Breve premessa sul contesto culturale e
religioso
La
costituzione indiana ha inserito tra i doveri fondamentali dei cittadini quello
di “proteggere e migliorare l’ambiente naturale, e avere compassione
per le creature viventi” in conformità con il concetto buddista e gandhiano di rispetto per tutti gli esseri,
umani e non umani, capaci di sofferenza (Pocar, La Nuova Italia
2005). Che il riferimento alla
compassione, alla necessità di soffrire insieme agli altri, uomini o animali
che siano, sia materia contenuta in un contesto che stabilisce i fondamenti
stessi dello stato e del vivere civile pone l’India ad una distanza
abissale dal nostro modo di pensare occidentale, alla lontananza
delle chimere. “Le cose umane ci hanno mostrato purtroppo che la compassione è
bandita dalla legislazione della nostra società” (R.
Wagner, Sulla vivisezione - ETS 2006). Questo riferimento è
possibile grazie a convinzioni, che a loro volta derivano dalla
cultura e dalle religioni che hanno
forgiato l’essenza di questo subcontinente, che, a dispetto della disomogeneità
dei suoi comportamenti, continua a
mantenere oggi, nell’immaginario collettivo, una connotazione di spiritualità,
capace di calamitare ancora molte aspettative.
Tra le
religioni, quella più diffusa, che conseguentemente
ne definisce più di ogni altra il profilo, è la religione induista, i cui seguaci sono l’85% circa di una popolazione, che ha ormai
raggiunto un miliardo e 100mila individui: i loro comportamenti sono di fatto
modellati in parte sui precetti religiosi, filosofici, esistenziali, che
gravitano intorno ad un concetto di armonia con l’ordine naturale. Secondo l’induismo,
infatti, l’uomo non può realizzare il Divino senza comprendere l’armonia che
lega ciascuno a tutto ciò che è intorno; le sue azioni non dovrebbero alterare
alcun equilibrio naturale e, di conseguenza, nell’utilizzare ciò che vi è
nell’ambiente, è tenuto ad agire con parsimonia, perchè non gli appartiene.
L’atto quotidiano del nutrirsi non può prescindere
da queste premesse e di conseguenza il vegetarianesimo,
nel rispetto assicurato alla vita degli animali non umani, dovrebbe esserne
il naturale corollario: esso non è però ingiunzione
religiosa, ma piuttosto principio di
non-violenza, l'ahimsa, sentito e
accettato a livello personale, e
riflette il dharma, l’adempimento al
proprio dovere; è un modo di vivere attento a provocare solo il minimo e
inevitabile danno agli altri esseri. Nei Veda, i testi sacri dell'Induismo, si
possono leggere esortazioni a non consumare carne, perché "si diventa
degni della salvezza quando non si uccide alcun essere vivente":
siccome il cibo animale implica l'atto di uccidere, è necessario astenersi
dall'ingerire qualsiasi genere di carne. "Chi uccide gli animali non può
provare piacere nel messaggio della verità assoluta": l'uomo dovrebbe
scorgere lo stesso principio della vita in tutti gli esseri viventi, non solo
in quelli che condividono la sua specie.
E’ interessante il fatto che molte delle
innumerevoli divinità induiste siano descritte con
un’essenza in cui gli elementi umani e quelli animali sono fortemente
intrecciati: Vishnu, il dio conservatore, che deve
proteggere e tenere in ordine il mondo, viene raffigurato all’ombra di un serpente o seduto sulle sue spire. Il
suo veicolo è Garuda, una creatura
per metà uomo e per metà aquila. Vishnu , nel suo manifestarsi nove
volte sulla terra, avrebbe incarnato, tra l’altro, un pesce, una testuggine,
un cinghiale.
Shiva il distruttore è raffigurato
avvolto da serpenti e protetto dal
suo toro.
Ganesh è il dio dalla testa d’elefante ed è accompagnato dal suo veicolo, un topolino.
