SPETTACOLO VIETATO AI
MINORI
L’empatia è la capacità di
mettersi nei panni degli altri, di sentire in una sorta di risonanza interna
quello che l’altro sente: è facoltà formidabile perché dà la possibilità di
prendere atto di qualche cosa che sta succedendo ad un altro, indipendentemente
da un’analisi critica e razionale, per la quale si possono non avere adeguate
competenze, e di fornire un tipo di conoscenza completa, perché immette nel
mondo delle emozioni e dei sentimenti, che sono parte imprescindibile della
possibilità di capire.
Gli studi al proposito, proprio
in virtù dell’enorme importanza che essa riveste a livello personale e
relazionale, procedono incessantemente: la più recente scoperta a cui hanno
condotto, in Giappone, è che bimbi di 10 mesi (esatto: di dieci mesi!) sono in grado non solo di cogliere nessi di
causalità tra diverse azioni, ma addirittura, in situazioni adeguatamente
strutturate, di esprimere preferenza e tifo per chi rappresenta la vittima
rispetto a chi è tormentatore: in altri
termini le radici primigenie dell’empatia e del senso di giustizia sarebbero
precocissime, inscritte nella nostra natura biologica.
L’informazione è tale da
modificare in senso vagamente ottimistico l’idea svilita e mortificata di noi
stessi e dell’umanità in generale di fronte al disastro ben visibile intorno a
noi e a noi del tutto imputabile. Accanto alle ottime considerazioni che ci
consentono di pensare ( illuderci?) che, stando così le cose, forse non tutto è
perduto, che c’è ancora spazio per tentare un riscatto dal male profondo che
popola questo nostro mondo, l’informazione comporta anche una doverosa presa
d’atto della responsabilità che abbiamo verso le nuove generazioni che, biologicamente
in grado di rendere il mondo un posto migliore di quello che è, possono d’altro
canto a causa nostra divenire bersagli di input tali da invertire malauguratamente la rotta.
Anche la sagra dei osei in questa
dinamica fa la sua parte, parte che sarebbe ingiusto sottovalutare. Questa, come
tutte le sagre, è anche luogo di ritrovo e di festa dove portare i bambini, che
ne costituiscono di conseguenza pubblico privilegiato. Mettiamoci allora per un
po’ dal loro punto di vista, usando quell’empatia di cui anche noi adulti, per
quanto deteriorati possiamo essere, non possiamo non conservare traccia: cosa vedono i loro occhi? Vedono
“osei”, alias uccelli, uccellini, volatili di ogni specie, grandezza e tipo
chiusi dentro gabbie; gabbie numerose, l’una sopra all’altra e l’una di fianco
all’altra, a formare un enorme reticolato che separa la vita articolata e ricca
del di fuori dalla coercizione e dai limiti del di dentro. Vedono animali variamente stipati, a volte immobili, a volte soggetti
a stereotipati nervosi movimenti del
capino; vedono bestioline ferite e
lasciate lì; altre che si indovinano collassate dal caldo; altre ancora che
sbattono infinite volte contro il metallo delle gabbie. Vedono una realtà fatta di reclusione, imprigionamento, isolamento dal
contesto naturale; di impossibilità a fare quello che gli uccelli per
definizione fanno: volare, che è di
certo cosa buona e bella, tanto che noi
umani gliela invidiamo e in mille modi cerchiamo artificiosamente di
riproporla, pur non essendo certo stati attrezzati dalla natura a farlo. E
invece no, a loro non glielo facciamo fare: sole, luce, rami da raggiungere,
giochi a rincorrersi, amoreggiare e litigare nell’aria, tutto rigorosamente
vietato a tutto vantaggio di una stolida carcerazione di loro che sono detenuti
senza colpa. Magari vedono, i bambini, anche
un prezzo esposto sulla gabbia, tanto per fugare ogni dubbio: noi gli uccelli
li vendiamo e li comperiamo, li rinchiudiamo e li spostiamo dove vogliamo.
