mercoledì 19 aprile 2023

QUELLA COLT SEMPRE CARICA

 

 Annamaria Manzoni

16 Aprile 2023

Cosa ci fanno gli orsi nei boschi trentini? Ci sono sempre stati? In realtà la loro presenza è ricominciata nel 1999, quando il primo di loro fu importato dalla Slovenia: da allora, con soldi Ue, decine di orsi sono stati anestetizzati, catturati, deportati per rendere più affascinanti montagne già incantevoli. Quel progetto non è stato accompagnato da investimenti in cultura e informazione sul territorio. Cosa è accaduto in questi anni? Tante cose: Maurizio Fugatti, ad esempio, nel 2011 ammise di non riuscire proprio a capire la ragione dell’intervento dei NAS, arrivati a rovinare il banchetto a base di carne d’orso (sloveno) organizzato per una festa dei leghisti; oggi, come presidente della Regione Trentino Alto-Adige, ha già decretato la condanna capitale all’orsa che ha provocato la morte di Andrea Papi, preannunciando anche l’eliminazione di altri 50, ma forse 60, ma, secondo l’ultima conferenza, meglio 70 “esemplari”, proprio come nei film western, quando il forestiero non gradito infastidiva e dalla fondina si estraeva la colt, sempre carica. È accaduto anche che migliaia di cacciatori abbiano provocato in ogni stagione decine di vittime umane. Infine, è accaduto che si è smesso di attribuire agli orsi nomi di battesimo, meglio designarli con sigle, in fondo sono soltanto oggetti

La drammatica morte di Andrea Papi in Trentino, ad opera di un orso, desta lo sgomento e il grande cordoglio che la perdita di una giovane vita porta con sé: il dolore, lungi dall’ostacolare, esige la giustizia che può solo derivare dall’analisi delle situazioni che l’hanno determinata. È quindi necessario impedire che questa morte divenga il lasciapassare per le decisioni della Regione Trentino Alto Adige, presidente Maurizio Fugatti, che, con la rapidità dell’azione che precede il pensiero, hanno decretato la condanna capitale all’orso assassino (in realtà la diciassettenne orsa JJ4) e a due suoi conspecifici “problematici”, preannunciando altresì l’eliminazione di altri 50, ma forse anche 60, ma, secondo l’ultima conferenza, meglio 70 “esemplari”. La condanna (che sta mobilitando le forti proteste delle associazioni animaliste ed è al momento sospesa dal TAR, su esposto della LAV) è stata comminata con una rapidità che può derivare solo dalla convinzione che la scia di paura e di emotività sollevata dall’episodio possa travolgere e cancellare quel genere di interventi critici, vale a dire ragionati, che già nel passato avevano ostacolato analoghe decisioni.

Per altro sono gli stessi genitori di Andrea, pur nel mezzo della dolorosissima tempesta emotiva che li sta travolgendo, a esigere verità e ad opporsi allo scaricabarile sull’animale, chiedendo a gran voce giustizia, vale a dire assunzione di responsabilità da parte di chi responsabile è.

La logica di fondo di quanto sta succedendo è quella ben praticata secondo cui ogni e qualsivoglia animale deve essere considerato al servizio dei desiderata di noi umani, autorizzati a disfarcene nel momento stesso in cui non risultano più rispondenti alle nostre aspettative. Quando questo succede, la soluzione è quella che dilagava nei vecchi film western: quando il forestiero non gradito infastidiva, dalla fondina si estraeva la colt, sempre carica perché in questo mondo malvagio è bene non distrarsi mai, e si sparava, eliminando il problema insieme al suo portatore: il diritto era ed è quello del più forte, universalmente riconosciuto in territori dove le idee sono forse poche, ma ci si è profondamente affezionati.

Per capire cosa ci facciano gli orsi nei boschi trentini, va ricordato che la loro presenza data dal 1999, quando il primo di loro ci fu importato dalla Slovenia, in omaggio al progetto LIFE URSUS. Masun (questo il suo nome) fu seguito da tanti altri, come lui anestetizzati, catturati, trasportati a vivacizzare e colorire con la propria grande mole il paesaggio montano per altro già universalmente considerato incantevole: progetto antropocentrico che ha visto splendidi animali usati come oggetti di “ripopolamento”, da spostare in cambio di generosi contributi economici dell’unione europea, nella evidente convinzione che avrebbero abdicato ai loro istinti riproduttivi, quelli che hanno oggi portato il loro numero a un centinaio, e alle loro caratteristiche di specie, comportandosi come ospiti garbati, attenti a non infastidire quegli umani che tanto gioiosamente avevano decretato la loro immigrazione obbligatoria.

Nel corso degli anni a seguire, alcuni casi sono saliti alla ribalta della cronaca: ci fu l’orso Bruno, deliberatamente ucciso (era il 2006), perché aveva avuto l’inaccettabile idea di sconfinare in Baviera dove si era reso responsabile dell’uccisione di capi di bestiame, togliendo così il monopolio agli umani, gelosissimi della loro esclusiva. Nel 2014 fu Daniza, che, per avere cercato, come ogni buona madre umana o nonumana, di difendere i suoi cuccioli, fu destinata ad una cattura, eseguita con tanta poca perizia da causarne la morte. Di altri orsi si è poi deciso l’imprigionamento a seguito di minacce ad umani, benché mai davvero provate. Nel frattempo si era già prudentemente smesso di attribuire loro nomi di battesimo, facilmente memorizzabili e capaci di risvegliarne, insieme al ricordo, anche le vicende dei grandi soprusi patiti, preferendo designarli con sigle neutre e burocratiche (M62, MJ5…): il nome designa un individuo, una sigla soltanto un oggetto. Scelta rivelatasi indovinata visto l’evolversi delle situazioni, che sono andate prendendo forma ogni qual volta un orso ha seguito le proprie inclinazioni e i propri istinti, anziché adattarsi diligentemente alla tipologia di orso Yoghy, gigante buono e inoffensivo interessato al massimo ai cestini da pic nic dei turisti nel fantastico parco di Jellystone: questo era forse nelle previsioni delle autorità trentine. F43 è stata uccisa durante una cattura ancora una volta eseguita malamente; KJ2 abbattuto perché colpevole di avere attaccato e lievemente ferito un settantenne e non fa niente se il cane di quest’ultimo lo aveva probabilmente spaventato; il giovane maschio M57 spostato in un parco zoo in Ungheria….

