattuta al suono di Libertè,
Fraternitè, Egualitè!!! Seguita dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo), fu
offerto a 32 milioni di visitatori lo show di un villaggio africano con
selvaggi provenienti da varie parti del mondo cosiddetto sottosviluppato. A Parigi tra il 1877 e il 1931 ci
furono ben 34 esposizioni antropozoologiche nel Jardin Zoologique
d’Acclimatation, che divenne il luogo simbolo delle esposizioni di esseri umani
e contestualmente di decine di migliaia di animali.
Lo status di questi ultimi variava a seconda dell’interesse: nel corso delle guerre, per esempio, cessavano improvvisamente di essere specie preziose, da osservare ammirati, per essere uccisi e trasformati in cibo: le guerre, tutte le guerre, hanno sempre fatto pagare prezzi inenarrabili, oltre che agli umani, a tutti gli animali, senza che sia mai stato fatto il computo dei loro di morti, innocenti come i più innocenti dei civili: tra gli altri, si ricordano quelli preventivamente uccisi per scongiurarne la fuga dagli zoo in cui erano reclusi. Una tragica testimonianza la trasmette Edgardo Franzosini in un libro, il cui titolo, “Questa vita tuttavia mi pesa molto”,[4] sembra tagliato su misura su ognuno degli animali di cui parla: nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, per evitare problemi conseguenti agli incipienti bombardamenti, il direttore dello zoo di Anversa decide di fare uccidere preventivamente lo smisurato numero di animali rinchiusi, affidando la “spaventosa faccenda” ad un plotone di 50 uomini, che cominciano dagli uccelli, i quali strepitano impazziti nelle voliere; procedono ad un’esecuzione in piena regola dell’elefante con una decina di soldati disposti su due file, gli uni accovacciati, gli altri in piedi come nella più precisa delle fucilazioni; per le antilopi si preferisce la baionetta, perché le munizioni è meglio conservarle per gli animali più grandi, senza che tuttavia sia risparmiata una agonia di molte ore al rinoceronte; e così via. Ultime le scimmie: assomigliano troppo agli uomini.
Lo status di questi ultimi variava a seconda dell’interesse: nel corso delle guerre, per esempio, cessavano improvvisamente di essere specie preziose, da osservare ammirati, per essere uccisi e trasformati in cibo: le guerre, tutte le guerre, hanno sempre fatto pagare prezzi inenarrabili, oltre che agli umani, a tutti gli animali, senza che sia mai stato fatto il computo dei loro di morti, innocenti come i più innocenti dei civili: tra gli altri, si ricordano quelli preventivamente uccisi per scongiurarne la fuga dagli zoo in cui erano reclusi. Una tragica testimonianza la trasmette Edgardo Franzosini in un libro, il cui titolo, “Questa vita tuttavia mi pesa molto”,[4] sembra tagliato su misura su ognuno degli animali di cui parla: nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, per evitare problemi conseguenti agli incipienti bombardamenti, il direttore dello zoo di Anversa decide di fare uccidere preventivamente lo smisurato numero di animali rinchiusi, affidando la “spaventosa faccenda” ad un plotone di 50 uomini, che cominciano dagli uccelli, i quali strepitano impazziti nelle voliere; procedono ad un’esecuzione in piena regola dell’elefante con una decina di soldati disposti su due file, gli uni accovacciati, gli altri in piedi come nella più precisa delle fucilazioni; per le antilopi si preferisce la baionetta, perché le munizioni è meglio conservarle per gli animali più grandi, senza che tuttavia sia risparmiata una agonia di molte ore al rinoceronte; e così via. Ultime le scimmie: assomigliano troppo agli uomini.