Hanuman è il grande dio-scimmia: quali sue rappresentanti,
le scimmie trovano accoglienza nei templi a lui dedicati, sparsi per tutta
l’India.
Sarasvati, moglie di Brama, è
raffigurata su un pavone.
Il culto
di Khamdenu, la vacca sacra, descritta
come madre degli dei, è incerto nelle origini: secondo alcuni miti Brama creò questo animale insieme ai bramini
per fornire il ghee, il burro usato nelle cerimonie rituali.
Nella
religione induista, quindi, tra esseri umani-divini e animali non vengono
marcate distanze e separazioni, ma essi si
contaminano nelle sembianze (Ganesh con la testa d’elefante), oppure
sono i contenitori di una stessa divinità in epoche diverse (le reincarnazioni
di Vishnu) o ancora convivono in un sodalizio di aiuto (i veicoli animali delle
divinità); il dio scimmia e la vacca sacra poi sono divinità animali
tout-court. La credenza nel karma,
vale a dire nella legge di
causalità per cui le azioni di una vita precedente determinano la vita futura,
con la possibilità che un essere umano possa reincarnarsi in una forma animale
(tra due reincarnazioni in un corpo umano ci sarebbero 8milioniquattrocentomila
nascite non umane!), induce a vedere in ogni animale una potenziale essenza
umana, sede di un’anima che sta scontando gli sbagli
di una vita precedente; agli animali viene riconosciuta la capacità di raggiungere stati di
spiritualità elevata come agli esseri umani.
A rompere
l’incanto, tra le divinità induiste compare anche Durga, dea terribile e fiera, la cui
più popolare manifestazione è la dea
Kalì, che placa la sua rabbia e soddisfa la sua sete di sangue con i
sacrifici animali che di fatto hanno luogo in tutti i templi a lei dedicati,
presenti soprattutto sul territorio bengalese, nel nord-est del paese.
Nel
comportamento quotidiano vengono
riverberate le convinzioni di questa cultura che fonda la sua parte spirituale
sulla commistione di elementi diversi : in India vi è sì una amplissima diffusione del vegetarianesimo, ma non tutti gli indù lo
abbracciano: le abitudini alimentari sono determinate e risentono di svariati
fattori, relativi all’appartenenza a determinate famiglie,
comunità, correnti religiose, ma
anche a cause climatiche e igieniche.
Tradizionalmente la dieta vegetariana è riservata alle caste più alte, come
marchio di distinzione sociale: quella del macellaio è una professione impura,
perciò relegata a quegli indù che non appartengono a nessuna casta, i paria,
che possono anche consumare la carne.
Le scelte sono determinate anche dalla preoccupazione per la difesa della salute e per il rispetto verso l’ambiente, nella convinzione che il vegetarianesimo sia uno degli argini a molti problemi biologici, ambientali e sociali. E di questi si fa carico il singolo con una scelta importante per la salute individuale, con i conseguenti benefici mentali e spirituali, e un forte impatto collettivo etico, ambientale, economico.
Le scelte sono determinate anche dalla preoccupazione per la difesa della salute e per il rispetto verso l’ambiente, nella convinzione che il vegetarianesimo sia uno degli argini a molti problemi biologici, ambientali e sociali. E di questi si fa carico il singolo con una scelta importante per la salute individuale, con i conseguenti benefici mentali e spirituali, e un forte impatto collettivo etico, ambientale, economico.
Il rifiuto della carne, quale
espressione del principio della non violenza e del rispetto assoluto della vita,
è tassativo invece per il jainismo (praticato solo dall’1% della popolazione),
per il quale tutti gli esseri viventi, ma anche le pietre, i laghi,
i fiumi e le città possiedono un’anima. Se i monaci spazzano i sentieri prima
di camminare per non calpestare ragni e formiche di passaggio, i fedeli jain
non possono allevare bestiame, cacciare o lavorare la terra, per non uccidere
gli insetti che vivono nelle zolle. Entrare in un tempio jainista è
un’esperienza particolare: bisogna depositare fuori dall’ingresso eventuali
oggetti che portino con sé l’eco di una morte ingiusta e quindi cinture,
portafogli o altro che contengano anche solo profili di pelle e poi lavarsi le
mani prima di potervi accedere. Come sempre avviene, la portata di gesti
simbolici sopravanza di gran lunga il gesto stesso e smuove contenuti ed
emozioni ad esso collegati.