La tragica morte del giovane runner è bene rivisitata dagli esperti in un quadro di imperdonabile ignoranza e superficialità delle autorità: Walter Ferrazza, presidente del Parco Adamello Brenta, denuncia che il progetto Life Ursus esigeva, ma non ha avuto, investimenti in cultura, informazione e comunicazione; le autorità si sono invece limitate ad opporre gli orsi alle persone, sostenendo il distacco della nostra specie dal resto del mondo animale, atteggiamento tanto ingiusto quanto perdente. Lo zoologo Bruno Cignini richiama l’indole solitaria e schiva degli orsi, il cui ultimo desiderio sarebbe andare alla ricerca di contatti con umani: indole talmente conosciuta che orso è per antonomasia la persona che convintamente rifugge la compagnia dei propri simili, prediligendovi una orgogliosa solitudine.

Purtroppo all’approccio culturale e olistico degli studiosi continua ad opporsi quello del presidente Fugatti, che, tolti i freni inibitori all’espressione della sua insofferenza nei confronti del mondo animale, afferma “Non mi preoccupa il benessere degli animali e come verranno catturati. E non mi preoccupa neanche se i nostri organi dovessero sbagliare animale nelle azioni che fanno per identificare il soggetto”; “Abbattiamo questi tre qua” che poi ce ne saranno altri di cui gli animalisti affondati nei salotti televisivi potranno occuparsi. Insomma se ne frega proprio della vita e della morte degli animali, e rilascia dichiarazioni che risultano pleonastiche alla luce dei suoi trascorsi: era il 2011 quando ammise di non riuscire proprio a capire la ragione dell’intervento di quei pedanti dei NAS, arrivati a rovinare il banchetto a base di carne d’orso (sloveno, se può interessare) organizzato per una festa dei leghisti, i quali, frustrati nell’appagamento dei loro appetiti (alimentari) più intensi, minacciarono (ma non attuarono) niente meno che l’uscita dal governo.

La condanna a morte di JJ4, che a detta degli esperti non sarebbe risolutiva, e a detta di chi aborre ogni sopruso appare ingiusta, ha il sapore di una reazione punitiva, che implicitamente riconosce all’animale, dietro l’uccisione di un uomo, la capacità di intendere e volere e quindi la responsabilità dei propri atti, da giudicare codice penale alla mano, un codice penale che contempla la pena di morte. Una riedizione di quanto avveniva nel Medio Evo quando gli animali, nel caso in cui avessero provocato la morte di qualcuno, venivano portati nei tribunali, sul banco degli imputati, esattamente come le persone: così maiali, cavalli, asini ed altri ancora subivano condanne crudelissime, addirittura precedute da supplizi, esattamente come i loro coimputati umani. Alla fine bisognerà pur decidere: nella nostra testa e nei nostri comportamenti, gli animali sono quegli esseri a noi assoggettabili perché inferiori, incapaci di pensiero, pericolosi e ipodotati; o invece esseri superiori dotati di etica, di morale, in grado di valutare la gravità delle proprie azioni e quindi conseguentemente punibili? Al momento la confusione sembra regnare e dirigere un comodo ondivagare tra opposte convinzioni, a secondo della convenienza.

Forse lo stesso quesito andrebbe posto a proposito dei cacciatori, i quali nei luoghi della natura provocano in ogni stagione decine di vittime umane – a fronte della drammatica morte di Andrea Papi ad opera di un orso, unica in 24 anni, 354 sono le vittime umane dei cacciatori dal 2007 ad oggi; quelle nonumane infinite – senza che neppure un sussulto scuota le giunte regionali, che si comportano come davanti all’imponderabile da accettare, così come si fa con i fenomeni naturali, valanghe, inondazioni, smottamenti e affini. In fondo i cacciatori stessi dovrebbero sentirsi offesi nell’essere equiparati a disgrazie naturali, tanto che nel loro caso non si invocano provvedimenti seri: basterebbe solo un divieto di caccia. Pensiero stupendo, ma irricevibile dalla propensione macha di una minoranza di persone molto piccola, ma agguerrita e potente; incompatibile poi con gli interessi economici di tante lobby amiche.

L’atteggiamento nei confronti degli orsi è per altro la fotocopia di quello che definisce il nostro rapporto con tante altre specie.

Si pensi alle nutrie: importate dal Sud America per fare pellicce, divenute inutili quando la moda non le prese più in considerazione, rilasciate in natura come animali protetti. Quando si prese atto che potevano recare problemi scavando e rodendo sulle rive dei corsi d’acqua, la soluzione fu quella di promulgare una legge che da un giorno all’altro (era l’11 agosto 2014) le trasformò da specie protetta a specie nociva: da quel momento lo sterminio con ogni mezzo è non solo permesso, ma incentivato con premi in denaro per ogni cadavere presentato dai sempre solertissimi cacciatori, affiancati da nuovi volontari, giustizieri del giorno e della notte dell’animaletto designato dalla legge, con una acrobatica virata mentale a 180 gradi, pericoloso devastatore del territorio. Il tutto in sprezzo totale delle diverse strategie offerte dagli esperti.

