sabato 18 novembre 2023

Il linguaggio della guerra

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Il linguaggio della guerra

Annamaria Manzoni
06 Novembre 2023
Foto di Cole Keister su Unsplash

“Stiamo mettendo completamente sotto assedio Gaza. Niente elettricità, niente acqua, niente cibo, niente gas, tutto chiuso. Stiamo combattendo contro bestie e ci comportiamo di conseguenza”. Sono le parole del ministro della Difesa israeliana Yoav Gallant. “Questi animali barbari e sadici le hanno semplicemente tagliato la testa mentre attaccavano, torturavano e uccidevano”, dice Isaac Herzog, presidente di Israele, riferendosi all’uccisione da parte di Hamas della ventiduenne Shani Loouk. E la giornalista Francesca Mannocchi sulle pagine della Stampa ricorda come il linguaggio disumanizzante fosse usato già nel 2014 quando la parlamentare israeliana Ayelet Shaked  auspicava che venissero uccise anche le madri palestinesi che resistevano all’occupazione così che non potessero mettere al mondo altri piccoli serpenti, implicitamente definendo serpenti i palestinesi cresciuti in quelle case da abbattere: quindi, secondo una ingenerosa rappresentazione di questi animali, esseri infidi, pericolosi, malvagi.

Marco Noris ribatte da Micro Mega quanto suonino sconvolgenti parole del genere pronunciate dai capi di quel popolo costituito, non molti decenni orsono, secondo la propaganda nazista, da animali umani, come erano considerati gli ebrei stessi, e quanto fu efficace il processo di disumanizzazione su base etnica operato nei loro confronti per giustificare la banalità del male dell’Olocausto.

Insomma, quello che i giornalisti colgono è un processo teso a trasformare il nemico, Hamas ma con lui tutti i palestinesi, in animale: l’insulto e l’oltraggio sono evidenti, e con questi la loro riduzione in qualcosa di subumano, di altro rispetto alla natura di chi offende: la trasformazione in bestia dell’altro e quindi il richiamo alla sua presunta inferiorità morale diventano il lasciapassare alle azioni di inaccettabile violenza messe in atto, che risulterebbero più problematiche se a quello stesso nemico fosse riconosciuta dignità umana.

Che dire? Apprezzabile che questa dinamica venga colta e fatta emergere, contrariamente a quanto di solito succede; ma davvero niente di nuovo sotto il sole, sotto quel sole che illumina da millenni con la sua luce immeritata la vita, e soprattutto la morte, su questa disperata terra. La conversione del nemico in animale è stata presenza diffusa sui territori bellici dall’antichità ai nostri giorni: e ovviamente tra gli animali nonumani sono stati privilegiati quelli più screditati, diffusa fonte di reazioni di disgusto e ripugnanza: cani rognosi, topi di fogna, pidocchi, scarafaggi, serpenti hanno popolato la narrazione propagandistica di tanti leader bellicosi.

Solo per restare a tempi recenti: cimici erano le popolazioni slave durante il fascismo; scarafaggi i tutsi massacrati in Ruanda nel 1994 a centinaia di migliaia, a colpi di machete, dagli hutu; ancora pochi anni fa vennero chiamati tacchini gli iracheni in fuga durante la guerra del Golfo; Gheddafi ripetutamente definì topi drogati i ribelli nel corso della guerra civile in Libia nel 2011; come già ricordato, con epiteti animali erano indicati gli ebrei nel periodo delle persecuzioni naziste. Ed è drammatico ricordare che la svalutazione diventava anche autosvalutazione, come ricorda Primo Levi in Se questo è un uomo, tanto che erano gli stessi prigionieri a definire se stessi bestie stanche o domate con le percosse, gregge muto, gregge abbietto.

La svalutazione dell’altro come strada per rendere la sua vita priva di valore e quindi la sua morte immeritevole di senso di colpa, ma anzi incentivo all’infierire su di lui, è stata di fatto ed è oggi musica di fondo di tante carneficine.

In tempi recenti, alla fine degli anni ’90, Albert Bandura, grande studioso dello sviluppo dell’apprendimento, ha offerto una base teorica a queste dinamiche che facilitano le persone nel compiere azioni orribili contro altri. Lui ha teorizzato che queste azioni concorrano al disimpegno morale, vale a dire ad agire senza alcuna preoccupazione etica, e ne ha individuato la formazione, tra le altre condizioni, proprio nella disumanizzazione, vale a dire nel processo di eliminazione di umanità alla propria vittima, che viene connotata come animale e in tal modo privata dell’accesso all’empatia nei propri confronti e al disagio e senso di colpa, che dovrebbero almeno accompagnare i colpevoli nelle loro azioni delittuose.

In estrema sintesi, attribuire qualità animalesche all’altro risulta utile a indebolire gli scrupoli, a disimpegnare moralmente. Non meraviglia quindi che crimini e atti di guerra vengano tanto spesso sdoganati anche grazie a questo meccanismo, meccanismo sotteso dall’idea stessa di animale, a cui viene associata un’identità non solo forgiata sulla sua presunta inferiorità rispetto alla specie umana, ma anche sull’idea di infamità di cui le bestie sarebbero capaci, in quanto considerate contenitori di nefandezze e istinti crudeli.

