venerdì 13 dicembre 2013

QUANDO TE NE ANDRAI DA QUI


                                                                    
 “Hai solo cinque anni”- dice  Franco Marcoaldi al suo cane- “ma penso di continuo alla tua morte.”  E lui ribatte ”Con tutto quello che possiamo fare: rincorrerci, annusarci, baciarci con la lingua, giocare con i gatti,  cacciare le lucertole, mangiare. Dai retta a me, padrone mio, pensa di meno a te e asseconda il vento.  Svuotato l’io, sarai pieno di vita: importa poco se per un anno, dieci o cento”(Animali in versi). Già: la fa facile il cane: ma come lo svuotiamo l’IO da tutti i suoi fantasmi, come facciamo a vivere un presente incontaminato? No, noi anche quando giochiamo e ridiamo, il vento non lo assecondiamo proprio:  ci lottiamo contro, proviamo a contrastare il tempo  che lui ci porta, restando in compagnia di quella angoscia che è paura senza oggetto, paura dell’ineluttabile, di dover sapere che tutto questo finirà: perché, dopo,  la morte arriva di sicuro.

Il tema della propria morte e di quella delle persone che si amano disorienta da sempre l’umanità: è un nemico, un’intrusione che induce all’elaborazione di filosofie e religioni in grado di dare un senso alla limitatezza del tempo, così poco consona all’infinitezza dei nostri pensieri, dei nostri progetti, del nostro IO smisurato,  e anzi di fare per noi qualche cosa di più, quando ci assicurano  che possiamo stare tranquilli, non è così, si fa per finta e dopo, in un modo o nell’altro, con o senza corpo, nel nostro o in quello altrui,  si risorge e si  ricomincia a vivere.

giovedì 5 dicembre 2013

RISPOSTE ARTICOLATE A TRE DOMANDE SEMPLICI: perché amiamo i cani, mangiamo i maiali, indossiamo le mucche.



di Annamaria Manzoni
“Non ci sono domande più pressanti delle domande ingenue” dice Wistawa Szymborska. E “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali, indossiamo le mucche”, le tre domande che Melanie Joy si pone (e pone a titolo del suo libro-Sonda 2012), sono essenziali nella loro capacità di andare dritte al cuore del problema. 


Sui motivi per cui amiamo i cani non ci sono problemi: siamo in grado di rispondere in modo eccitato, perché vengono toccate nostre corde scoperte e diventiamo subito incontenibili nel fornire motivazioni che attengono alle doti di fedeltà, intelligenza, amorevolezza che i nostri animali preferiti, ne siamo certi,  posseggono, e su cui non abbiamo neppure un dubbio che qualche ruolo lo giochi la proiezione. Che se  anche fosse, del resto, che importa? Va bene  così.

 Sono gli altri due interrogativi a provocare in genere più  di un momento di latenza, necessario a riordinare le idee per andare a cercare argomentazioni, davvero faticose, a sostegno di ciò che appare talmente ovvio da farci giudicare le domande irragionevoli, provocatorie nella misura in cui sollecitano spiegazioni su ciò che non ne contempla. Proprio qui risiede il fulcro delle articolate argomentazioni di Melanie Joy: nel non potere, le risposte a queste domande,  essere trovate  se non all’interno di  una spiegazione tautologica  riferita al fatto che la ragione ultima e vera del nostro nutrirci e servirci degli animali si trova  semplicemente nella considerazione che non esiste nessuna ragione se non quella, disarmante,  che semplicemente  le cose stanno così. Nel fatto, cioè,  che siamo talmente immersi in una cultura che, in fatto di rapporto con gli animali, stabilisce regole di riferimento basate sul loro regolare, continuo, scontato sfruttamento, che , pure educati come siamo a mettere in discussione in modo disincantato ogni comportamento, tanto da sottoporre a una ruminazione dubbiosa persino le ragioni della scelta del dentifricio al supermercato, non ci poniamo domande davanti al piatto di carne che consumiamo, e ci asteniamo da riflessioni sulla sua origine ed essenza, che pure vanno a confliggere con  realtà immense per grandezza, importanza, implicita violenza e sofferenza.  