E si può parlare dei cinghiali, costretti a entrare nelle città perché privati dei loro luoghi di vita e attratti da una gestione delle immondizie che dovrebbe solo far vergognare le amministrazioni: unica soluzione prodotta, la loro uccisione.

Si potrebbe continuare con il castorino euroasiatico, appena ricomparso sul nostro territorio, ma per il quale il ministro dell’ambiente si è già prontamente mobilitato invocando un piano urgente di rimozione: rimozione? “Chiamare le cose con il loro nome è il primo atto rivoluzionario” diceva Rosa Luxemburg. Allora forse meglio sterminio.

E via dicendo.

Insomma la vicenda degli orsi in Trentino porta prepotentemente alla ribalta il nostro rapporto con gli altri animali, rapporto in cui esplode tutto il nostro antropocentrismo: anche quando si tratta di animali che ci sono cari perché custodiscono la fantasia di un’amicizia tra noi e loro sognata nel nostro immaginario infantile, ma sempre boicottata nel nostro delirio adulto di onnipotenza, lo sono solo fino al punto in cui non ci arrecano disturbo. Se lo fanno, allora l’eliminazione è la nostra risposta.

Dal momento che gli animali nonumani uccisi ogni anno per alimentazione, caccia, pesca, vivisezione, quelli imprigionati, modificati, estinti si contano in centinaia di miliardi, risulta per altro stupefacente che la vita di una o pochi orsi riesca a mobilitare l’enorme attenzione in atto. Se ci si interroga su questo apparente paradosso, la risposta si trova forse nel valore simbolico di JJ4 e degli altri: sono lì a parlare della natura, dei suoi ritmi, della vita che vi pulsa dentro, scandita dal tempo e dalle stagioni. Difficile tifare per l’altra parte, quella umana, marcata da strabordante arroganza nello spadroneggiarli quei ritmi.

Nella difesa della grande mole di JJ4 pulsa in questo momento almeno un briciolo della nostra capacità di restare umani. “Mi rivolto, dunque siamo” diceva Camus: facciamolo contro il sopruso, nella difesa di tutti gli offesi, gli umiliati, i traditi che muoiono di indifferenza e di ingiustizia.


 

sabato 25 marzo 2023

Accumulare fino a soffocare

Il nostro disturbo da accumulo

Annamaria Manzoni
Pubblicato su Comune-info il 25 Marzo 2023

Alcuni giorni fa a Foggia un uomo scomparso da mesi è stato ritrovato cadavere in casa propria, sommerso da una cumulo inimmaginabile di oggetti e spazzatura. In questo articolo Annamaria Manzoni racconta che non si tratta affatto di un caso isolato e spiega come che chi è affetto dal cosiddetto “disturbo di accumulo” subisce una compulsione irrefrenabile a conservare ogni cosa e anzi ad acquisirne sempre altre. Un problema sociale dunque, non solo una bizzarra notizia di cronaca, di cui si sa ancora poco e di cui tutti dovremmo occuparci, dal momento che colpisce sempre più persone, uomini e donne di qualsiasi classe sociale. Di certo si tratta di persone che per lo più si trovano a vivere senza legami sociali: viene in mente un libro straordinario, L’era degli scarti, di Marco Armiero, secondo il quale l’epoca del “Wasteocene” che viviamo non solo produce un numero infinito di rifiuti e di scarti umani, ma cerca anche di soffocare qualsiasi percorso, fatto prima di tutto di condivisione e cura, che metta in discussione quel regime e le sue conseguenze

Ci sono realtà che ignoriamo totalmente fino a quando non ci vengono letteralmente portate in casa dai media, e a quel punto ci lasciano interdetti. È successo ancora in questi giorni, quando a Foggia un uomo scomparso da mesi è stato ritrovato cadavere in casa propria, sommerso da una cumulo inimmaginabile di oggetti, cose, spazzatura.

In breve: il signore in questione, un omone grande e grosso, non più giovane, che viveva da solo e deambulava con l’aiuto di stampelle, non si era più visto in circolazione. I vicini di casa, che avevano potuto guardare nel suo appartamento, si erano trovati davanti alla scena sconcertante di oggetti, cibo e rifiuti di ogni tipo, che congestionavano ogni spazio disponibile. L’evidentissimo degrado, la sporcizia, gli odori, sommandosi alla forte preoccupazione per la scomparsa dell’uomo, li avevano dapprima indotti a chiedere l’intervento delle autorità locali, amministrative e sanitarie, che si erano limitate a un sopralluogo e niente più. Si erano quindi rivolti alla trasmissione Chi l’ha visto, che, la sera stessa della messa in onda dei filmati nell’abitazione, aveva compiuto il miracolo di fare materializzare sul luogo i responsabili locali. A distanza di poche settimane, l’attuazione dello sgombero aveva portato al temuto, ma prevedibile ritrovamento del cadavere dell’uomo sotto gli strati di “cose”.

Superfluo qualsiasi discorso su quali siano le leve che hanno il potere magico di risvegliare ai loro compiti sonnolenti poteri pubblici, perché sono scandalosamente evidenti. Interessante invece mettere a fuoco quella forma di malessere diffuso, ma poco conosciuto, che può comportare risvolti o epiloghi tragici come quello descritto. Si, perché non si tratta affatto di un caso isolato: e tra i tanti vanta (si fa per dire) il caso divenuto famoso dei fratelli Collyer, Homer Lusk e Langley, che nel 1947 furono letteralmente dissepolti, ormai cadaveri, da oltre 140 tonnellate di cose e spazzatura che riempivano fino al soffitto i tre piani dello stabile nella Fifth Avenue a New York, in cui vivevano asseragliati da oltre 10 anni. Anche in quel caso, proprio come in quello di Foggia, fu un vicino ad allertare la polizia, spinto dall’odore insopportabile proveniente dall’appartamento.