Siamo oggi nel mezzo di una tragedia infernale in cui ogni freno morale appare collassato e il dolore fisico e morale di milioni di persone ha raggiunto livelli indescrivibili: in cui bambini, malati, anziani non sono più vittime collaterali della degenerazione umana, ma bersagli privilegiati di efferati leader che non conoscono giustizia né pietà, che inseguono i loro progetti nel dispregio assoluto di ogni vita. Le parole davvero mancano e forse il bisogno di trovarne, che fossero ancora capaci di dare un nome all’altezza abissale delle innominabili tragedie sempre in corso, ha spinto la filosofa Adriana Cavarero a coniare il termine nuovo di orrorismo per parlare della violenza sull’inerme, per raccontare un cronico presente (lo ha fatto nel 20071), benché allo stesso tempo non abbia eluso alcune domande: cosa c’è di nuovo nella carneficina e nella tortura? cosa c’è di diverso nei corpi che bruciano sotto le bombe incendiarie? cosa c’è di recente nella solita e vecchia strage degli innocenti?

In tutto questo, anche in quest’ultima guerra gli animali nonumani sembrano esistere solo per insultare il nemico: non un accenno, uno solo, alle indicibili sofferenza che anche a loro vengono inflitte, al terrore sconvolgente che certo non li risparmia, alle loro vite massacrate. Solo il filmato di un asinello, pelle e ossa, trascinato da uomini disperati a trascinare un carretto troppo pesante di feriti da soccorrere, riporta alla loro esistenza. E alla loro cosmica solitudine. Di loro, vittime innumerevoli, terrorizzate e senza colpa, di ogni insensata guerra umana, si parla sempre e solo a distanza di anni dalla fine dei conflitti: quando un temporaneo accenno di risveglio dal sonno della ragione permette almeno qualche pensiero sull’ignominia e sull’efferatezza inflitte a tutte le vittime inermi, nessuna esclusa. Quindi anche a quelle animali, l’occuparsi delle quali in corso d’opera pare quasi una bestemmia, un insulto al valore assoluto della vita umana, quasi non venisse da tutti i contendenti oltraggiata, massacrata, umiliata in ogni istante.

Cominciare a rispettarla la vita animale sarebbe allora non eresia, ma dovere etico: diceva Aldo Capitini che è l’abitudine all’uccisione costante e senza tregua degli animali il brodo di cultura delle guerre; che, se si fosse imparato a non uccidere gli animali, a maggior ragione si sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini. Mentre il pensiero di altri pacifisti Gandhi, Toltstoj, Terzani, Marcucci, Scweitzer, fa specifico riferimento ai nonumani nella convinzione che il rifiuto della guerra non nasce improvvisamente, ma si nutre di un atteggiamento solidale, non predatorio che coinvolge tutti gli aspetti della vita individuale e sociale, senza dimenticare nessun essere senziente.

Nell’indifferenza rispetto a queste considerazioni, i media non dedicano neppure il più piccolo spazio a questa tragedia nella tragedia e sostengono l’occultamento cognitivo e quindi emotivo di tutto ciò che anche i nonumani subiscono, perché c’è ben altro di cui occuparsi, nel trionfo di quel benaltrismo, che traccia sempre una gerarchia delle ingiustizie. Nessuna delle quali può essere ignorata perché ognuna fa la sua parte nel rendere il mondo un posto sempre peggiore. Faccenda di una gravità astronomica che dovrebbe smuoverci dal nostro intorpidimento e indurci a riflettere seriamente sul tema della violenza.

L’abituale metafora del nemico quale animale non sarebbe pensata se ai nonumani non fossero sempre gettati addosso tutti quegli impulsi inaccettabili che in realtà ci appartengono, e di cui forse nel profondo conserviamo un po’ di vergogna tanto da rifiutare di accettarli come nostri e proiettarli su di loro. Era Albert Einstein, non uno qualunque, che, mentre si interrogava, nel suo carteggio con Freud, se esistesse un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra affermava in modo lapidario che l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e distruggere: riprendiamo su di noi questa esclusiva responsabilità con i suoi correlati di crudeltà, sete di potere, brama di annientamento, attrazione morbosa per le carneficine che definisce la nostra specie, non quelle nonumane.


