Tutto
questo dolore
“La
barbarie più inumana”, “La più grave questione dell’umanità”: così definisce la
vivisezione, nella seconda metà del 1800, Richard Wagner nella sua “Lettera aperta al signor
Ernst von Weber”. Oltre un secolo e mezzo più tardi le stesse definizioni conservano
tutto il loro senso e la loro pregnanza; da allora le cose sono cambiate solo
dal punto di vista formale, in sintonia con lo spirito della civiltà
occidentale che, in merito ai delitti contro gli animali, e non solo, ha messo in atto una enorme azione di occultamento
e di allontanamento dalla vista e dalle coscienze, rimuovendo tutto quanto può
turbare la sensibilità umana, metro e misura del lecito e dell’illecito. Lontani sono infatti i tempi in cui la
vivisezione veniva addirittura praticata alla luce del sole: si era nella Londra della seconda metà dl 1600 e
la Rojal Society poteva agire, forte degli enunciati di Cartesio che, identificando
l’essenza degli animali nel loro essere
macchine e automi, avevano dato licenza di infliggere loro i peggiori
tormenti. A testimonianza che qualunque pratica necessita di un contenitore di
pensiero che la giustifichi e la renda possibile. Allora i terribili
esperimenti erano resi pubblici e le relative illustrazioni venivano poste
accanto a quelle di decorazioni delicate e
gentili, ad asserire anche graficamente non esservi alcun contrasto tra
immagini di sangue e di indicibile crudeltà sugli animali e deliziosi
ornamenti: l’autorità di chi li
proponeva ne sdoganava serenamente la
compatibilità.
Oggi
no, oggi non si fa più così: non sta bene e non è politicamente corretto. Di
vivisezione la gente comune sarebbe anzi meglio non sapesse nulla, e questo
sarebbe possibile se non fosse per il clamore suscitato da un dibattito, che,
soprattutto da Hans Ruesch in poi, non ha potuto essere tacitato, ma che
sarebbe rimasto contenuto nelle stanze dove le elites parlano di scienza se non
fosse per la mobilitazione di tutti
coloro che, in nome del rispetto dovuto
agli animali, hanno rotto il muro del silenzio, spostando la questione dal
piano scientifico a quello etico che tutti ci riguarda e su cui tutti abbiamo
diritto-dovere di opinione, e alle
coscienze della gente mostrano scimmie crocefisse, gatti ustionati, file di
conigli immobilizzati con gli occhi infettati,
e via proseguendo in quella galleria degli orrori che si nutre di una creativa
capacità di ideare ipotesi, le più disparate possibile, e poi di mettersi
alacremente al lavoro per verificarle. Così il dr. Michael Merzenich volendo
sapere (1991) quali “ristrutturazioni dei processi rappresentazionali in
regioni cerebrali specifiche” siano indotte da “alterazioni che provengono
dall’ambiente, come quelle che derivano dall’amputazione di un arto”,
diligentemente procede ad amputare per l’appunto arti ai primati che sono a sua
disposizione nel laboratorio di San Francisco in cui lui esercita la sua
professione. Giusto per scoprire che “anche negli adulti il cervello sembra
quindi capace, entro certi limiti, di rispondere a nuove esperienze con un
ulteriore sviluppo di strutture e funzioni”.(“La
mente relazionale”, Daniel J. Siegel -
Raffaello Cortina Editore).
Mentre il farmacologo irlandese John Cyran separa i cuccioli di ratto dalle
madri “provocando negli animali un forte stress” (ah, ma allora i ratti provano
affetto, creano legami filiali, sperimentano sofferenza psicologica nella
separazione?!) valutando la loro conseguente depressione con il fatto che “se
collocati in una vasca d’acqua, rimangono a galla meno a lungo degli animali di
controllo non stressati”. E via imperversando fino alla conclusione, tutto
fuorchè originale, che “tuttavia i topi non sono persone e dunque la
possibilità di trasferire all’uomo questi risultati resta ancora da dimostrare”
(“Mente e cervello”, agosto 2012)
Non
c’è che dire: l’uomo è curioso, intelligente, vuole sapere e varcare i confini;
l’uomo è prepotente, arrogante, egoista e la crudeltà di cui è capace è pari
solo alla genialità della sua mente. L’uomo, e la donna solo un po’ più nelle
retrovie, occidentali hanno fatto coincidere il processo di civilizzazione con
un progressivo nascondimento delle manifestazioni di malvagità
che hanno accompagnato tutto il percorso evolutivo, ma che ci piace
attribuire a una animalità da cui sempre più prendiamo le distanze: ci siamo ripuliti, educati, abbiamo imparato le buone
maniere e aborrito le manifestazioni di
brutalità. Nel tragitto i comportamenti di sfrenata crudeltà hanno perso
visibilità e liceità, ma, lungi dallo scomparire, hanno anzi ampliato a
dismisura il numero di vittime su cui accanirsi: nello specifico, la sperimentazione animale, nella nostra
attuale società tanto amante degli animali, coinvolge ogni specie per ogni
scopo, che sia medico o psicologico, che serva a testare cosmetici o al bisogno evidentemente
ineludibile di un nuovo detersivo, che sia finalizzata a soddisfare curiosità fantasiose oppure permetta una pubblicazione la cui
utilità, oggettivamente opinabile, appare in tutta la sua pregnanza se valutata
ai fini del punteggio per un futuro concorso.