Presso le comunità ed i templi Jainisti, gli animali non devono
temere per la propria incolumità; anzi, accanto ai templi si trovano spesso
rifugi per animali anziani o feriti e centri veterinari, sovvenzionati dalle
comunità dei laici. A Nuova Delhi, per esempio, esiste un grande ospedale per
gli uccelli il Jain Charity Birds
Hospital, costruito nel 1929 accanto al Digamber Jain Temple: qui vengono
curate migliaia di volatili, malati a
causa di un inquinamento sempre crescente o feriti, spesso in conseguenza
all’urto in aria con gli aquiloni, che
soprattutto in concomitanza con alcune ricorrenze, contendono loro lo spazio di
volo, o ancora per essere finiti tra le
pale di un ventilatore : vengono curati, nutriti con una dieta vegetariana
(persino le aquile: “si abituano”, dice un responsabile) e una volta guariti,
anche se portati lì da un “proprietario”, viene data loro la libertà: quella
della liberazione è esperienza che gli
operatori descrivono di enorme impatto emotivo. All’entrata del secondo piano
dell’ospedale, un dipinto tratto da un antico racconto, appartenente alla
tradizione sia jainista che buddista,
mostra un re, con un braccio e una gamba sanguinanti: lui stesso si è amputato
mano e piede e li ha posti su un piatto della bilancia, mentre l’altro piatto è
occupato da un uccello: il re pietoso dà la sua stessa carne e la sua stessa
vita per salvare quella di un piccione.
Luoghi come questi sono passati indenni dalla mattanza che in gran
parte del mondo ha fatto seguito alla paura dell’influenza aviaria: se un uomo
soffrisse di HIV, voi lo uccidereste? chiede il creatore del più famoso website
sul jainismo.
Non di rado, i Jaina acquistano animali dai macelli per dare loro
salvezza e ricovero.
Il
vegetarianesimo è sostenuto come pratica imprescindibile anche dagli Hare
Krishna: movimento nato in India e poi andato diffondendosi a partire dagli
anni ’60 anche in occidente, che promuove un’ alimentazione che esclude
qualsiasi tipo di carne, di pesce e di uova .
Per i devoti Hare Krishna, la nostra "violenza
alimentare", unita a tutte le altre forme di violenza, finisce per creare
una grande ondata di karma negativi, che a sua volta produce un aumento
dell'aggressività umana e quindi dei delitti compiuti in tutto il mondo.
"Anche togliendo la vita ad una pianta", spiega un portavoce degli
Hare Krishna, "possono esserci reazioni karmiche negative, ma si provoca
molto meno dolore che uccidendo animali, perché il sistema nervoso delle piante
è assai meno sviluppato".
Le loro teorie sono
vicine a quelle di varie discipline
esoteriche, secondo cui il vegetarianesimo è l'alimentazione ideale anche per
raggiungere livelli elevati di sviluppo spirituale. Il teosofo americano C.W. Leadbeater, vissuto per molti anni nello Sri Lanka, impegnato a rinvigorire la
diffusione del buddismo, nel saggio “Vegetarianism
and occultism” (The Theosophical Publishing
House - 2001), sostiene che l'alimentazione vegetariana è l'unica che consenta
un'indispensabile purificazione del corpo a chi si sforza di raggiungere la
perfezione, e che l'alimentazione carnea, ottundendo la sensibilità, è anche di
ostacolo allo sviluppo di percezioni extrasensoriali. I veri chiaroveggenti,
afferma Leadbeater, devono essere tutti vegetariani. Il suo saggio, scritto
alla fine del 1800, contiene argomentazioni assolutamente attuali e
provocatorie (“Alle delicate signore che divorano bistecche che grondano sangue
piacerebbe vedere i loro figli lavorare come macellai?”) , che inducono ad una
sola amara riflessione sull’ essere ancora qui , più di un secolo dopo,
impegnati nella stessa battaglia contro un esercito che nel frattempo si è
ingrossato a dismisura.