 

giovedì 5 ottobre 2023

La ribellione dei Santuari

27 Settembre 2023

 

La furia da abbattimento decisa in provincia di Pavia (34.000 maiali uccisi in pochi giorni) per la presenza di alcuni focolai di peste suina negli allevamenti non ha risparmiato il Rifugio Cuori Liberi di Sairano, dove le forze dell’ordine e i veterinari sono entrati di forza e hanno ucciso i 9 maiali presenti. Nelle alte sfere si ostinano a non considerare le cause dei virus, da ricercare nell’esistenza stessa degli allevamenti: la soluzione è sempre lo sterminio degli animali. Tuttavia, molti per la prima volta hanno saputo della straordinaria rete di “santuari”, rifugi che raccolgono animali normalmente definiti da reddito, salvati in vari modi dal destino di morte: coloro che gestiscono quei luoghi conoscono gli animali uno per uno, danno un nome a ognuno di loro e con loro costruiscono relazioni di fiducia, libertà, affetto. Quei Santuari dimostrano che è possibile creare relazioni diverse con gli animali nonumani, abbattendo la rappresentazione di comodo diffusa, che li svilisce: del resto la denigrazione delle vittime, accade anche con gli ultimi degli umani, è sempre fondamentale per sdoganare il trattamento di sfruttamento e morte

In questi giorni in provincia di Pavia si è proceduto all’uccisione di decine di migliaia di maiali (34.000 quelli già abbattuti, secondo la terminologia usata dai responsabili) perché alcuni focolai di peste suina negli allevamenti stanno portando le autorità a eliminare tutti gli animali presenti per evitare che il contagio si espanda: sani o malati fa lo stesso, come è ininfluente la certezza che gli umani non possono essere colpiti dal virus. Semplice prudenza, atta a proteggere la filiera alimentare, attuata con i metodi particolarmente spicci usati in questi casi: altro che stordimento preventivo.

La furia da abbattimento non ha risparmiato il Rifugio Cuori Liberi di Sairano, dove le forze dell’ordine e i veterinari sono entrati di forza e hanno ucciso i nove maiali lì ancora presenti: a nulla è valsa la resistenza portata avanti per quindici giorni da attiviste e attivisti che hanno difeso fisicamente gli animali presidiando senza sosta la situazione. Ci sono state suppliche, richiamo alla compassione, sollecitazione a non obbedire a ordini ingiusti, esortazione a esaminare soluzioni diverse: e senza sosta la resistenza passiva delle persone, in buona parte donne, che hanno frapposto i propri corpi tra le forze dell’ordine, in assetto di battaglia, e gli animali minacciati. Per altro le richieste non potevano raggiungere i veri responsabili: ministri, amministratori, vertici della sanità, che gestiscono il potere a grande distanza, lasciando prudentemente allo scoperto i “soldati semplici”, ultime pedine del gioco, per i quali le conseguenze personali da pagare per un atto di disobbedienza sarebbero state presumibilmente gravosissime. L’”operazione” si è conclusa con attacchi fisici a chi stava opponendo resistenza passiva, e l’uccisione dei maiali ha avuto luogo nella disperazione delle volontarie e dei volontari presenti e di tutti coloro che hanno assistito a distanza agli avvenimenti grazie ai filmati postati sui social: l’indignazione, il dolore, la rabbia sono dilagati a macchia d’olio.

Per capire il senso di tutto questo è necessario un passo indietro, fino alla nascita dei cosiddetti Santuari, collegati tra loro attraverso una rete, sparsi in varie località soprattutto del nord e centro Italia: si tratta di sorta di oasi che raccolgono e ospitano animali normalmente definiti da reddito, quindi maiali, galline, capretti… salvati in vari modi dal destino di morte a cui erano destinati, e portati a vivere una vita in libertà, nel rispetto delle loro caratteristiche, protetti da qualsiasi forma di sfruttamento. La loro individualità viene sancita anche dall’attribuzione di un nome di battesimo, Pumba, Crusca, Freedom, Ursula… che li designa come individui unici e non semplicemente appartenenti a una specie. Chi gestisce questi luoghi li conosce uno per uno, sa dire delle loro caratteristiche e della loro personalità, ne conosce le preferenze e i gusti, sa che possiedono un’enorme ricchezza di capacità cognitive nonché un mondo interiore animato da emozioni e sentimenti specie-specifici. Ed è sulla base di questa conoscenza e della progressiva fiducia degli animali che si vanno stabilendo a livello interspecifico rapporti affettivi, amicali, rispettosi, gioiosi: molto simili, per intenderci, a quelli che si sviluppano tra un cane o un gatto e il loro compagno umano.

Il grande significato che i Santuari hanno acquisito sta anche nel loro essere testimonianza necessaria: esiste il modo, ed è questo, per conoscere davvero gli animali nonumani, abbattendo la rappresentazione di comodo che ne viene normalmente diffusa, che sempre li svilisce: non certo a caso, perché la denigrazione delle vittime è sempre fondamentale per sdoganare il trattamento di sfruttamento, tortura e morte che viene regolarmente loro destinato, per altro nell’incredibile misconoscimento di tutte le progressive conoscenze degli etologi. Meglio ignorare che si tratta di esseri senzienti, esposti senza difese alle atrocità a cui vengono quotidianamente destinati, dotati di autoconsapevolezza: non solo i mammiferi, categoria a cui anche noi umani apparteniamo, ma gli uccelli, e anche invertebrati quali il polpo, che pure in tantissimi continuano serenamente a trattare come gustoso ingrediente di un’insalata. Molto più funzionale continuare a sostenere la rappresentazione delle galline come stupide, dei maiali come sporchi, brutti e persino immorali , delle oche…beh lo dice il nome stesso, come per altro degli asini o dei muli, solo per citare. Riconoscerne le virtù o semplicemente la bellezza, l’affettività, l’insospettato mondo di emozioni e sentimenti che li anima, renderebbe decisamente più arduo continuare a trattarli come cose o esseri spregevoli e quindi destinatari perfetti di tutto il male che viene fatto loro. Come diceva l’etologo Mainardi