Non
c’è da meravigliarsi: il confine
fittizio e utilitaristico tra umano e animale, una volta superato, immette nel
regno del tutto possibile. Gli animali
sono al nostro completo servizio e ciò si traduce dal punto di vista alimentare
nella licenza di ucciderne miliardi ogni anno; dal punto di vista della
sperimentazione nel non farsi mancare nulla: si sperimenta in vista di una
presunta necessità per la salute umana, o di qualcosa che forse, chissà, potrebbe anche rivelarsi importante in futuro, per stabilire
le conseguenze dello spazio di frenata dell’automobile, o perché gli studenti
apprendano i necessari rudimenti medici dalla viva carne, che è molto meglio.
Dove fermarsi? Perché farlo? Un acceso sostenitore della sperimentazione
animale (che, per ragioni sconosciute, si firma solo MB), lo chiarisce molto
bene in un sito ad hoc ,”In difesa della sperimentazione animale”, quando
sostiene che la conoscenza scientifica fine a se stessa, l’amore per il sapere
sono l’uso più Nobile (la maiuscola è sua) che l’uomo possa fare degli animali:
in altri termini, gli unici limiti sono
quelli stabiliti dalla possibilità di ideazione, che contiene quella di
possibili aberrazioni, della mente umana. E si tratta di confini del tutto
leciti, al contrario di altri che pure esistono all’interno della specie umana,
dove i più derelitti, poveri, esclusi dai diritti di fatto
sono sempre stati utilizzati in forme di
“sperimentazione”: i medici nazisti hanno potuto imperversare
indisturbati grazie al materiale umano di cui potevano servirsi a piacimento; i
manicomi, come luoghi chiusi che escludono dal consesso civile chi non è
all’altezza, non hanno ancora finito di darci notizia di tutte le nefandezze
praticate al loro interno; la pratica
della tortura, in molti paesi del mondo del tutto attuale, sperimenta i limiti e la sopportazione umana al
dolore. Nonostante il grande lassismo
della morale, tutto ciò non è però politicamente corretto: la sperimentazione sugli
animali sì. La giustificazione morale degli obiettivi da perseguire non solo
sdogana ogni pratica sugli animali: fa di più, la rende invisibile. Per
analogia risulta interessantissima, in merito a questa dinamica, la ricostruzione che Vittorino Andreoli,
stimatissimo psichiatra, fa della sua carriera di medico, ricordando la propria
impassibilità quando a venti anni,
brillante studente e fervente cattolico,
si trovò per la prima volta
davanti all’orrore dei manicomi, dove esseri umani potevano essere tenuti per
mesi o anni legati ai letti, abbandonati nei propri escrementi, o
“terapeuticamente” obbligati a docce gelate. Solo oggi arriva a chiedersi: “Come
è accaduto che non solo io, ma uomini di grande levatura morale potessero
accettare tutto questo? Come ho potuto non provare un moto di ribellione di
fronte a tanto degrado? Dove trova la sua ragion d’essere una simile anestesia
dell’uomo nei confronti della sofferenza di altri uomini?...... Credo che a legittimare la nostra
insensibilità, a darle un sostegno, fossero una serie di convinzioni, di razionalizzazioni”.
(“I miei matti” –Vittorino
Andreoli- Rizzoli Editore) Evidentemente
le stesse convinzioni e razionalizzazioni, che consentono ancora oggi a tante
persone di assistere o di provocare personalmente, anestetizzate e senza sensi
di colpa, inaudite sofferenze agli animali nei laboratori di vivisezione, dove
la violenza è normalizzata (perché è normale che nuove sostanze o tecniche
siano sperimentate), giustificata (perché è necessaria), negata (perché gli
animali, si sostiene, non soffrono, essendo trattati con rispetto).