Quello di cui si sta parlando è il Disturbo da Accumulo, precedentemente noto come Disposofobia, vale a dire, nel suo significato letterale, paura di buttare; ma anche Sindrome fratelli Collyer, in omaggio al poco apprezzabile precedente: una patologia che dal 20131 è stata riconosciuta come a sé stante, riferita alla sfera dei Disturbi ossessivo-compulsivi, che riguarda fette non indifferenti di popolazione in ogni parte del mondo, Italia inclusa, dove le percentuali di persone che ne sono affette vengono stimate tra il 2 e il 5%, molto più ampie quindi di quanto si tenderebbe a pensare.

Vale la pena chiarire che, quando si parla di ossessioni ci si riferisce a pensieri, immagini, impulsi ricorrenti, fastidiosi, indesiderati; mentre le compulsioni sono la conseguente risposta a cui non ci si può sottrarre. Per rendere tutto più comprensibile, si può pensare a un’ossessione piuttosto diffusa, come è quella alla pulizia, che può originare comportamenti compulsivi quali il lavarsi le mani fino al punto da provocarsi escoriazioni o da invadere molte ore nel corso della giornata. È appunto a questa categoria che è correlato il Disturbo da Accumulo: chi ne è affetto subisce una compulsione irrefrenabile a conservare ogni cosa e anzi ad acquisirne sempre altre. Si può trattare di vestiti, giornali, oggetti di ogni tipo, cibi, ma anche spazzatura, che non viene gettata via, ma può anche essere raccolta in discarica per essere portata a casa. Qualsiasi spazio vitale è invaso, non solo eventuali soffitte, cantine o box, ma ogni locale dell’abitazione, cucina, bagno, camera da letto, dove tutto viene impilato, rendendo inservibile il letto dove non si può più dormire, il bagno che non è più utilizzabile al suo scopo, il tavolo su cui non resta un centimetro quadrato su cui appoggiare alcunché. Solo stretti cunicoli larghi al massimo 30 centimetri, sentieri da capra secondo suggestive definizioni di studiosi della materia, consentono il passaggio da un punto all’altro della casa.

Ovviamente nulla di quanto accumulato può, in tali condizioni, rivestire un’utilità, perché anzi contribuisce a creare un ambiente invivibile, soffocante, fortemente malsano, iatrogeno, dalle conseguenze anche psicologiche devastanti. Si sta parlando per l’appunto di una condizione patologica, di un disturbo mentale che vede i protagonisti distaccarsi in modo progressivo e pericoloso da forme elementari di adattamento, tanto da non percepire l’insensatezza del proprio comportamento. Spesso vivono da soli ed evitano di fare entrare altri nel loro mondo, temendone il giudizio fortemente critico; nei casi in cui la casa sia condivisa con familiari è inevitabile un conflitto che può assumere dimensioni drammatiche. È stata ancora la trasmissione Chi l’ha visto ad entrare nella casa sommersa di giornali e oggetti di qualsivoglia genere di un signore, in provincia di Pavia, che aveva segnalato la scomparsa della moglie, ritrovata morta mesi dopo: le notizie diffuse hanno fatto riferimento a un suicidio, a cui appunto l’intollerabilità delle condizioni di vita pare non siano state estranee. Anche in questo caso l’intervento di “esterni” è stato casuale, non in risposta a una richiesta di aiuto dell’interessato, che considerava sensato ciò che gli altri giudicavano insostenibile: come tutti gli accumulatori non aveva cercato aiuto ritenendo non ce ne fosse la necessità; che la sua casa fosse chiusa agli estranei era poi una conseguenza inevitabile, uno sbarramento difensivo rispetto agli inevitabili giudizi e critiche, vissute come dettate da inimicizia.

Ma cosa può spingere le persone a comportamenti tanto irrazionali e autolesionisti? Dato il fatto che spesso si sottraggano a trattamenti e prese in carico, e quindi in assenza di report precisi, l’inquadramento nosografico è ancora in parte da sviscerare.

In ogni caso le spiegazioni addotte dai diretti interessanti aprono dei varchi di comprensione: il tengo tutto (azzeccatissimo titolo della versione italiana del libro di Frost e Steketee2) si connette all’idea che, chissà, magari questa cosa un giorno mi potrebbe servire: si parla appunto di cose nonsisamai. E alzi la mano chi di noi “sani di mente” (quante virgolette sono necessarie per sdoganare il concetto!) non ha usato, qualche volta o spesso, questa categoria per mettere da parte qualcosa, magari di perfettamente inutile, che, il giorno fatidico in cui il bisogno si è poi inopinatamente presentato, non è neppure andato a cercare perché ne aveva scordato persino l’esistenza, o, nella migliore delle ipotesi, non ricordava proprio dove era stato messo. Insomma una sorta di pulsione a conservare, a non buttare, perché tenere tutto fa sentire al sicuro, specularmente alla sensazione di angoscia che provoca il disfarsene.

Un’altra giustificazione addotta è riferita al valore affettivo dell’oggetto, perché è appartenuto a, o è semplicemente connesso al ricordo di, qualcuno di importante: insomma gli si attribuisce il potere magico di mantenere una presenza, di opporsi al suo svanire mentre il buttare via corrisponderebbe a una forma di disprezzo, di menefreghismo, foriero di sensi di colpa. E anche in questo caso è una scommessa vinta ritenere che siamo in tanti, forse tantissimi, a riconoscerci in questa dinamica che affida ad un gesto magico la sopravvivenza di un legame o di una situazione, ammantati di sacralità, da preservare dalle nebbie dell’oblio.