“anche il maiale possiede una sua intelligenza, ha capacità sociali e affettive: ma preferiamo non venirlo a sapere, perché quest’ignoranza indubbiamente ci facilita la digestione”.

Il gioco è facilissimo: tutte le istituzioni e le forme di comunicazione procedono compatte nel sostenere una visione del mondo in cui gli animali nonumani restano saldamente ancorati nella posizione dei senza diritti, gli ultimi degli ultimi: vengono dopo i poveri che, diceva Anna Maria Ortese, almeno qualche volta possono reagire. Il gioco è facilissimo perché la moltitudine umana, anche quella non sadica e non brutale, resta inerte magari non per cattiveria, ma in quanto immersa in uno stato delle cose in cui la violenza è normalizzata, sistemica, ubiquitaria e quindi neppure riconosciuta e le abitudini sembrano vivere di vita propria, senza essere sottoposte a vaglio critico.

I Santuari, che la denominazione stessa ammanta di una dimensione spirituale, si oppongono e abbattono il pensiero dilagante dando dignità propria ai più diseredati: da alcuni mesi, si sono visti riconoscere uno status che non li equipara più agli allevamenti, ma li definisce rifugi permanenti che esercitano un’attività di ricovero degli animali, un passo in avanti di cui però gli esperti hanno subito evidenziato i limiti riscontrabili in una insufficiente tutela degli animali stessi: come i fatti di questi giorni hanno drammaticamente confermato.

Gli animali ospitati nei Santuari sono i pochissimi individui salvati dalla smisurata moltitudine di esseri messi al mondo per essere fecondati artificialmente, obbligati alla innaturale separazione madre-figli; reclusi a vita in gabbie che li immobilizzano; incatenati; costretti ai viaggi della morte; alimentati a forza; frustati; spiumati; vivisezionati; cacciati; pescati; modificati; estinti…: tutto lungo il filo di un orrore e di un raccapriccio che termina solo con la morte; spesso nei macelli, sorta di inferno in terra per quei 65 miliardi di esseri viventi uccisi ogni anno che diventano molto più del doppio se si considerano gli abitanti delle acque, normalmente riconosciuti solo a peso: riusciamo infatti a sfruttare tormentare e uccidere ogni anno un numero di animali che corrisponde più o meno a venti volte il numero di noi umani: una terra trasformata in un immenso mattatoio all’interno del quale si applicano a norma di legge violenza, sopraffazione, crudeltà su esseri inermi.

I Santuari oltre al merito impagabile di mettere in salvo dall’orrore un numero per quanto infinitesimale di individui, hanno anche quello di animare una relazione con i dannati della terra, che abbatte il diritto del più forte come bussola di ogni comportamento e gli sostituisce la possibilità di una relazione in cui se superiorità umana esiste è solo per essere declinata come responsabilità: come succede con i bambini, la cui fragilità non giustifica abuso, ma pretende protezione.

A Sairano insieme alla vita di nove esseri viventi è stata violata la sacralità del luogo e quell’idea di mondo pacificato che sprofonda le sue radici nella convinzione che una buona società non può che escludere la violenza in tutte le sue forme verso tutti gli esseri senzienti: lo spaesamento, l’incredulità, lo sgomento che ne sono seguiti hanno ben ragione d’essere perché l’ingiustizia, se accettata, non può che propagarsi e l’attesa per quello che potrebbe presto tornare a succedere in qualunque altrove è tenuta a bada solo dalla tensione verso una rivolta che non ha più tempo di aspettare.

Mentre il cordoglio per Spino, Mercoledì, Crosta, Bartolomeo, Carolina è ancora dolore soffocante, il pensiero non può non andare a tutti quei milioni di altri maiali, polli, visoni, oche, tacchini… che, nel silenzio generale vengono regolarmente uccisi alle prime avvisaglie di una possibile epidemia: succede sempre, è successo più e più volte durante l’epidemia del Covid anche in Europa dove gli animali sono stati gasati, bruciati, sepolti vivi, perché le condizioni aberranti di allevamento li rendevano vittime di sempre nuove epidemie. Mai nelle alte sfere è stata preso in considerazione il dovere di preoccuparsi delle cause, da ricercare nell’esistenza stessa degli allevamenti: la soluzione è sempre stata lo sterminio degli animali, poi sostituiti con altri, nel silenzio assenso della stragrande maggioranza delle persone, prudentemente lasciate senza la necessaria informazione, e comunque non raramente preoccupate, più che degli stermini in atto, della salvaguardia delle proprie abitudini alimentari.