Esistono
potenti meccanismi nella mente umana al servizio del nostro benessere:
sanno fornirci una narrazione dei fatti tale da consentirci di convivere con
sufficiente tranquillità con noi stessi, senza il peso di troppe angustie,
quali che siano (state) le nostre azioni: il delitto senza castigo, neppure
quello psichico, è quello che prediligiamo.
Per concludere l’analogia con il mondo dei manicomi,
vale ancora la pena di ricordare che un altro medico vi mise piede, alcuni
anni dopo Andreoli , e vide ciò che generazioni di psichiatri prima di lui
avevano visto e accettato come normale: ma lui quella violenza su esseri deboli non la scambiò per
pratica terapeutica necessaria: la valutò come inaccettabile abuso, vide il
dolore di individui sfiancati non tanto dalla malattia quanto da altri
individui in camice bianco, e rifiutò di esserne complice. Era Franco Basaglia:
nel 1978 la legge che porta il suo nome decretò per sempre la chiusura dei
manicomi.
Allo stesso modo, anche per quanto concerne la
vivisezione, non va sottaciuto il peso del comportamento dei singoli, ognuno
dei quali ha una precisa responsabilità personale in quello che decide di
fare e in quello che si astiene dal fare:
in altri termini, con le parole del sociologo Zigmunt Bauman, l’ingiustizia è negligenza individuale. Per
altro il dibattito attuale, la definizione quale Falsa Scienza da parte della
prestigiosa rivista Nature, la revisione in atto consentono di assumere
posizioni critiche, di rifiuto dello status quo anche senza attitudni eroiche
e pur in mancanza di quel coraggio che
se uno non ce l’ha, non se lo può dare; d’altro canto, chi decide di praticarla
deve riconoscersi portatore di una scelta precisa. Esiste quindi il peso
specifico della responsabilità che ogni singolo si assume, peso tanto maggiore
visto che si tratta di un campo in cui non sono neppure invadenti altre spinte,
che di fatto vanificano la libertà personale, quali quella economica: a
differenza di quanto si verifica nel raccapricciante
mondo dei macelli a catena di montaggio, popolato da immigrati costretti a scelte obbligate, il mondo degli sperimentatori scientifici gode di un
livello culturale e di conseguenza socio economico spesso privilegiato.
Tutto questo considerato, riveste notevole interesse
conoscere l’atteggiamento emotivo di coloro che, consapevolmente, optano per questa strada, che comporta la necessità di
fronteggiare l’inenarrabile dolore inflitto nella carne viva di vittime, immobilizzate
sui tavoli, quelle che guardano terrorizzate ogni loro movimento nell’attesa
insopportabile del prossimo gesto, quelle che supplicano pietà perché non hanno
commesso colpe, quelle che lasciano
solo intuire i propri gemiti perché le
corde vocali sono state tagliate, quelle che possono chiedere grazia solo a chi
è il responsabile del loro
martirio, esattamente come accade alle
vittime della tortura di ogni dittatura, di ogni scellerato aguzzino. Cosa
provano i vivisettori nel guardare questi animali disperati, terrorizzati, impazziti dal dolore e dalla
paura? Non sono domande da poco conto, perché all’interno del
macrosistema, sono i singoli individui a
consentirne il funzionamento: se il grande contenitore della vivisezione è
costituito dalle convinzioni esistenziali,
filosofiche, religiose che vedono nel mondo degli altri animali il
magazzino inesauribile di materia prima, se sono gli enormi interessi economici coinvolti, a fare inizio da quelli delle società
farmaceutiche, il motore primo di tutto
il meccanismo, nulla succederebbe senza la disponibilità al lavoro sporco. Non sembrano esistere studi specifici che
illuminino sulla personalità dei vivisettori, sui tratti di base e sugli eventuali mutamenti indotti
dalla reiterazione di condotte connotate dalla abitudine ad infliggere tormenti ad esseri senzienti. Non sono d’altra
parte illuminanti le dichiarazioni dei diretti interessati che usano
normalmente risolvere la questione appellandosi al rispetto (?!) con cui gli animali vengono
trattati nei laboratori, una sorta di mantra che scansa l’invito ad interrogarsi sulle proprie
reazioni umane ed emotive. Quali sono
queste reazioni? La presunzione di
essere al servizio dell’umanità è di tale potenza da oscurare qualunque altro
sentire? Sono lecite solo ipotesi:
nelle pubblicazioni scientifiche, anche
la descrizione delle peggiori pratiche che invadono la carne degli animali, documentate da fotografie inguardabili da un essere umano di media
sensibilità, è condotta con un linguaggio asettico, esente da qualsivoglia
compartecipazione, si tratti di piccoli di scimmia con gli occhi cuciti, di gatti con elettrodi nel cranio, di maiali
usati per cronometrare il tempo necessario a morire in variegate situazioni. Doveroso, si dirà: la scienza non può
permettersi sdolcinature. Ma nemmeno negli interventi nei vari dibattiti
televisivi succede mai di cogliere
espressioni di dispiacere nè vago disagio, che non sia quello provocato da
domande imbarazzanti.
