Non è semplice cercare di
definire il rapporto complesso che lega l’uomo al cane: innanzi tutto non si
può fare altro che contestualizzarlo nel tempo e nello spazio, riferendosi a
quello che è osservabile oggi, nel mondo
occidentale, nell’ambiente prevalentemente urbano, che è
il risultato di un processo lunghissimo iniziato con la domesticazione
del cane circa 14.000 anni fa ed ha poi assunto
forme diverse a seconda dei contesti. Oggi, negli spazi ristretti delle nostre
città, nelle relazioni intraspecifiche
profondamente modificate con l’avvento della famiglia nucleare, anche la
relazione tra l’uomo e il cane è esposta ad analoghi cambiamenti.
Come tutte le relazioni è biunivoca,
da leggere dal punto di vista di
entrambi. Per quanto riguarda il cane , il suo modo di guardare all’uomo si
riassume nell’affermazione pensierosa di Abbas Kiarostami, regista iraniano
meno conosciuto ma non meno geniale come scrittore, che “per quanto ci pensi non capisco la ragione di un tale attaccamento del
cane”: in altri termini il modo del cane di rapportarsi al suo compagno
umano è in genere totalizzante, riferito ad
un attaccamento senza se e senza ma, ad un’affezione sfiancante che
tende ad esprimersi nel bisogno di vicinanza, nella dipendenza, in una sorta di
adorazione, che è lecito dubitare possa
essere giustificata dalle caratteristiche umane e pare più probabilmente dipendere da quelle
dell’animale, che le dispensa gratis.
Molto più complessa la
realtà se vista dalla parte dell’uomo,
che, nel contesto urbano, trova nel cane
risposte a tanti bisogni diversificati: molte persone, quando vengono richieste di spiegare quale sia il motivo
profondo del loro attaccamento all’animale, rispondono in genere con quel “mi fa
compagnia” che fa riferimento alla sua funzione di antidoto alla
solitudine, che innegabilmente un cane è in grado di assolvere. Ma che in
realtà non è certo l’unica e a volte non è nemmeno quella più ricercata, per lo
meno nei casi di convivenza dei rappresentanti della specie canina con
famiglie numerose e composte anche da bambini.
Sappiamo dai tanti studi svolti
che ben più ricche sono le sue prerogative: perché un cane, con la sua
presenza, riesce a modificare l’umore in
senso positivo, inducendo una maggiore propensione al riso e al sorriso e
aiutando così ad innescare un approccio diverso con le cose della vita; induce al
contatto fisico, con la sua irruenza o la sua dolcezza e mitezza,
contatto che è basilare per il benessere personale ma che molte persone faticano
ad esprimere, perché inibite dalla paura del giudizio o del
rifiuto, finendo in questo modo per coartare la propri affettività; proprio nel contesto urbano che è per sua
stessa natura isolante assolve la funzione di facilitatore sociale, perchè riesce
a mettere in contatto persone, che normalmente si ignorano se estranee, le
quali , in presenza dei rispettivi cani, si rivolgono la parola con grande
facilità a partire magari dalla classica domanda sulla razza, che è solo
l’inizio di un dialogo che prende poi forme diverse: il contatto si stabilisce
e le persone cominciano a parlarsi, affievolendo quella diffidenza iniziale che pare essere pervasiva
tra sconosciuti. La cosa è davvero singolare: perché i cani, nelle nostre città sono tutt’altro
che rari, come ci assicurano le statistiche
che parlano di ben 7 milioni di loro che vivono nelle nostre case; bene, nonostante
questo, hanno la capacità di attrarre
l’attenzione, di suscitare curiosità, addirittura di fare sentire
importanti i loro compagni. E’ un fenomeno talmente riconosciuto che è non è
certo sfuggito ai pubblicitari, i quali,
sempre attenti a cogliere e sfruttare umori, preferenze e sensibilità, sempre più spesso li utilizzano come testimonial di prodotti del
tutto disparati: una rapida scorsa agli spot più diffusi incrocia il cucciolo
di labrador che srotola carta igienica, il
jack russel che fa pipi sulla cabina telefonica di Infostrada, in competizione
con il colossale Ettore, ingaggiato dalla la Tim; c’è poi quello che va in gioiosa trasferta con tutta la famiglia
infilandosi nel baule della macchina e l’altro , elegante e sinuoso, al
guinzaglio della signora sofisticata.
In uno scenario in cui il cane sempre
più condivide spazi con gli umani si inserisce una notizia che arriva dagli
Stati Uniti, secondo cui sono sempre di più le aziende che consentono ai propri dipendenti di
portare il proprio cane al lavoro: attente alla produttività che va di pari
passo con il benessere personale, hanno preso atto che la sua presenza sul
luogo di lavoro favorirebbe la socializzazione tra dipendenti, una maggiore
collaborazione e fiducia fra colleghi, l’incoraggiamento del teamworking, la
riduzione del tasso di competitività, la diminuzione delle assenze per malattia.
Superfluo dire che queste aziende, tra
cui ci sarebbe anche Google, godono
delle preferenze dei nuovi assunti.
Davvero c’è di che
riflettere sulle incredibili
potenzialità insite in questo rapporto,
quando è positivo: una relazione davvero
speciale se troppo spesso, invece, non venisse contaminata
dall’irrompere di bisogni e dinamiche di cui l’elemento umano è in genere
responsabile, talvolta senza nemmeno averne consapevolezza.