In tutto questo è forse venuto il momento anche per qualche riflessione sul ruolo dei veterinari e delle veterinarie, fondamentale nel decidere le soluzioni e i metodi che coinvolgono la vita e la morte degli animali, che sono l’oggetto della loro professione. Professione che, nella testa della gente, dovrebbe essere legata ad interventi di aiuto e di cura, ma nei fatti si esprime anche nell’avvallo e nel sostegno di uno status quo fatto di repressione e morte di quegli stessi individui. Il confine tra il prendersi cura e il condannare senza appello non è sottile, come non lo è la differenza tra ritenersi al servizio di animali bisognosi o invece della filiera della carne. Il pensiero va ad altre professioni d’aiuto, quali la psichiatria, che per parte della sua storia si è preoccupata non tanto di curare anime ferite e fragili, quanto piuttosto di fornire giustificazione per ridurre al silenzio ogni dissidenza al potere, ruolo da cui, nei regimi dittatoriali, non si è ancora del tutto affrancata: di certo va dato atto della profondissima riflessione al proprio interno che ne è derivata. Sarebbe auspicabile che anche i veterinari (come categoria, non certo i singoli che ogni giorno curano e salvano animali di ogni specie) chiarissero a chi proprio non riesce a concepirlo in che modo la cura degli animali e la ricerca del loro benessere possa coniugarsi con l’attività di certificare e sostenere come leciti gli interventi fatti su di loro in nome degli enormi interessi economici coinvolti.

Tante le cose che stanno succedendo: non ultima la drammatica diffusione di una forma di influenza aviaria persino nelle isole Galapagos, arcipelago del Pacifico, reso famoso dal lavoro di Chaarles Darwin, considerate scrigni preziosi di biodiversità del pianeta, terre dove condurre l’osservazione della natura incontaminata. Bene, anzi malissimo: la contaminazione le sta raggiungendo tra le enormi preoccupazioni degli studiosi: nei paesi che le fronteggiano, Ecuador ma anche, un po’ più a sud, Perù, già si è proceduto all’eliminazione di migliaia e migliaia di volatili, mentre Manuel Delogu, veterinario del Servizio Fauna Selvatica ed Esotica dell’Università di Bologna, dice che “il passaggio dagli allevamenti alle specie selvatiche, ci conferma una volta di più che finché permetteremo al virus di potersi sviluppare in grossi serbatoi come gli allevamenti intensivi gli renderemo le cose più semplici per rafforzarsi in natura”.

Oggi la distanza dalla soluzione delle smisurate sofferenze inflitte al mondo animale e della stessa sopravvivenza della nostra specie è siderale perché non può prescindere da ciò che non viene neppure preso in considerazione vale a dire l’eliminazione di ogni allevamento sulla faccia della terra. Nel nostro pur microscopico ruolo come singoli individui, non dimentichiamo la responsabilità che ci compete nel dare un contributo allo stato delle cose, in un senso o nell’altro, anche con le nostre quotidiane scelte, alimentari e non.


 

lunedì 19 giugno 2023

LA GUERRA DEI SOLDATI


La GUERRA dei SOLDATI

“La storia insegna, ma non ha scolari” diceva Antonio Gramsci.

Da qui il perpetuo rinnovarsi di ciò che è stato, quale che sia  il carico di orrore che si porta dietro, che, se fossimo gli animali razionali che ci vantiamo di essere e che invece non siamo, dovrebbe farcene stare lontano anni luce. Niente di più vero quando si tratta di guerre, che dovremmo ben conoscere essendo un ambito di considerazioni smisurate da parte degli storici, visto che accompagnano la specie umana da sempre e visto che, ora che siamo oltre otto miliardi di individui ad avere colonizzato la terra,  riusciamo a combatterne non una per volta, ma molte decine insieme, in ogni angolo, in ogni dove. Attualmente 59, secondo quanto riportato da  Acled, (Armed conflict location & event data project), organizzazione che si occupa di raccogliere dati per monitorare i conflitti. Di molte non conosciamo quasi nulla e a mala pena sappiamo individuare su una carta geografica i paesi in cui hanno luogo; al momento l’attenzione pubblica, magistralmente guidata da mass media tanto spesso ridotti a cassa di risonanza del potere, è veicolata quasi esclusivamente sull’Ucraina: ma basta e avanza per provare a cogliere quelli che sono i denominatori comuni di tutte le guerre. Anche se le informazioni arrivano spezzettate, incomplete, comunque parziali; anche se la verità è la prima vittima di ogni conflitto.