Cronache dal
passato? Forse no: a tempi di guerre e carneficine, appartengono tutte le
cronache più cruente, ma l’onda lunga del pensiero che le sottende è qua,
vitale e mortifera: da non credere, ma nel 2002 nel sud del Belgio si organizzò
un’esposizione di pigmei, presto chiusa per l’intervento delle organizzazioni
umanitarie e nel 2005 in Germania ad Augusta fu inaugurato un Africa Village
all’interno di uno zoo, considerato il luogo migliore per trasmettere
un’atmosfera esotica. Se gli zoo umani sembrano in esaurimento (ma non è il
caso di distrarsi troppo, visti i tempi), per gli animali le cose non sono
cambiate: ancora la loro natura viene mortificata e controllata nei recinti e
nelle gabbie, ad uso e consumo di un pubblico di solito distratto e
superficiale. I cartellini con le spiegazioni sugli animali non vengono in
genere lette, i visitatori sono attratti se mai dai cuccioli (motivo per cui
gli animali vengono fatti riprodurre), mentre la gente passa più tempo a discutere con i
bambini, a cambiare pannolini e a mangiare che non ad osservare gli animali. In
media 8 secondi davanti ad un serpente, 1 minuto davanti ad un leone: ciò a
fronte, da parte loro, di una vita intera in cattività., [5] in
condizioni di sofferenza estrema. Sofferenza fisica, ma anche psicologica,
esattamente come accade agli umani impediti a condurre una vita rispettosa
delle proprie necessità: gli studiosi parlano ormai di patologie psichiatriche, che si ritenevano esclusivo appannaggio umano,
quali il Post-Traumatic Stress Disorder (insieme di disturbi collegati a
situazioni di grave stress), riscontrato in elefanti e scimpanzè, che mostrano estrema ansietà, quale conseguenza dell’isolamento, dell’incarcerazione, delle minacce
di morte, dell’allontanamento da conspecifici: ne soffrirebbe il 44% degli
scimpanzè in cattività a fronte dello 0,5% di quelli in libertà[6] Davvero
non si capisce dove potrebbe essere reperito il valore educativo di strutture
di questo genere. Dice bene Gay Bradswow, studioso di elefanti, quando afferma
che “Gli zoo non sono più educativi delle prigioni. Non c’è nulla di educativo.
Diventeranno educativi quando non conterranno più animali e si potrà visitarli
come si fa con Aushwitz, senza più vedere i prigionieri, ma sentendo la
presenza dei fantasmi degli animali che ci sono stati”. Quindi camminando tra
gabbie finalmente vuote.
Intanto le gabbie
vuote non sono e le cronache ci consegnano episodi che sono pugni nello stomaco
di ogni persona pur se di sensibilità medio-bassa. Qualche flash: a Bagdad,
dopo la caduta della città nel 2003, quattro leoni impazziti per la fame
scappano dallo zoo, dopo essersi aperti una via di fuga a zampate contro un
muro di recinzione pericolante: abbattuti. A Tbilisi, in Georgia, a seguito di
un’inondazione una tigre albina fugge e la sua sorte è segnata. In Germania,
nel settembre del 2015, è un orango ad essere fucilato dopo avere tentato la
fuga dallo zoo di Duisburg. E poi c’è Harambe, il gorilla ucciso nello zoo di
Cincinnati per pagare la leggerezza colpevole di due genitori incapaci di badare al loro
bambino di quattro anni, finito quindi nella gabbia: colpa che è Harambe a
pagare con la vita. Se questi sono fatti
straordinari, discendono però dall’ordinarietà: come dimenticare Marius, il
giraffino ucciso nello zoo di Copenghen, colpevole di risultare in sovrappiù
rispetto alla disponibilità di spazio, e per questo fatto a pezzi sotto gli
occhi di bambini annichiliti e dato in pasto ad altri animali. A volte
l’epilogo è rovesciato: nel settembre 2016 è un guardiano ad essere aggredito
alle spalle, nello zoo di Munster (Germania)
da Rasputin, esemplare di tigre siberiana che evidentemente di avere un
guardiano non travisava la necessità; mentre nel luglio 2016 è una lavoratrice
del Parco Terra Natura, sulla costa orientale della Spagna, ad essere assalita
e uccisa dalla tigre asiatica, uscita dalla porta della gabbia rimasta
socchiusa. Intanto, a pagare la terribile crisi economica che
nel 2016 devasta il Venezuela, insieme a tutta la popolazione, sono gli animali
rinchiusi a Caricuao, zoo di Caracas, dove stanno morendo di inedia l’uno dopo l’altro.
Ora è Juma,
che cercava la sua libertà: le sue fotografie, che hanno fatto il giro del
mondo , hanno indotto lo stesso Comitato Organizzatore di Rio 2016 ad un
comunicato in cui si sottolinea l’imbarazzo per avere accostato la torcia
olimpica, simbolo di pace e unità tra i popoli, ad un animale selvaggio
incatenato. Scuse tardive per Juma, non credibili se non accompagnate da reali gesti riparatori in
vista della liberazione degli animali imprigionati.
Tante storie
che raccontano la stessa storia: la storia della sopraffazione dell’uomo sugli
altri animali, sdoganata come normale, giusta, divertente, condivisibile.
Offerta come spettacolo anche ai bambini, che così almeno imparano presto la
lezione, che è quella del diritto del più forte, presentato come unico modello
di relazione, mentre l’atmosfera festaiola intorno connota di allegria il
contesto e offusca la possibilità di decodificare la situazione, di cogliere i
segnali di disagio, di rabbia, di sofferenza, di disperazione degli animali, al
di là della narrazione che li racconta lì liberi e felici.