O ancora un giornale, un libro assicurano la conservazione di una memoria che non si sopporta possa andare perduta e affidarla alla propria mente è un azzardo da non compiere. Sono spiegazioni che testimoniano di un attaccamento a brandelli della propria storia carichi di nostalgia, di desiderio, di impotenza che possono smuovere a reazioni emotive che parlano anche di noi, di tutti. Perché normalità e patologia a volte si sfiorano, si toccano, si confondono e abbattono i muri fittizi che, ancora una volta, sono stati eretti tra noi e loro, tra quelli sani e quelli che hanno lo stigma della malattia mentale.

Ovviamente e inevitabilmente c’è anche molto altro: perché è vero che è possibile comprendere la dinamica per cui gli accumulatori attribuiscono ad ogni singolo oggetto un forte valore identitario e sono quindi invasi dall’angoscia alla prospettiva di separarsene; è vero che l’essere può essere confuso con l’avere e questo con l’accumulare; è vero che il passaggio tra il possedere cose e l’esserne posseduto è tutt’altro che difficile. Ma quando il possesso riguarda un avanzo di cibo, un po’ di spazzatura, qualcosa che nemmeno ha fatto parte della propria vita, ma è semplicemente stato raccattato per strada e costituisce un elemento di enorme progressivo pericolo, diventa inevitabile interrogare le competenze psichiatriche.

Gli studi sono tuttora in corso e portano a identificare alcune caratteristiche che sarebbero comuni agli accumulatori compulsivi: tra queste l’insicurezza come tratto temperamentale, che tutti i rituali dell’accumulo cercano di tenere a bada. Di sicuro è rilevabile la mancanza di insight, vale a dire di consapevolezza: è proprio questa assenza ad impedire di cogliere la gravità della situazione e a vivere come attacchi alla propria identità gli interventi esterni tesi a rimarcarne la pericolosità igienica, esistenziale, psicologica dei comportamenti. Anche l’empatia è carente perché la difficoltà a vedere la realtà dal punto di vista dell’altro è fortemente compromessa. Tutto questo non basta ancora a dare ragione del disturbo, nella cui eziologia si possono ritrovare lesioni cerebrali, cause genetiche, neurofisiologiche, aggravate da esperienze esistenziali forse segnate da traumi o abusi.

Non è da trascurare il fatto che l’accumulo seriale possa avere come oggetti anche animali, soprattutto ma non solo cani e gatti: si parla in questi casi di Animal hoarding, o più semplicemente di Disturbo dell’Arca di Noè. La situazione per alcuni versi simile a quella dell’accumulo di oggetti, si aggrava enormemente perché se le cose restano lì, gli animali richiedono invece di essere accuditi, nutriti, curati: le caratteristiche degli accumulatori non lo permettono e la situazione si aggrava con nuove vittime: dell’incuria, del degrado, del maltrattamento non intenzionale, ma reale. Perché gli animali non possono fare altro che ammalarsi, soffrire infezioni, non poter contare su cure adeguate; sono costretti a vivere in spazi angusti, privati della possibilità di movimento, di esprimere le esigenze tipiche della propria specie. La mancanza di insight ed empatia, di cui si è parlato, la fa da padrona: i responsabili si considerano amanti e salvatori di quegli animali, sono incapaci di rendersi conto della insensatezza della vita a cui li sottopongono e spesso ne provocano, pur se non intenzionalmente, la morte.

Insomma, si tratta di disturbi ben poco conosciuti, anche se divenuti argomento di trasmissioni su canali quali Real Time; riguardano sia uomini che donne, e possono investire ogni classe sociale.

Come tanti, tantissimi fenomeni con cui conviviamo senza saperne nulla, il riconoscimento e la conoscenza sono passi iniziali fondamentali per non derubricare l’incomprensibile a fenomeno da guardare con disprezzo. Si è a volte davanti ad esistenze disperate per il grado di sofferenza che comportano e per la prevedibile esclusione sociale: la solitudine affettiva e sociale, solitudine che è condizione umana tra le più dolorose, non può che aggravare uno stato di cose drammatico.

Riportano i giornali che tra gli accumulatori seriali va annoverato Andy Wharol, genio della pop art, che avrebbe messo da parte 500.000 cose raccolte in contenitori chiamati Capsule del tempo. Una malattia mentale, quindi, che può convivere con quella che è ritenuta una genialità fuori dal comune; una malattia mentale che, quando affligge personaggi di primo piano allora non provoca riprovazione; e che sostituendo con le capsule del tempo gli spazi infrequentabili delle case dei comuni mortali nobilita un accumulo compulsivo nel sogno matto di ingabbiare il tempo.


1 Anno in cui fu inserito come disturbo a sé stante nel DSM-5, Manuale dei Disturbi Mentali, edito in Italia da Raffaello Cortina Editore

2 L’edizione originale aveva come titolo Compulsive hoarding and the meaning of things, by Randy O. Frost e Gail Steketee, 2011 Mariner Books


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martedì 10 gennaio 2023

Dei delitti contro gli animali

https://comune-info.net/dei-delitti-contro-gli-animali/?fbclid=IwAR0l-d26-hT934RiqeoLndTiOQq_3f-mwp-C02sJd4SKRrnPNAkrJyijF40