Per parlare di attualità della guerra, la più disumana tra tutte le attività umane, cercando di riempire i buchi della disinformazione, un grande aiuto lo offre ciò che sappiamo di quelle che hanno insanguinato il secolo scorso, e lo offre in tempi più recenti Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la letteratura, che delle conseguenze umane di tanti conflitti si è occupata: i suoi “Ragazzi di zinco” sono quelli che ritornano, chiusi nelle bare metalliche, dall’Afganistan, dove erano stati mandati a combattere tra il 1979 e il 1989 durante l’occupazione sovietica del paese: lei dice di tutto quello che si sarebbe voluto censurato, ma che le drammatiche testimonianze dei sopravvissuti e delle famiglie fanno emergere dalla volontà di oblio. 

Si comincia dal primo grande imbroglio, che ha luogo negli arruolamenti: nel passato a farla da padrona era la grande retorica del richiamo patriottico, per cui, dulce et decorum  est pro patria mori , sarebbe dolce  e bello morire per la patria, panzana convincente quando  la figura dell’eroe conservava un suo fascino, non ancora svilito nella dissacrata immagine che, secondo la demitizzata sintesi di Philippe Zimbardo,  lo vede storicamente identificabile non in un invidiabile irraggiungibile superuomo, ma in un maschio adulto assassino. Non manca poi la contemporanea criminalizzazione del nemico, incarnazione del male in tutte le sue poliedriche forme; si può andare oltre la mistificazione della realtà e inoltrarsi nei territori dell’inganno totale, dove sono menzogne plateali a nobilitare la partenza in armi, con la trasformazione del nemico in immagine satanica, icona da annientare per il bene dell’umanità: si andava in Afganistan per aiutare un popolo fratello a costruire strade, a distribuire concimi nei villaggi, mentre i medici militari sono lì ad assistere le partorienti afgane (S. Aleksievic). Si va in Ucraina a liberare la popolazione oppressa dalla dittatura nazista.

La propaganda dell’arruolamento spesso non ha successo per l’obiettiva difficoltà a convincere ragazzi giovanissimi, magari con la testa infilata nella musica o nell’attesa di un futuro allettante,  ad imbracciare armi e ad andare ad uccidere degli sconosciuti. O a farsi uccidere da loro. E quindi, oltre al reclutamento dei militari,  c’è quello obbligatorio dei carcerati,  quello apparentemente libero di coloro che pensano che almeno avranno uno stipendio con cui mantenere la famiglia; di quelli che non hanno nessuno che, se mai, li piangerà.

La discesa agli inferi della brutalità è rapidissima: la trasformazione anche di  un ragazzo che trasgrediva tutt’al più fumando spinelli in una macchina di morte è affare di un tempo breve: l’ingresso è in un territorio dove gli ordini tanto spesso insensati sono urlati a squarciagola, la regola è ubbidire senza ribattere, la fatica è disumana e prima sconosciuta; il terrore panico di sfiorare la morte, l’odore del sangue e della carne bruciata, le urla atroci del tuo amico che non riesce a morire nonostante le viscere siano uscite dal suo corpo, fanno di te un altro, un altro che fa agli altri tutto quello che spera non sia fatto a lui. Bene lo raccontano alcuni spaccati del film The search (sulla guerra dei russi in Cecenia, 1999) dove la giovane recluta è ad un passo dal cedere davanti all’orrore delle cose e al sadismo aggiuntivo e gratuito dei suoi compagni più anziani: offeso, umiliato, percosso, sconvolto nel contatto con il suicidio di un altro ragazzo che non ha retto, finisce per fare sue le regole devastanti che dominano il contesto e diventare come gli altri una macchina da guerra.

Sono corsi accelerati quelli alla violenza, che è virale nel propagarsi  come il peggiore dei virus. L’attuale guerra, anche se usa missili, bombe, razzi, non protegge dall’esperienza terrifica del contatto diretto: dalla prima guerra mondiale, che non a caso continua ad essere ricordata come la Grande Guerra per il numero smisurato di vittime, sono progressivamente arrivati i racconti e le immagini di corpi smembrati, fatti a pezzi, di ferite spaventose eppure incapaci di zittire il battito impazzito di un cuore che resiste; di visi che si sciolgono in maschere mostruose. Un’intera  nottata accasciato a fianco ad un compagno massacrato, guardando quella bocca serrata, a denti stretti, con i suoi occhi rivolti alla luna piena, guardando le sue mani gonfie che penetrano nel mio silenzio è esperienza apocalittica che solo qualche spirito di forza eccezionale riesce a sublimare scrivendo lettere piene d'amore e attaccandosi visceralmente alla vita. Per gli altri, per tutti gli altri, è devastazione fisica e morale, è annientamento, è esperienza mortifera e agghiacciante: sono in tanti a non reggere e a superare il confine fittizio tra sanità e follia.