In generale, le teorie esoteriche
sostengono che cibarsi di carne risulta dannoso anche per chi intende praticare
la meditazione, perché le energie negative che si assorbono quando si assimila
la carne di animali brutalmente uccisi impediscono una perfetta armonizzazione
delle proprie energie con quelle dell'universo. Non a caso tutti i grandi yogi
indiani sono vegetariani.
I musulmani (oggi il 12 % della popolazione indiana) non si astengono
dalla carne, se non, per motivi originariamente igienici, da quella del maiale:
tradizionalmente si deve invocare il nome di Allah mentre si sgozzano gli
animali. Per quanto riguarda gli animali cosiddetti d’affezione, in virtù della
tradizione che vuole il gatto essere stato caro a Maometto, a questi felini
viene dedicata attenzione e rispetto, ben diversamente da quanto succede per
esempio ai cani, ritenuti sporchi e contrari all’Islam, che conducono vita
grama sulle strade, allontanati a suon di sassi e destinati ad una faticosa
sopravvivenza.
Il buddismo, oggi praticato in India da un’esigua
minoranza di persone, in
quanto religione della moderazione in qualunque campo della vita, alimentazione
compresa, predica come regola l’astinenza dagli animali; al Buddha, all'Illuminato riformatore, ripugnavano tutte le
uccisioni di animali come quelle di uomini, espressione le une e le altre di una civiltà
fondata sul sangue. Egli sosteneva il concreto esercizio della compassione (karunā) per tutto
ciò che vive e soffre, perché tutte le vite, quelle degli dèi, quelle degli
uomini, quelle degli animali sono penose. "Non dobbiamo uccidere e neppure ordinare
di uccidere". Ogni vita, anche la più piccola, ha pari dignità. Il monaco
buddhista che, assetato, ha bevuto acqua in cui sapeva esserci piccoli esseri
viventi, dovrà fare lunghe penitenze.
Ciò detto, al fedele buddhista è comunque permessa la carne, in determinate circostanze, con la clausola che non bisogna aver partecipato all’uccisione dell’animale. Chi aspira alla liberazione deve "non procurare mai dolore alle altre creature", "eccetto che in taluni luoghi sacri", cioè in occasione dei sacrifici di animali. Recentemente il Dalai lama ha raccontato di essere stato vegetariano nel passato, di avere poi seguito il consiglio di medici che gli suggerivano di superare un periodo di debolezza fisica con l’’aiuto di un’alimentazione carnea, e da allora di non essere più tornato alle precedenti abitudini vegetariane.
Ciò detto, al fedele buddhista è comunque permessa la carne, in determinate circostanze, con la clausola che non bisogna aver partecipato all’uccisione dell’animale. Chi aspira alla liberazione deve "non procurare mai dolore alle altre creature", "eccetto che in taluni luoghi sacri", cioè in occasione dei sacrifici di animali. Recentemente il Dalai lama ha raccontato di essere stato vegetariano nel passato, di avere poi seguito il consiglio di medici che gli suggerivano di superare un periodo di debolezza fisica con l’’aiuto di un’alimentazione carnea, e da allora di non essere più tornato alle precedenti abitudini vegetariane.
I cristiani, ben lo
sappiamo, non si astengono dal nutrirsi di qualsiasi tipo di carne e solo gli
animali che assurgono al ruolo di pet, si salvano.