Certo,
il distacco emotivo, la separazione dell’affetto è condizione imprescindibile
per un lavoro tecnicamente corretto:
l’autocontrollo, che presuppone gestione delle emozioni, è tratto
necessario così per il medico che deve
imporre un percorso doloroso al suo paziente, come lo può essere a volte per un
genitore che deve aiutare un figlio in difficoltà: ma in questi casi la
capacità di tenere a bada l’emotività trova il proprio senso nel perseguimento
del benessere dell’altro, che richiede non di abolire, ma di controllare le
proprie reazioni. Nel caso della vivisezione tutto si può sostenere tranne che sia
pratica condotta nell’interesse
dell’animale coinvolto. In assenza di outing al riguardo da parte dei
vivisettori, non resta che rifarsi a spezzoni di filmati, rigorosamente clandestini e quindi rari, girati nei
laboratori: mostrano beagle gettati violentemente e rabbiosamente contro il muro perché,
nonostante la loro assoluta mitezza, provano a
ribellarsi all’ago troppo grosso forzato nella vena; mostrano
ricercatori prendersi una pausa di riposo per caffè e quattro chiacchiere mentre il coniglio sul
tavolo è lasciato a “metà lavoro”, tanto di lì non si muove; mostrano la ricercatrice sorridere alla videocamera mentre muove gli arti inerti, a mò di
bambola, alla scimmietta inebetita, con lo sguardo perduto, la testa
attraversata dalla ricucitura di una ferita che la percorre in tutta la sua lunghezza.
Insomma
un quadro che definire empatico non è proprio possibile. Di certo la
frequentazione quotidiana con la sofferenza induce un progressiva
desensibilizzazione: il cervello è plastico, ogni esperienza si coniuga con
l’attività neuronale e crea nuove connessioni: gli avvenimenti che ci
coinvolgono non vanno perduti dal punto di vista psicologico ed entrano a fare parte del nostro mondo psichico;
è conseguente che muoversi in un universo di dolore e disperazione
comporta plasmarsi su tale esperienza, perdere
sensibilità ed indurirsi. Questo mentre un
altro meccanismo entra prepotentemente in gioco: la capacità di dissociazione, di separare cioè aspetti della propria realtà
interna da altri che risulterebbero incongruenti con il senso della propria
identità. La riprova più eclatante è fornita dai criminali nazisti, che sappiamo conducevano
una vita “normale” al di fuori del loro ruolo. Un esempio per tutti: Franz Stangl,
responsabile, quale comandante del campo di sterminio di Treblinka, della morte
di novecentomila persone, continuò ad avere comportamenti da padre attento e
affettuoso delle sue bambine quando “in licenza”, e da ottimo capo famiglia, buon vicino di casa
e gentile collega di lavoro, per tutti
gli anni che passò da libero cittadino
dopo la guerra, prima del suo arresto nel 1967 (“In
quelle tenebre” – Gitta Sereny – Gli Adelphi) .
Così
ci si deve fare una ragione quando si vedono i vivisettori in abiti borghesi,
compiti e competenti difendere graziosamente il loro lavoro: la dissociazione è
in atto alla grande.
Restano
a mio avviso aperte questioni di grande respiro: vale a dire il fatto che ancora agli inizi sono gli studi sulle conseguenze della
violenza legalizzata, categoria a cui la vivisezione appartiene come del resto
vi appartengono per esempio a livello intraspecifico la guerra, la pena di
morte, regimi carcerari di intollerabile ferocia, certe forme di punizioni
corporali o psicologiche sui bambini, e, a livello interspecifico, la
macellazione degli animali, la caccia, la pesca, l’addestramento degli animali
nei circhi, il loro uso nelle sagre. In tutti questi casi, e in molti altri
ancora, la violenza viene disconosciuta come tale proprio in quanto legale, condotta secondo
regole stabilite, in luoghi stabiliti, da persone stabilite. Per inciso
basterebbe pensare agli stessi atti compiuti in contesti diversi perché a tutti
risultasse chiara la loro inaccettabilità.