Vale la pena ricordare che furono migliaia, nella prima guerra mondiale, i soldati che soffrirono drammatiche conseguenze mentali : allora non si aveva consapevolezza di quella che sarebbe poi divenuta una categoria ufficialmente diagnosticata, quel Disordine da Stress Post Traumatico (PTSD) che solo dal 1980 ha ufficialmente inquadrato le conseguenze di esposizioni a fatti traumatici: si era all’inizio della comprensione di quello che venne inizialmente definito shell shock, shock da esplosione, riferito ai soldati  che, pur in assenza di ferite fisiche, soffrivano di palpitazioni, si paralizzavano, erano invasi da tremori e tormentati da incubi e insonnia, perdevano la capacità di parlare. Si cominciavano ad inquadrare i sintomi come conseguenza dell’esposizione ad uno stress prolungato e a ricoverare chi ne soffriva. Ma ciò non impediva che vi fosse nei loro confronti il sospetto di simulazioni che bisognava smascherare, sulla base di accuse di codardia e tradimento, e lo si faceva con metodi spaventosi a base di scosse elettriche che aggiungevano terrore al terrore,  allo scopo di riuscire a  rimandarli al fronte quanto prima. E si sta parlando di decine di migliaia di soldati, molti dei quali a fine conflitto finirono chiusi nei manicomi, spesso oggetto di scherno e pregiudizio, accusati di scarsa virilità: l’espressione scemi di guerra divenne un modo comune per riferirsi  a quel che restava di loro, povere ombre umiliate e per sempre sconnesse dalla realtà. Una realtà rimossa perchè non fa onore  a chi la gestì, e perchè si tratta di un implicito atto di accusa a tutte le guerre, al loro potere generatore di sofferenze mai del tutto riconosciute. Poco da nascondere perchè il fenomeno si è ripresentato con i reduci del Vietnam e non ha potuto essere ignorato nel corso delle altre guerre (Afganistan, Irak, rilevato tra i soldati NATO) quando c’è stato qualcuno ad occuparsi anche dei soldati, oltre chè delle centinaia di metri di terra conquistati o persi. Oltre un secolo dopo, arrivano notizie anche dall’Ucraina, dove, nella regione di Kharkiv, sta funzionando un centro di riabilitazione dei militari, che vengono diagnosticati come affetti da disturbi conseguenti al trauma: oltre al PTSD con i suoi scatti d’ira, i disturbi del sonno, i flashbacks e  tutti i sintomi più diffusi, anche sensi di colpa per avere ucciso: si può in questo caso meglio parlare del trauma del perpetratore (PITS, Perpetration Induced Traumatic Stress Disorder)  vale a dire di chi non ha subito, ma inflitto morte e distruzione. Si tratta di una patologia di più recente definizione che apre ulteriori spiragli di conoscenza sulla psiche umana, e racconta di come perpetrare il male può, per alcuni o per molti, avere conseguenze traumatiche quanto il subirlo. A ciò si somma la sindrome del sopravvissuto: vale a dire un senso di colpa per essere vivo mentre altri, i compagni, gli amici, hanno fatto una morte spesso spaventosa e sono talmente tanti quelli visti morire che l’essere ancora vivo viene vissuto come un’imperdonabile colpa:  i pensieri suicidari tentano di pagare il conto. Un rovesciamento della dinamica dei tempi di pace, quando perchè proprio io è la domanda senza risposta ad ogni disgrazia che ci tocca subire; in guerra ad ogni fortuna immeritata. Troppo bello sarebbe poter pensare che il centro di Kharkiv abbia a cuore il benessere dei soldati, meritevoli di un accudimento e un sostegno che li ripaghino delle terrificanti esperienze attraversate: non illudiamoci, perchè lo scopo è recuperare il prima possibile i soldati per rimandarli al fronte. Per morire solo un  po’ più sani. Una logica terrifica che ricorda quella dei cacciatori che si preoccupano della salute degli animali per farli giungere vivi e possibilmente sani fino all’apertura della stagione di caccia: per ucciderli di persona.

Un pensiero inconsolabile va ai soldati di tutte le guerre di tutti i tempi e luoghi che certamente hanno vissuto sofferenze analoghe: semplicemente l’assenza di una conoscenza che riconoscesse diritto di cittadinanza alla loro sofferenza ne ha impedito il riconoscimento: solo a secoli o decenni di distanza ne possiamo prendere atto grazie anche alle magistrali ricostruzioni di una mirabile filmografia che con film quali  Il gladiatore o Salvate il soldato Rayan, ha mostrato lo sconvolgimento degli attacchi al nemico e il terrore panico di quei morituri che della morte avevano terrore. Ma tant’è: a decretare il successo di quei film fu molto di più lo spirto guerriero che li animava che non le denunce che contenevano.