In viaggio
Cucina
Certamente
i ristoranti indiani tradizionali, di qualsiasi livello, sono un paradiso per i
vegetariani occidentali, abituati in patria alla ricerca di rari ristoranti ad
hoc o ad una metodica spunta di piatti in cui
pare coattiva la spinta a rifinire
e contaminare anche le pietanze più vegetali con qualche tocco carneo. In
India, locali, locande, ristori e ristoranti sono in grande parte vegetariani
ed offrono pane, riso, verdure, frutta; molto più raramente vegani in quanto
diffuso è il latte cagliato (dhai) a volte
impreziosito con menta e cetriolo (raita). Quanto più si alza il livello
del locale, tanto più frequentemente esiste un’opzione non-veg: e ciò è
particolarmente comune nel nord del paese. In questi casi ha inizio il ben
conosciuto delirio che pare non risparmiare nessuna specie, ad eccezione della
vacca, la cui macellazione è vietata per legge: quindi a disposizione dei gusti
diversificati si trovano pesci,
volatili, montoni, agnelli; questi ultimi, facilmente reperibili nei ristoranti
di Calcutta, sono andati diffondendosi
in molte altre città. Non bisogna poi dimenticare che la cucina internazionale
va sempre più dilagando e che non
mancano i McDonald’s, che non abbisognano di chiarimenti.
Di certo
c’è un costume nuovo e ben percepibile: molte città, Bangalore in testa, si
vanno occidentalizzando; l’andirivieni di stranieri, non alla ricerca di
spiritualità, ma di affari, è strabordante; i giovani che vanno a studiare
all’estero e tornano inevitabilmente contagiati da un ben diverso stile di vita
sono sempre di più. Bene vengono descritte le nuove consuetudini ne “Il tappeto rosso. Storie di Bangalore” (Sankaran,
Marcos Y Marcos 2006):
le ragazze, girato l’angolo di casa, lasciano il sari per i jeans, e i
ragazzi cedono alle insistenze dei genitori ad
assoggettarsi a cerimonie rituali solo in cambio di un nuovo lettore CD;
le une e gli altri si sottraggono al cibo speziato mangiato su foglie di banana
in favore del sacchetto con patatine e hamburger. “Non dovresti mangiare quella
roba: il vegetarianesimo non fa solo parte del tuo retaggio braminico, ma è
anche di moda, no?”, esorta un padre. Davvero significativa commistione di
sacro e profano; e il sacro è vincente solo se si trova, fortunosamente,a
coincidere con il profano.
Vacche e buoi
Tra tutto
ciò che uno sguardo superficiale può cogliere girovagando per le strade,
certamente lo spettacolo delle mucche che camminano indisturbate non può non
colpire l’attenzione, nelle campagne, ma
anche in molte grosse città: ciò che oggi succede è che la vacche che non
producono più latte perché vecchie o malate, stante il divieto di macellarle,
vengono abbandonate dai loro proprietari e quindi se la sbrigano per così dire
da sole in ambienti a volte davvero poco ospitali rispetto alle loro
caratteristiche: girovagano in mezzo al traffico perché altro non possono fare,
si nutrono andando a frugare nella spazzatura disponibile, contendendo gli
avanzi ad un’umanità derelitta, mentre
auto e moto, ormai dilaganti, le evitano grazie all’ abitudine alle loro sagome,
ai loro ritmi, alla loro lentezza. Sono in qualche modo integrate nel paesaggio
urbano e sollevano solo la curiosità iniziale dei turisti.
Per altro nelle città più moderne, come Nuova
Delhi, la realtà è diversa e le vacche non ci sono: pare che un sistema di
microchips, analogo a quello usato in occidente per il riconoscimento dei cani,
venga utilizzato per individuare il proprietario che abbandona l’animale in
modo tale da porre fine al fenomeno che, in una città presidenziale, è
evidentemente troppo poco ammesso.