I bambini, lo si è detto, possiedono senso di giustizia
innato, si inteneriscono, tifano per il più debole, si oppongono a modo loro ai
soprusi mettendosi fianco a fianco di chi li subisce. E commoventi sono gli
esperimenti che hanno condotto a queste teorie, esperimenti che impiegano
cerchi quadrati e triangoli di cartone che si attaccano, si difendono o
fuggono. Bene: se è già nella primissima infanzia che si coglie l’arbitrio e
l’ingiustizia del quadrato che attacca il cerchio, o del triangolo che sfugge
al quadrato, è del tutto certo che esserini in penne e ossa sono in grado di
mobilitare simpatia e tifo, perché la loro condizione di vittime è percepibile
grazie al linguaggio del corpo, se solo si ha voglia di osservarlo e
decodificarlo. Non è del resto raro vedere bambini che si rivolgono ai loro
genitori e fanno domande, indicando con il ditino e corrucciando la fronte, qualche volta
piangendo. Ed eccola allora la forza dell’educazione intervenire con le parole
a completare il lavoro già fatto grazie all’offerta di un opportuno modello di comportamento: se l’adulto davanti
allo spettacolo ignominioso degli uccellini prigionieri passeggia sorridendo,
ha già predisposto uno schema intrerpretativo di straordinaria forza: ha offerto
una chiave interpretativa, una lettura della realtà in grado di scardinare
quella opposta che aveva cominciato a dimorare nella testa del bambino: il
messaggio elementare è che va tutto bene, è tutto a posto, è così che le cose
devono stare: non c’è nulla di cui preoccuparsi, ci si può divertire e godersi la giornata.
L’impatto è enorme, come è facile
capire sulla base del senso comune, ma anche di
tante ricerche. Basta pensare che studi adeguati hanno dimostrato che
sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale i bambini che avevano
potuto contare sulla protezione di genitori in grado di filtrare
l’interpretazione della realtà in senso rassicurante non mostravano le
conseguenze prevedibili di quelli che avrebbero potuto essere traumi; i
bombardamenti non erano più tali, non c’era alcun pericolo, lo dice la mamma,
il papà lo sa bene; e se loro si mostrano così tranquilli, io ne sono certo. E’
il meccanismo così sapientemente raccontato da Roberto Benigni in “La vita è
bella”: persino la tragedia dei campi di concentramento può essere cancellata e
ricostruita con altre connotazioni da un padre protettivo, che rovescia l’interpretazione
della realtà.
Se i meccanismi sono coì potenti,
non c’è proprio da stupirsi: la realtà delle gabbie degli uccellini è
mistificata dalla serenità degli adulti, che raccontano ai bambini la loro
verità. Bisognerà aspettare lo sviluppo del giudizio autonomo perché i nuovi
giovani adulti possano rivisitare in senso critico queste interpretazioni, ma a
quel punto molti danni saranno stati compiuti. I segnali degli animaletti
saranno stati misconosciuti, disinterpretati, male intesi; saranno state
bloccate le manifestazioni di un’empatia
pronta a manifestarsi.
Lo sanno gli adulti tutto questo?
L’inconsapevolezza è dilagante tra molti; di sicuro ci sono quelli
perfettamente integrati in una realtà gerarchizzata di cui non colgono
neppure la conformazione; altri non hanno la minima intenzione di rinunciare ai
vantaggi conseguenti ad una posizione di dominio e predominio, sulla natura,
sugli animali, sugli altri.
Innegabili sono le responsabilità individuali di chi si fa
protagonista; ma di molte realtà è la comunità, la società a dover prendere atto sulla scorta della consapevolezza che
l’educazione ha un ruolo fondamentale che si esplica non solo sui banchi di
scuola o attraverso tutti i quotidiani divieti imposti ai bambini, ma con i
modelli di comportamento costantemente proposti. Fino a quando le società
offriranno spettacoli di sopraffazione e prepotenza del più forte sul più
debole come momento di spasso sarà tradito il ruolo stesso dell’educazione che
per essere tale deve necessariamente contemplare il rispetto per l’altro come
momento fondamentale, tanto più quanto più questo altro è diverso, debole,
bisognoso di cure. In caso contrario la partita per un mondo migliore sarà già
persa in partenza.
Gli animali per loro stessa essenza
devono essere rispettati nei loro diritti e nelle gabbie non ci dovrebbero
proprio stare; in attesa di gabbie doverosamente vuote, spettacoli quali la
fiera dei osei dovrebbero essere vietati ai minori, in base a quella
preoccupazione responsabile che induce a difendere il mondo dell’infanzia impedendo
ai bambini di vedere quelle oscenità di cui gli adulti sembrano non
poter fare a meno.
Per chiudere, un pensiero
reverente al Jain Charity Birds Hospital di Nuova Delhi dove migliaia e
migliaia di uccelli vengono ricoverati per essere curati gratuitamente in un enorme ospedale
pubblico, con l’unica condizione che, una volta guariti, non verranno restituiti
al loro “padrone”, ma alla loro vita
libera, nei cieli di una città infinitamente più pietosa delle nostre. (Articolo scritto per Nosagraosei)
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