Ancora qualche flash dall’Ucraina: l’indifferenza dei capi, civili e militari, alla vita e alla morte dei soldati (e dei civili) trasuda da ogni parola: ci saranno molti morti, dichiarazione che spesso preannuncia un’imminente attacco, è una specie di mantra che dovrebbe sdoganare l’ineluttabilità di quello che si va a compiere ed è invece disinteresse per le vite altrui; a volte si dovrebbe meglio parlare di spinte a suicidi di massa, perchè i soldati vengono mandati allo scoperto e subito falcidiati dal nemico. Sapendolo prima. Ancora una volta, tragici dejà vu: è bene ricordare che la firma dell’armistizio che segnava la fine della prima guerra mondiale fu firmato alle 5 del mattino dell’11 novembre 1918 per andare in vigore alle 11 dello stesso giorno: e nondimeno i soldati alleati furono costretti a compiere tutte le azioni di attacco contro i tedeschi già programmate. Azioni che provocarono in quelle 6 ore 2700 morti  e oltre 8200 feriti: ad armistizio firmato!! Senza l’ombra del minimo senso. L’ultimo americano della Grande guerra venne ucciso alle 10:59, un minuto prima che al massacro mondiale fosse ufficialmente posta la parola fine. Ma tanto che non ci fosse niente di nuovo sul fronte occidentale era la narrazione ufficiale.  Insomma lo spregio degli alti comandi della vita dei singoli soldati è spesso la cifra di ogni guerra: pedine reificate, al loro servizio, utili a celebrare a cose finite la  retorica del patriottismo e del coraggio,  sdebitandosi con qualche medaglia al valore, da appuntare sul petto di madri o figlie o vedove,  nel corso di manifestazioni che continueranno a celebrare la magnificenza del combattere. E dell’altrui morire. La provenienza della maggioranza dei soldati dalle fasce più diseredate della popolazione è garanzia  che non ci saranno conseguenze: solo un dolore sordo delle famiglie, di cui non ci si farà carico. Forse molto ci sarebbe da dire anche sul concetto di figlicidio, sulle spinte inconsce che inducono a procurare morte ai giovani da parte di chi, nelle alte sfere decisioniste,  giovane non è: considerazioni che, anni fa, hanno indotto lo psicanalista Emanuele Bonasia alla provocatoria proposta ai suoi colleghi di un documento che preveda che nel corso di guerre, dichiarate sempre da ultracinquantenni, siano arruolabili solo le persone  tra i 50 e gli 80 anni e che  il Capo dello Stato, il Primo Ministro e il Ministro della Difesa siano tenuti a partecipare materialmente in prima linea alle operazioni belliche. E’ fortemente probabile che molti massacri non sarebbero sdoganati con tanta sicura tranquillità.

La guerra in corso in Ucraina non solo è incommensurabile tragedia odierna, soprattutto per gli ultimi, per gli indifesi, per gli offesi di sempre:  sono anche quelli che sopravviveranno, sono anche i bambini non ancora nati ad esserne sicure vittime. Le vite future sono  già messa a repentaglio da quel tappeto di mine in cui il territorio è stato trasformato, che sono un’ipoteca sul futuro, perchè continueranno ad esplodere anche in tempo di pace, quando mai verrà, e feriranno, mutileranno, sfregeranno altre vite,  altre infanzie. Mentre il mondo occidentale nel suo cinismo non si vergogna di  discutere già sui termini della ricostruzione di territori devastati,  non si intravedono preoccupazioni per la devastazione psichica di chi sopravviverà, per i loro figli e nipoti, per le prossime generazioni, che continueranno a vivere di sponda i traumi delle loro famiglie: perchè il trauma è anche quello intergenerazionale, che si propaga da una generazione all’altra, colpendo l’integrità psichica nel tempo proprio come fanno le mine con quella fisica. 

 Il corso della storia è stato puntellato da figure solitarie di pacifisti, che hanno testardamente difeso la necessità ineludibile della pace anche in mezzo al proliferare di guerrafondai. A partire dagli anni ’70 del secolo scorso queste idee elitarie si sono propagate vorticosamente tra le giovani generazioni ed hanno portato, in alcuni paesi tra cui il nostro, ad un rifiuto viscerale della guerra, che non aveva nemmeno più bisogno di esprimersi perchè entrato a radicarsi nel DNA di ognuno come parte integrante del nostro esistere. Quanto questo radicamento riuscirà a resistere  ai fatti attuali è da stabilire: l’Italia non ha mai smesso di produrre armi ed è quindi ansiosa di venderle, ricompaiono proposte governative volte al ripristino del servizio militare se pure facoltativo, le immagini delle indicibili crudeltà quotidiane impattano in tante menti creando assuefazione ma talvolta desiderio di emulazione, una propaganda ossessiva che mistifica la volontà di un processo di pace come posizione putiniana e quindi la svilisce e la degrada, il linguaggio bellico sdoganato dai giornali, delineano un percorso lineare verso un nuovo bellicismo, dalle conseguenze spaventose. Abbiamo gli anticorpi per innescare la retromarcia, prima che sia troppo tardi? Ci chiediamo ancora, come molti decenni fa Bob Dylan incitava i giovani a fare, quante volte dovranno volare le palle di cannone prima che vengano bandite per sempre? E per quanto tempo possa un uomo girare la sua testa fingendo di non vedere? E quanti morti ci dovranno essere affinché lui sappia che troppa gente è morta? A distanza di mezzo secolo, amici miei,   la risposta che nessuno è riuscito a dare sta ancora volando nel vento.

 

 L'articolo è stato pubblicato su Comune-info il 12 giugno 2023, al link che segue: 

  https://comune-info.net/la-guerra-dei-soldati/