Analogo
rispetto non è però assicurato ai bovini maschi, a cui non è riconosciuta
sacralità: non sono pochi quelli che si incontrano, con lunghe corna dipinte a
tinte coloratissime
L’allegria
dei colori non consola certo le povere bestie:
sono legate strette, l’una all’altra o ad un qualsiasi punto fermo, con una corda cortissima che attraversa le
narici, di fatto immobilizzandole. E’ evidente che questa forma di costrizione
non risponde a nessuna necessità: anche uno spazio di movimento ben maggiore
non impedirebbe di mantenere il
controllo su di loro; ma pare che nessuno ritenga questa coercizione
degna di interesse: non i contadini che,
pur cercando di assecondarmi quando chiedo loro perché non allentare le corde,
pensano solo che io voglia trovare un’immagine migliore da fotografare; non chi nei villaggi ricopre un ruolo
primario quale referente “politico” o religioso che, alle mie educatissime
rimostranze, risponde con un sorriso divertito, che rivela che il mio è
considerato al più come un eccentrico atteggiamento occidentale.
Lo
spettacolo, non frequente, ma comunque presente, di bovini portati al macello
si differenzia dai nostri solo per le dimensioni: qui si tratta di “carretti”
su cui il numero di animali è ridotto; ma sono legati e stipati l’uno addosso
all’altro, senza la possibilità di potere nemmeno girare la testa. Sono solo animali da uccidere fra
poco: perché mai usare riguardi?
Volatili
Pressoché
impensabile invece in un contesto occidentale quanto conosciuto alle porte di
Bangalore, al Morning Star, che, nonostante il
nome da resort a molte stelle, è in realtà una comunità ideata e gestita
da un uomo dal nome improbabile, John Kennedy: ospita 55 bambini e ragazzi,
raccolti e salvati dalla strada; molti sono portatori di handicap gravi, altri,
decisamente dotati, sono stati
accompagnati e seguiti fino a
raggiungere un livello di istruzione universitario. In questo luogo fuori dal
mondo l’abitudine è quella di nutrirsi dei prodotti della terra; John Kennedy,
quarantenne dall’aspetto sicuro e prestante, è fruttariano se si esclude lo sporadico accesso al chapati, il pane
indiano. Ma ciò che non può non colpire è la presenza di galline e tacchini,
non destinati all’alimentazione, ma al ruolo di pet, vale a dire di animali con
cui i bambini possono giocare e a cui affezionarsi, non diversamente da ciò che
fanno con i due gattini, di cui sono responsabili.
Si ha una
sensazione di pace davanti a tutto questo e si sperimenta sulla pelle il
significato del termine armonia, in questa convivenza dove esseri umani e non
umani, diversamente collocati sui
gradini evolutivi, stanno
insieme, nella diversità dei loro ruoli, senza esercitare forme di
sopraffazione.
L’incanto
è presto rotto: al vicino mercato un uomo è seduto per terra accanto alle sue
galline: sono costrette all’immobilità dalle zampe legate e il loro destino è
chiaro. Come sempre succede, nessuno se ne cura e la sofferenza connessa a
questa situazione innaturale, che gli animali prigionieri possono manifestare solo con il nervoso movimento del
collo e gli scatti della testa, non calamita l’attenzione di nessuno.
Esattamente come succede per i pulcini, ammassati all’interno di un cesto di
metallo, che inutilmente pigolano al mondo il loro smarrimento.
Scimmie
All’entrata
di un piccolo tempio, dedicato al dio
scimmia Hanuman, alle porte di Mysore, si viene pressoché costretti ad
accettare da persone insistenti fiori
recisi (all’uscita sarà d’obbligo saldare il conto…) e il perché, forse
preannunciato in un idioma incomprensibile, lo si capisce all’interno. Il
tempio è piccolo, scuro; il bramino celebra i suoi riti accendendo fuochi e
tracciando segni al centro della fronte dei visitatori. Ma ciò che è
incredibile è la quantità di scimmie che balzano qua e là, in totale libertà,
nervose, rapide; più d’una ha il suo piccolo attaccato al collo. Si avvicinano
ai visitatori afferrando velocemente gli immancabili fiori, in qualche caso più
fortunato una piccola banana e si allontanano con un balzo mangiando con furia
il bottino alimentare.