Annamaria Manzoni
02 Gennaio 2023

Il video del maremmano che un paio di settimane fa, in Salento, per aver fatto irruzione in un pollaio, è stato legato al paraurti di un’auto e trascinato fino a incontrare un’orribile morte, ha fatto il giro del web. Ma è solo la punta dell’iceberg della violenza gratuita contro i nonumani, fatta di maltrattamenti ma anche di caccia, vivisezione, avvelenamenti di massa, corse clandestine. “L’importanza del contesto è tale per cui anche delitti che appaiono individuali, totalmente attribuibili alla responsabilità di un singolo individuo – scrive Annamaria Manzoni -, in realtà risentono di variabili che vanno a costituirne il brodo di cultura. In fondo la lezione un po’ la stiamo imparando: è da qualche anno, per esempio, che ogni episodio di violenza sulle donne… risolleva dibattiti sulla cultura e i pensieri dominanti che lo rendono possibile…”

Ci risiamo: nei pressi di Santa Cesarea Terme (Le) un cane, un paio di settimane fa un maremmano reo – a quanto pare – di avere ucciso per fame due galline, è stato legato al paraurti di una macchina e trascinato fino a incontrare un’orribile morte. Autore dell’ignobile gesto il proprietario delle galline, un uomo anziano, che lo ha costretto a correre alla velocità dell’auto fino a quando non ce l’ha fatta più: a quel punto il cane si è lasciato andare ed è stato trainato sull’asfalto. Una guardia ambientale (Dania Carelli, che ha poi dato il nome di White al cane) li ha incrociati: con ammirevole determinazione ha costretto l’uomo a fermarsi e ha fatto intervenire le forze dell’ordine. Sta facendo il giro di molti giornali e siti on line la foto che vede il povero animale a terra, morto, ancora umiliato dal cappio al collo, e, sullo sfondo, (oscurato dai media main stream, ma non dai social) l’autore di tanta nefandezza, mano in tasca e sguardo altrove.

Episodio in drammatica fotocopia di quello che a Priolo Gargallo (Sr, maggio 2019) ha visto un altro cane fare identica fine ad opera di un altro sessantenne che ha poi gettato in un campo, a mo’ di spazzatura, quel che restava di lui mentre era ancora in vita: Matteo (questo il nome con cui ci si è poi riferiti alla povera bestia) è morto poco dopo, ridotto a carne smembrata, sul tavolo del veterinario da cui era stato portato dai soccorritori, allertati da due coraggiosi ragazzi, che avevano avuto la prontezza di scattare foto che riprendevano anche il numero di targa dell’auto.

Lecito pensare che in entrambi i casi, in assenza di testimoni, il rinvenimento dei corpi martoriati dei cani non avrebbe indotto a nessuna indagine, perché collegato a fatti di consueta malvagità, come dimostrano i resti di tanti animali ritrovati in discariche con segni di torture, ai quali solo in casi assolutamente eccezionali fa seguito al più un brevissimo trafiletto su qualche notiziario locale particolarmente sensibile. È auspicabile che l’indignazione sollevata da questo ennesimo episodio non si esaurisca in un orrore solubile in breve nell’indifferenza dell’abitudine, ma costringa a riflettere su quale possa essere il percorso di formazione di quella oscenità che porta degli uomini a infierire contro esseri incatenati e indifesi, insensibili alla sofferenza che urla sotto i loro stessi occhi, e anzi pervicacemente determinati a portarla a termine. Fino alla morte. Siamo di fronte al male allo stato puro: ingiustificabile, estremo, opera compiaciuta di menti lucide; non delitti d’impeto, generati da emozioni che esondano e obnubilano i pensieri, ma massacri precisi e scrupolosi.

I cupissimi tempi che stiamo vivendo, fianco a fianco con l’imperversare di una guerra, feroce mezzo di risoluzione dei conflitti che ci eravamo illusi di potere archiviare nella barbarie del passato, sono un pozzo senza fondo di comportamenti simili: tra tutti l’ignominia delle camere di tortura è quella che più si attaglia alla dinamica che vediamo proposta e riproposta negli episodi di cui stiamo parlando. E che, lo sappiamo fin troppo bene, sono solo la punta dell’iceberg della violenza gratuita contro i nonumani, che solo in casi ripresi edamplificati dai media raggiungono l’opinione pubblica: la cagnolina Pilù (Pescia, 2015), orrendamente torturata a morte per ritorsione contro la fidanzata da un tizio, che completa poi la sua opera con la pubblicazione on line del video con tutte le fasi dell’orrore; il gattino ucciso a bastonate dal bidello in una scuola elementare di Gioia Tauro perché reo di essere entrato abusivamente nel cortile; il cane Angelo massacrato per divertimento da tre balordi a Sangineto con il vanto successivo di un filmato sui social. Solo per citare i più famosi: per avere dare un’idea dell’ampiezza del fenomeno, più che mai utili i “Rapporti sul maltrattamento Animale in Italia”, elenchi dei fatti di cronaca registrati dai media in due diversi anni, stilati dalla lega antivivisezionista LEAL: basti dire che gli episodi riferiti riempiono centinaia di pagine.

Sarebbe interessante se i processi (se e quando vengono celebrati nei tribunali: quindi quasi mai) andassero a scrutare nel profondo la personalità di tali individui, alla ricerca del bandolo dell’oscura matassa della loro psiche; ma l’uccisione di un animale, ancorché ritenuto d’affezione e quindi più stimabile degli altri, non è considerata degna di un impiego di mezzi tanto onerosi: consulenti, perizie, psicologi e psichiatri non sono mai al servizio della giustizia dovuta a un animale, neppure se sollecitata se non altro dalla preoccupazione indotta dai tanti studi che mettono in luce il link comprovato tra la crudeltà agita sugli animali umani e quella sui nonumani, che dovrebbe spingere a ben diverse reazioni. In assenza dell’auspicabile scandaglio del mondo psichico dei colpevoli condotto con i mezzi offerti dalle discipline deputate a farlo, sono comunque i fatti stessi a parlare: e dicono di personalità in cui la violenza è evidentemente il linguaggio conosciuto, la lingua madre imparata, la modalità di relazione e di reazione, il modo consueto per affermare il proprio potere e sancire la propria superiorità.