Qualcosa di fortemente
discutibile comincia a delinearsi con la
scelta di comperare un cane, cosiddetto di razza, in negozio o in
allevamento; inevitabile a questo punto considerarsi suo padrone anziché suo compagno. Il rapporto
appare sbilanciato fin dall’inizio,
perché il cane viene visto come oggetto,
come cosa, come proprietà, dal momento che ad essere comprate sono le cose, di
cui poi si diviene proprietari. Un altro
sguardo oltre Atlantico: l’assemblea legislativa della contea di San
Francisco sta valutando una proposta di legge che vieterebbe la vendita di
animali domestici in città, proprio per contrastare il fenomeno dell’abbandono
e del maltrattamento degli animali da parte dei padroni che li comprano e li
trattano come fossero merce o oggetto di decoro per la casa e per indirizzare
le scelte nei canili. Proposta dalla vita difficile, su cui non è consentito
ottimismo, visti gli interessi economici
che va a toccare: ma intanto un tabù è caduto.
Interessante
è anche la scelta della razza: quando il binomio uomo-cane non è frutto
di un incontro ma della scelta umana, capita di assistere ad un fenomeno che è
un vero e proprio gioco di proiezioni: l’uomo sceglie il cane vedendo in lui
quasi un alter ego o un oggetto compensatorio: è il
caso tutt’altro che raro per esempio di signore che esibiscono al guinzaglio
firmato cani graziosi, eleganti, “vestiti” con le “marche” che loro stesse
indossano; o di uomini superpalestrati con cani dall’aspetto ringhioso, reso
più minaccioso da collari borchiati. Innegabile che in questi casi il cane è diventato
una propaggine della propria immagine, una sorta di accessorio. Di certo in molti casi non c’è
nulla di male, ma vale la pena di
riflettere che il cane finisce per non
essere riconosciuto nella sua essenza, ma confuso con una parte di sé, parte a
cui poi gli viene, coscientemente o meno, richiesto di adeguarsi: non è affatto
detto che lui sia in grado di farlo, come è il caso di cagnoni che sono timidissimi
dietro l’aspetto minaccioso, i quali, proprio come accade a miti o pantofolai
“cani da caccia”, vengono vissuti come
una delusione per chi li aveva scelti in base ad altri bisogni: l’abbandono è
dietro l’angolo.
In una prospettiva più solidale è
invece importante uscire dall’antropocentrismo per cercare di conoscere il cane
nella sua caninità, quindi nelle sue caratteristiche di specie, nei suoi
bisogni, in uno sforzo che si avvicini a quello che lui certamente mette in
atto nel cercare di capire la nostra umanità: lui lo fa guardandoci diritto
negli occhi, ascoltando, cercando di decodificare i nostri cenni e, se non
sicuro di avere ben capito, insistendo nel guardarci con l’aria interrogativa,
in attesa del chiarimento che gli consenta di dare la risposta giusta.
Fondamentale, nel nostro rapporto
con il cane, modificare anche il linguaggio e abolire il termine “padrone”: il
linguaggio non è neutro, veicola
convinzioni e finisce per fornire una narrazione della realtà. Il rapporto
padrone-servitore non è quello che deve definire la relazione uomo-cane, relazione che, pur nella
inevitabile asimmetria dei ruoli che non sono sovrapponibili, non può
prescindere dall’inclusione del soggetto più debole nel proprio orizzonte etico
. Non può continuare ad essere l’ennesimo rapporto di prevaricazione di cui davvero non
c’è bisogno, ma che invece sopravvive e
si esprime nei maltrattamenti , nella
trascuratezza, negli abbandoni. Per tacere che, pur animale d’affezione e
quindi fortunatamente esentato, nella nostra società, dall’essere trasformato
in cibo, il cane non è purtroppo esentato dall’essere usato per la vivisezione, magari a beneficio di
altri cani, quelli ricchi.
In conclusione molte cose ognuno
di noi può fare, mentre le leggi sono chiamate a fare la loro parte. L’obiettivo generale è
quello della convivenza con tutte le altre specie in un rapporto di amicizia e
di rispetto. I cani davvero da parte loro
rendono questo compito quanto mai facile: noi dobbiamo fare la nostra
parte nella coscienza che, come recita un detto francese, se meticolosamente
addestrato l’uomo può diventare il migliore amico del cane.
Allora, restando in Francia, mi viene in mente Daniel Pennac che in "La fata carabina" scrive: "Uno crede di portare fuori il cane a fare pipì mezzogiorno e sera. Grave errore: sono i cani che ci invitano due volte al giorno alla meditazione." Ricordiamocene quando li portiamo fuori: sono minuti da passare con loro, non parlando al cellulare con il resto del mondo.
RispondiEliminaPaola Re
Sono d'accordo Paola. Bisogna essere onesti con se stessi e dirsi la verità: si accarezza il cane e lo si abbraccia e gli si parla e lo si porta in giro perchè tutte queste cose ci danno molto. Non esclus il piacere della sua gioia.Come in molte altre situazioni della vita, c'è in atto un gioco di proiezioni per cui attribuiamo agli altri quello che invece è nostro. E così siamo sempre convinti di agire per il bene degli altri, quando lo facciamo per il nostro.
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