L’aspetto,
le movenze, i gesti, sono del tutto familiari, visti mille volte: tra gli
umani. I piccoli esigono di stare in braccio alle madri, queste di tanto in
tanto se ne liberano per essere più rapide nei loro spostamenti, ma immediatamente
dopo riafferrano il figlio e lo tengono con atteggiamento protettivo. Le
scimmie sono inquiete: in fondo devono occuparsi di tante cose, tutte insieme:
prendersi cura del piccolo, procurarsi cibo, mangiarlo velocemente prima che il
generoso donatore possa cambiare idea……; ma nello stesso tempo sono
visibilmente padrone dell’ambiente in cui si muovono con sicurezza. La
preoccupazione del piccolo è angoscia da separazione: non tollera di essere lasciato che per qualche secondo. I versi, modulati e
incomprensibili, sono la colonna sonora di questo inaspettato film. Il pensiero
agli orridi esperimenti di Harry Harlow e all’orrido uso delle scimmie nei
laboratori di vivisezione, riattivato nella memoria, colpisce con la forza di
un violentissimo pugno nello stomaco.
Benedetto
sia Hanuman!
Elefanti
Loro
invece non so quanto possano ringraziare Ganesh, il dio a cui prestano la
faccia. Gli elefanti sembrano re e sono schiavi: immensi, è facile vederli
all’ingresso dei templi; certo non denutriti né apertamente maltrattati, anzi,
nelle vesti dei beniamini, ornati e dipinti. Ma che immensa tristezza! Allungano
la proboscide verso il visitatore e, se questo vi ha infilato denaro, gliela
sdrusciano a mo’ di benedizione e per
ringraziamento sulla testa, prima di consegnare il bottino al loro signore e
padrone. Soliti “ah!” di meraviglia e sguardi di ammirazione di chi pare
davvero pensare ad un atto di
intelligenza anzichè ad un tirocinio infernale. Una zampa è incatenata; la mole possente, fatta per le foreste
tropicali e le aree boscose, è
immobilizzata e relegata giorno dopo giorno nella semioscurità.
Dove sono
i suoi affetti? Dove è il branco? Sostituiti dalla solitudine in mezzo ad una folla di umani che, ebeti, sorridono alla
sua disperazione misconosciuta. Altri elefanti, non so se più o meno fortunati, sono costretti ad aggirarsi, cavalcati dagli
umani, nel traffico caotico dei centri delle città: e chissà quale sconfinata
nostalgia degli spazi ampi, dei compagni
maestosi, forti e amorevoli provano mentre si
muovono in mezzo alla moltitudine umana vociante, polverosa e
disordinata. Con gli altri potevano condividere afflizione e tristezza, gioia e
amicizia; qui, è certo, nessuno penserà che le loro lacrime siano altro che
insignificante secrezione fisiologica.
Cani
Sono
tanti in India: spesso di una razza indistinta, di un colore bianco sporco, con
il pelo corto. Vivono nelle strade e sembrano trasparenti, perché nessuno
presta loro attenzione; fanno quello che fanno moltissime persone: si guardano
intorno senza sapere cosa fare; a volte si muovono in coppia o a piccoli
branchi e in questi casi acquistano un po’ di baldanza e magari trotterellano
in qualche direzione anziché restare fermi nel loro spaesamento. E’ molto
comune vederli immobili, sdraiati su un fianco, apparentemente insensibili al
rumore, al traffico, al caldo, esattamente come fanno molti uomini; spesso
viene da chiedersi se non siano per caso morti, e qualche volta è certo che lo
sono, perché se ci si avvicina si vedono nugoli di formiche e insetti nella
carne in disfacimento. Prima o poi qualcuno toglierà l’ingombro.