La verità
incontrovertibile è che lo zoo è una
prigione, a volte angusta e sporca, altre volte più ampia e ripulita, ma sempre
tale, perchè i suoi confini sono delimitati dalle sbarre che sono lì a dire che
tutto il resto del mondo è off limits. E
la prigione è , nel nostro mondo
occidentale, una condanna attuata con la privazione della libertà,
nell’impedimento ad una vita che si autodetermini, nell’umiliazione della
sottomissione ad altri per ogni atto quotidiano. Così si stabilisce il prezzo
da pagare per nefandezze e misfatti; ad una detenzione con “fine pena mai” gli uomini condannano gli animali nelle gabbie degli zoo per colpe
mai commesse. Che gli zoo siano nei fatti, ma anche nella percezione del
pubblico niente altro che prigioni, lo attesta tra l’altro il fatto che, quando
essi furono aperti al pubblico, gli
animali “dovettero essere protetti dagli spettatori che li maltrattavano ,
considerandoli alla stregua di prigionieri esibiti da un esercito trionfante.”
Che dire di più
sugli zoo di quello che la spontaneità
dei bambini napoletani[7] ha
saputo dire: che gli animali lì “sono
giù di corda”, che “dentro le gabbie o diventano scemi o pazzi”, che lo zoo è
“un cimitero di vivi” e la gabbia “una bara a quadretti”; quale migliore poesia
può connotare le emozioni che provano se non quel lapidario “guardano il cielo
e piangono”?
Quale tributo
di morte e sofferenza gli animali devono ancora pagare prima che la coscienza
di ognuno si risvegli e ponga finalmente fine all’ingiustizia in atto? Certo,
non aiutano le cronache recenti: papa Francesco che accarezza una tigre alla
catena, sottratta al suo habitat, e
loda i circensi perché con le loro
vittime regalano allegria, lascia basiti. L’autorità del suo ruolo e l’aurea
compassionevole che ammanta la sua figura amplificano ogni esternazione, che
diventa modello ispiratore di vita.
Torna alla
mente l’immagine dell’affiliato alla camorra che offre una pantera incatenata alla sua compagna
quale gentile cadeaux con cui dilettarsi per stornare la noia (il Gomorra
televisivo lo insegna e le cronache lo
confermano come prassi del tutto attendibile). L’insensibilità al rispetto per
gli animali in un contesto di degrado e
di violenza è del tutto speculare alla crudeltà contro gli umani, e non
meraviglia: ma meraviglia e tanto da parte di chi sostiene l’ideale di un mondo
pacificato. Perché nessuna pacificazione sarà mai possibile se non includerà il
rispetto per tutti gli altri, a partire dagli esseri più deboli, quali gli
animali sono; catene e rispetto non sono compatibili.
Riferendosi
allo zoo del Bronx, Bashevis Singer[8] dice: ”L‘aria qui è piena di bramosia per i
deserti, le colline, le valli, le tane, i branchi….” Quelli di certo bramava
anche Juma: illudiamoci che siano state le immagini che si è portata
con sé, mentre i militari le sparavano.
[1] Vengono
riportati, qui e in seguito, brani
tratti da Annamaria Manzoni, “In direzione
contraria”. Sonda 2014
[2] Peter
Singer, “Liberazione animale”, Net
Milano 2003
[3] Si legga
l’ampia esposizione del problema in Viviano Domenici “Uomini in gabbia”. Il Saggiatore 2015
[4] Edgardo
Franzosini, “Questa vita tuttavia mi pesa
molto” . Adelphi, 2015
[5] Le
informazioni, con relative fonti e indicazioni di ricerche, sono contenute in Mark
Hawthorne, “Bleating Hearts”. Change Makers
Books 2013.
[7] A cura
di Marcello D’Orta “Ogni porco è signorina”. Mondadori 2008.
[8] Bashevis Singer,
“Nemici.Una storia d’amore” , Corbaccio
2001
Articolo pubblicato su www.lindro.it
Articolo pubblicato su www.lindro.it
Che agghiacciante galleria degli orrori... e non è certo completa... Ha ragione Gay Bradswow: li zoo saranno educativi quando saranno svuotati dagli animali. Bisognerebbe davvero tenerli aperti vuoti, come i campi di sterminio. Farei la stessa cosa col mattatoio. Nella mia città hanno appena tolto l'insegna MACELLO PUBBLICO dal macello chiuso da decenni per una nuova destinazione d'uso. Ogni volta che leggevo quella scritta, pensavo all'orrore perpetrato per tanti anni tra quelle mura. Bisognerebba ricordarci anche degli zoo.
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