Non
bisognerebbe dimenticare che le regole che, in periodi storici specifici, le
società si danno risultano spesso del tutto relative, palesemente scollate dalla morale se esaminate
in epoche o anche solo in climi culturali mutati: ci vuole tempo, purtroppo,
perché quello che pochi illuminati intuiscono, entri nella coscienza della
maggioranza delle persone. Basta pensare alle tante ignominie che nel corso
della storia sono state compiute legalmente , secondo riti e leggi: vogliamo
pensare ai roghi delle streghe, vale a dire di donne e ragazzine troppo belle o
troppo intelligenti o troppo indipendenti per essere tollerate dai maschi
dominanti, bruciate vive sulla pubblica piazza con la benedizione dei tribunali
e nell’entusiasmo della folla? Siccome agiva in ossequio alle norme vigenti,
chi quei roghi accendeva e chi ad essi plaudeva deve godere del nostro
rispetto?
Gli
studi, dicevo, sulle conseguenze della violenza legale non sono ancora
debitamente diffusi e per altro il gran numero di variabili che comportano li
rende per forza di cose estremamente
complessi: difficile per esempio capire
esattamente come incida sulle persone vivere in uno stato in cui vige la
pena di morte, con il correlato di orrori che comporta. Ma alcuni dati
cominciano ad emergere; una ricerca del 1988 per esempio dimostra alla base
della violenza diffusa nella società americana l’intreccio in quella cultura di
“ineguaglianza economica e razziale, punizione corporale dei bambini, sport
violenti, pena capitale e altre forme di violenza legittimata”. La psichiatra Felicity de Zulueta nota che
“In Svezia dove l’abolizione dell’uso di schiaffeggiare i figli è in vigore da
dieci anni, nessun bambino è morto per l’effetto dell’abuso fisico, laddove nel
Regno Unito- dove le punizioni corporali sui bambini sono ammesse- due bambini
alla settimana muoiono a causa di abuso e trascuratezza” (“Dal dolore
alla violenza”- Felicity De Zulueta - Raffaello Cortina Editore) : si aprono nuovi orizzonti di studio e
di comprensione, dove restituire il significato di crudeltà a qualsiasi atto
che abbia come conseguenza il male inflitto coscientemente ad un altro essere vivente, indipendentemente
dalla specie a cui esso appartiene e dal motivo per cui viene cpmpiuto.
Per
concludere, la vivisezione, pratica estrema di prevaricazione della specie
umana su altre e di un individuo umano
su un individuo non umano, imprigionato, immobilizzato, torturato e normalmente
ucciso, si situa all’interno di rapporti di violenza, che sollecitano considerazioni connesse
al tema generale dei diritti e a quello anche più privato della compassione,
dell’empatia, del rispetto, così fondamentali
in ogni relazione e
imprescindibili ai fini di una pacificazione, ora così tremendamente lontana,
degli abitanti di questa terra.
Resta attuale l’invito di
Richard Wagner al vivisettore perchè
guardi non all’interno dell’animale che lui ha sventrato, ma piuttosto nei suoi
occhi: ”Se guardasse ancora più a fondo, gli parlerebbe la sublime tristezza
della natura per la sua esistenza piena di tormento, poiché lì dove egli
scherza con la scienza, l’animale prende la cosa sul serio”, la prende sul
serio fino al punto, alla fine, di abbandonare, inconsolato, il suo respiro su
un mondo dove avrebbe dovuto poter vivere e morire secondo le regole della
natura e il ritmo delle stagioni, e ha
invece dovuto farlo secondo quelle stabilite da chi sciaguratamente ha preso il
comando.
L’uomo di oggi è tutt’altro che essere umano “moderno”!
RispondiEliminaNiente e nulla di questa definizione è vera!
Siamo solo più silenziosi e sofisticati…tutto qui!
Fino a quando non riuscirà ad avere una piena condivisione e consapevolezza di essere vivente unico al mondo quale uomo, animale, vegetale…l’uomo stesso (autonominatosi padre padrone del pianeta) non potrà definirsi essere vivente umanoide progredito.
Solo quando raggiungerà la sua piena coscienza di vita comune condivisa con la Terra e i suoi ospiti…solo allora potrà finalmente essere libero e puro.