Se ogni persona è quella che è diventata coniugando il proprio patrimonio genetico con i modelli appresi e con le vicende di tutta una vita, anche questi personaggi avranno pure una loro biografia su cui sono andati sistemandosi i tasselli della brutalità di cui sono portatori; andare a ricostruirli aiuterebbe a meglio conoscere (ed evitare) i percorsi che sollecitano l’espressione delle parti peggiori di noi. Parti che è lecito supporre che avranno già avuto modo di manifestarsi nella loro vita, perché le nostre mani così come la nostra mente non improvvisano ciò che non conoscono e ciò che non sono: lo vanno imparando su altri corpi, su altre vittime. Fino a divenirne esperti e cultori.

Ma c’è dell’altro: perché gli atti privati sono sempre inseriti in un contesto non solo familiare, ma anche di portata sociale, come testimoniano tante situazioni, su cui non si riflette mai abbastanza: già Primo Levi, reduce dallo sconvolgimento del lager, grande concentrato delle mostruosità che la mente umana può ideare, aveva affidato a I sommersi e i salvati la scrittura di pagine preziose sulla considerazione che anche i peggiori criminali sono esseri umani tristemente ordinari, che il contesto è in grado di modellare. Non mostri, su cui ci piace tanto gettare la responsabilità di quello che di noi stessi riteniamo inaccettabile, e che invece dimora come Ombra disconosciuta proprio nel fondo della nostra psiche, parte di noi che può restare silente o esplodere, a seconda delle situazioni. Senza rendercene conto, ce ne vergogniamo tanto da accusare non noi stessi, ma qualcun altro con cui non abbiamo da condividere neppure l’appartenenza alla specie umana: non è un uomo, ma una bestia è allora il mantra salvifico a cui viene affidata la difesa della nostra innocenza come individui, ma anche quella della nostra specie. Quindi umano come sinonimo di nobile, bestia e animale come sinonimi di brutalità e indecenza. Meccanismo profondamente ingiusto dal momento che gli animali nonumani, che sono vittime, vengono trasformati implicitamente in colpevoli, in quanto sarebbero i contenitori di quel male che non riconosciamo in noi.

L’importanza del contesto è tale per cui anche delitti che appaiono individuali, totalmente attribuibili alla responsabilità di un singolo individuo, in realtà risentono di variabili che vanno a costituirne il brodo di cultura.

In fondo la lezione un po’ la stiamo imparando: è da qualche anno, per esempio, che ogni episodio di violenza sulle donne non provoca solo la richiesta di una punizione adeguata del colpevole, ma risolleva dibattiti sulla cultura e i pensieri dominanti che lo rendono possibile. Si comincia in altri termini a capire che il contrasto ai femminicidi non può prescindere dalla necessità di ridefinire le convinzioni diffuse che restano ancora intrise dei residui di quanto veniva serenamente sostenuto fino a pochi decenni fa, quando veniva dato diritto di cittadinanza al delitto d’onore: si sanciva , anche dal punto di vista giuridico, la convinzione che non i diritti delle donne, ma la tutela dell’onore ferito maschile dovesse essere oggetto di attenzione e cura. Pensiero che sopravvive sotto pelle e si riaffaccia, sotto mentite spoglie, nella motivazione di comportamenti di uomini ancora intrisi di convinzioni fortemente sessiste. Lo dice bene Francesca, figlia di Lia Rizzone Favacchio, uccisa dal marito nel lontano 1973, quando, richiesta di dire se nel corso di tanti anni abbia potuto trovare una motivazione al gesto omicida di suo padre, risponde solo ”Ha ucciso perché figlio di una cultura patriarcale”. Non altro che la convinzione del proprio potere, che arriva a esprimersi come diritto di vita e di morte, è il motore propulsivo di gesti altrimenti incomprensibili.


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Riflessioni di questo genere sono tutt’altro che estranee alle vicende oscene di questi animali uccisi barbaramente, con lucidità e freddezza, nella convinzione di poterlo fare giusto perché appartenenti alla specie umana, notoriamente superiore alle altre: l’assenza quasi assoluta di conseguenti condanne giuridiche non può che rafforzare la convinzione: si può fare, è lecito e normale, come dimostra l’assenza di conseguenze.

Il male fatto agli animali è una realtà che, per limitarci al nostro paese, a macchia di leopardo, investe tutte le regioni. Ma non si può tacere che vi siano luoghi in cui la concentrazione è più preoccupante, non certo per caratteristiche genetiche della popolazione ma perché l’ambiente con le sue variabili ne costruisce le specificità. Sulla base delle informazioni raccolte, risulta per esempio che il piccolo paese in cui era stata portata a termine la tortura del cane Matteo solo poche settimane prima era stato teatro, a opera di responsabili rimasti ignoti, di sevizie a danno di un altro cagnolino inerme, prima torturato e poi impiccato. Se si allarga lo sguardo, la visuale ingloba territori più vasti, che vedono per esempio la Sicilia spesso in una posizione tutt’altro che lusinghiera in tema di tutela animale: nelle sue strade vagherebbe (il condizionale è d’obbligo in assenza di censimenti) la bellezza di 100.000 randagi, triste primato europeo. Nemmeno della Calabria esistono registri sul randagismo, ma chiunque la visiti non può che rimanere basito dai branchi di cani randagi visibili ovunque. È innegabile che, in buna parte delle regioni del sud, non vengono attuate le previste politiche di sterilizzazione e scarseggiano adeguate strutture di accoglienza; le periferie delle città si trasformano allora in discariche di cucciolate indesiderate e i canili esistenti fungono da depositi di cani dismessi. A parte la squalifica morale, questa situazione comporta uno stato di cose drammatico: gli animali a causa del loro stesso numero strabordante sono spesso considerati e trattati come pericolosi, quindi scacciati, presi a sassate o bastonate. Spaventati e in cerca di cibo, può succedere a qualcuno di loro di rendersi responsabile di un’aggressione a danno di una persona: e allora la reazione che era lì pronta ad esplodere trova una giustificazione ad hoc per scatenarsi, perché, se la vittima è pericolosa, allora del mio infierire non mi devo vergognare, ma posso anzi inorgoglirmi spacciandomi per difensore della collettività.