Difficile
dire quale sia il sentimento che gli indiano nutrono nei loro confronti: è
certo che la paura con cui qualcuno di
loro reagisce ad un tentativo di approccio rivela senza ombra di dubbio
precedenti maltrattamenti, a volte testimoniati anche dalla presenza di ferite. Struggente, su una spiaggia, vederne
uno magro, debole, zoppo, avvicinarsi
con un ultimo barlume di fiducia a due giovani seduti sulla sabbia, che lo
scacciano a sassate: lui si allontana senza ombra di ribellione e si sdraia su
un fianco, senza più forze: non si muoverà più, nemmeno ai miei tentativi di
dargli del cibo.
L’atteggiamento
più diffuso nei loro confronti sembra
però essere il disinteresse: e bisogna accontentarsi. Nelle case signorili, è
possibile trovare qualche fortunato, entrato a buon diritto a far parte della
famiglia e trattato perciò con tutti i riguardi.
A
conclusione di queste brevi note, non si può che ricordare che, data
l’immensità dell’India, la realtà percepibile è per forza di cose estremamente
variegata e nessuna osservazione
può essere generalizzata, in quanto
potrebbe facilmente essere smentita da
altri fatti. Solo una conoscenza
approfondita della cultura del paese, nella dinamica costante dei cambiamenti
che stanno avendovi luogo, potrebbe permettere di cogliere la complessità che anche il rapporto con gli
animali, come ogni altra questione, coinvolge.
Di certo
è un dato di fatto che quella che si respira, nelle strade dell’’India, non è
l’aria di spiritualità, che forse l’aveva contraddistinta fino ad un non
lontano passato: la gente si muove affannosamente per tentare di sopravvivere
in condizioni a volte durissime, ma anche per seguire modelli di sviluppo
globalizzati entrati ormai prepotentemente nel paese. I cambiamenti sono repentini e pervasivi e il
rapporto con gli animali non sembra fare eccezione: certo ci sono regole ancora
ferree quali il divieto di macellazione delle vacche; ma c’è anche
un’inversione di tendenza se è vero per esempio che tradizionalmente il
vegetarianesimo è stato appannaggio soprattutto delle caste privilegiate,
mentre ora sono soprattutto le classi agiate, che possono permettersi di tutto,
a non rinunciare al piacere di cibi molto costosi e non tradizionali. Il
rischio che la compassione, celebrata nella costituzione, venga travolta dalla superficialità e dalla fretta, oltre che dall’inebriamento
indotto da nuove possibilità, è reale. Mi suonano nelle orecchie le parole di
Gino Ditadi, grande studioso di filosofie, che afferma che, accanto ai
templi, in India i macelli sono al
lavoro 24 ore al giorno. E quelle scritte da Richard Wagner, secondo cui “..non
oltre possiamo seguire le tracce di una compassione fondata su motivi
religiosi, che i nostri antenati provavano per gli animali. Sembra che il
processo di civilizzazione, avendo reso l’uomo indifferente “al dio”, l’abbia trasformato in una feroce
bestia da preda”.
Forse è
vero che, anche in India, i motivi
religiosi oggi non sono più sufficienti; lì come dovunque allora devono essere
la religione dell’etica, il richiamo alla ragione, il risveglio dell’empatia ad
arginare l’espressione della violenza, così meschina e così facile contro i più
deboli.
Un'esaustiva panoramica di quel mondo che non ho mai visto da vicino. Non sapevo della attenzione dellaCostituzione Indiana per gli animali. Sono principii apprezzabilissimi ma se poi non vengono rispettati, siamo da capo. Nella nostra Costituzione non compare proprio la parola "animale": sarebbe troppo imbarazzante giustificare le torture perpetrate ogni giorno su milioni di animali.
RispondiEliminaPaola Re
Ragioni da vendere Paola. la nostra costituzione non si sogna di parlarne.Loro ne parlano,ma davvero la situazione non è quella che vorremmo vedere.
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