È all’interno di queste dinamiche che periodicamente si registrano avvelenamenti di massa, qualcuno incapace per la prepotenza dei numeri di sottrarsi ai riflettori dei media, come fu il caso delle decine di cani uccisi a Sciacca nel febbraio del 2018. Ma ci sono cronache ancora più spaventevoli che parlano di animali inermi che neppure tentano di sottrarsi all’infierire su di loro di umani furiosi, fino alla morte.

È necessario riflettere su come anche questo genere di situazioni alimenti comportamenti desensibilizzati: nei luoghi in cui la quotidianità è marcata dall’indifferenza verso animali in evidente difficoltà e stato di bisogno, in cui l’abitudine contempla abbandoni, maltrattamenti, ingiurie, tutto si ammanta di normalità: prepotenze e violenze, essendo tanto diffusi e non perseguiti, vengono interiorizzati e sdoganati come accettabili.

A tutto questo fa da contrappunto una straordinaria coraggiosissima abnegazione di tanti volontari, tra i quali gli stessi che denunciano i fatti: sono tanti quelli che condannano, cittadini (e soprattutto cittadine) sensibili, che lottano strenuamente contro questo stato di cose, pagando prezzi elevati in termini di sofferenza psichica, e non solo: ma non possono supplire con le sole loro forze alla latitanza delle istituzioni. E, in una società civile, la strada non può essere quella di sperare nell’empatia personale che supplisca alle colpevoli negligenze di chi avrebbe il dovere di intervenire e non lo fa.

Scandaloso che da anni la soluzione sia stata individuata nel continuo spostamento dalle regioni del sud a quelle del nord di cani e gatti randagi o reclusi in rifugi dal fine pena mai: realtà dilagante tanto che le staffette sono ormai diventate un’istituzione, con i puntualissimi arrivi settimanali in luoghi precisi delle città del nord, con il loro carico di vite sospese, disorientate e a volte pietrificate dalla paura, purché lontano dai luoghi dove la vita è una scommessa quotidiana. A quanto pare solo gli amministratori locali persistono a ignorare testardamente uno stato delle cose sotto gli occhi di tutti e a considerarsi esentati dal dovere di occuparsene.

È in questa ottica che urge approvare leggi che sanzionino in modo adeguato i maltrattamenti a danno degli animali: all’interno dei quali non possono certo essere ignorate le sagre che abusano indecentemente di loro con tanto di autorizzazione delle autorità regionali (in)competenti; le corse clandestine dei cavalli, che comportano la chiusura al traffico di intere zone di città, off limits per la gente comune per dettato delle varie criminalità organizzate. Le autorità, se c’erano, dormivano.

Per completezza di argomentazione, il discorso dovrebbe estendersi alla caccia, alla pesca, ai macelli, alla vivisezione… Ma fermiamoci ai maltrattamenti considerati penalmente punibili: finché le pene resteranno blande e/o non applicate, torturare un animale sarà interiorizzato come lecito, di certo tollerabile, da derubricare nel nostro codice morale a crimine bagatellaro, perché di fatto come tale viene trattato dalla giurisprudenza. Si tratta di un comportamento grave, perché sottostima la funzione e il potere delle leggi, che, modificate nel tempo in funzione della cultura che evolve, vengono poi interiorizzate e concorrono a trasformare non solo i comportamenti, ma anche la morale.

È poi improcrastinabile occuparsi della prevenzione, che ha inizio dalla sensibilizzazione della popolazione, a partire dalle fasce più giovani, al rispetto per tutte le forme senzienti, dalla costruzione progressiva di un pensiero e di un sentire in cui qualunque tipo di efferatezza nei confronti di un essere debole venga ripudiata, in cui la diffusa assenza di sentimenti di empatia verso la sofferenza corrisponda a un allarme sociale, in cui l’attenzione verso tutte le vite senzienti sia prioritaria in ogni progetto educativo.

Discorso non facile, certo, soprattutto nei tempi nefasti che sembrano tornare nella convivenza seppure indiretta con tutte le crudeltà belliche in atto. Ma non si può cedere alla tentazione di pensare che ci sia ben altro di cui occuparsi e preoccuparsi e dare così giustificazione all’immobilismo e all’assuefazione, che è matrice di passività e indifferenza: è invece doveroso reagire in modo adeguato, consapevole, strutturato, non solo dando la stura alla rabbia reattiva di un momento. Il cane White, il cane Angelo, il cane Matteo e tutti gli altri senza neppure un nome non avranno mai giustizia, perché di giusto non ci sarà mai nemmeno l’ombra per loro, morti di una morte atroce per mano di individui cinici, sadici, violenti; è il regno dell’ingiustizia quello in cui hanno vissuto e sono morti, senza averne colpa, come succede a tanti diseredati sulla faccia della terra, che cercano di strappare ogni giorno di vita con le unghie e coi denti perché la vita è l’unica cosa che possiedono, per quanto umiliata e offesa.

Infinitesimale è il contributo che ognuno di noi può dare alla necessaria trasformazione dello stato delle cose: comunque sia, diamolo, assicurandoci, con le parole di Walt Disney, di non fare mai meno del nostro meglio.


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