sabato 2 novembre 2013

E PER TESTIMONIAL UN MAIALE ARROSTO



Non  è facile trovare le parole : straziante è comunque la sensazione che deriva e colpisce allo stomaco, alla mente e al cuore davanti all’immagine (Repubblica, 01.11.2013):
un maiale arrostito, disteso intero su un tavolo, con il muso in primo piano e il corpo legato da una corda che gli gira intorno. Immagine già di per sé insopportabile; ma non basta: un cuoco appoggia una mano sulla sua schiena, ma a farla da padrone con il suo valore aggiunto è  un signore in abito scuro e camicia chiara, che gli pizzica la testa con le dita, piegandosi in avanti: sorride e guarda compiaciuto l’obiettivo. Neppure in un safari l’animale ucciso sarebbe proposto al  fotografo con maggiore compiacimento per il  proprio operato.

sabato 12 ottobre 2013

CAPITINI E GLI ANIMALI

“Il vegetarianesimo è in stretto rapporto con i problemi morali e religiosi, ed anzitutto con il problema dei fini e dei mezzi.”
                    (Da "Aspetti dell’educazione alla non violenza")
Aldo Capitini diventò vegetariano nel 1932, in pieno regime fascista e mentre cominciavano a soffiare venti di guerra: non fu un caso perché la decisione era parte della sua opposizione al clima di sopraffazione in atto e a quanto si preparava ad avvenire; era infatti sua precisa convinzione che, se si fosse imparato a non uccidere gli animali, a maggiore ragione si sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini.
Da questo fondamentale assunto il suo pensiero prese a snodarsi, anche nel campo dei rapporti interspecifici, in senso assolutamente avanzato, pacifista, controcorrente: parlò dei doveri morali che abbiamo nei confronti degli altri animali, con i quali abbiamo innegabili vincoli di parentela, e sottolineò come la scelta nonviolenta nei loro confronti abbia delle ricadute sul nostro modo di essere e di percepirci, sulla nostra stessa disposizione d’animo, che diventa più benevola, sulla nostra autopercezione come persone più franche, calme, affettuose. Porre fine alla leggerezza sterminatrice e alla freddezza utilitaria normalmente impiegate nello sterminio degli animali si riflette in accrescimento di valore interiore.

mercoledì 25 settembre 2013

COME LA LA ROMANIA L'UCRAINA 2012

EUROPEI: CAMPIONATI DI CHE?
L’attesa per l’inizio dei campionati europei di calcio sta per concludersi, e con lei, speriamo,  la strage delle migliaia di cani da cui le strade dell’Ukraina dovevano essere ripulite per l’arrivo degli dei del pallone e dei loro fans, uomini duri sì, ma amanti dell’ordine e della pulizia. Visto che  solo la “conclusione  dei lavori” ha consentito la fine del massacro non si può non parlare di grave sconfitta di tutte le  iniziative che hanno avuto luogo per mesi contro questo sterminio: proteste, striscioni subito oscurati e multati perché non si fa, lettere, appelli,   petizioni, diffusione di foto e di video, nella convinzione che davanti alle immagini dell’orrore di sicuro qualcosa sarebbe successo. Niente da fare: le cose hanno seguito il corso stabilito da chi, manovrando le leve del potere, ha proseguito imperterrito, certo di poter contare se non sul silenzio del mondo del pallone, di certo sull’assenza di iniziative che andassero oltre una pacata protesta. Niente di diverso dal sospiro di sollievo che, quando arriva Pasqua, sottolinea che non si uccidono più agnelli, perché sono morti tutti,  o, alla fine del periodo natalizio, ci consola perchè finalmente la gente, abbuffata e satolla, magari per un po’ si asterrà dal mangiare altri animali.

martedì 24 settembre 2013

DALLA ROMANIA CON DOLORE




“Uomini chiamati rosticcieri-trattori si mettono in mezzo alla strada per affondare il coltello nel dorso di un agnello belante (….); poi si abbandona lo sventurato animale che, dopo avere perduto il sangue goccia a goccia, spira con una lunga agonia. Questa scena, che si rinnova a tutte le ore del giorno, ha per spettatori tutti i bambini del vicinato i quali, già  intrepidi come il vittimario[1], insultano l’agnello immolato”.

Questo passo fu scritto da Sylvain Marechal, giornalista e scrittore, verso la fine del 1700; descrive la situazione della città di Parigi, in cui i macelli erano all’aperto, e operavano in continuazione sotto gli occhi di tutti, fornendo uno spettacolo straziante a cui rispondeva da una parte l’indifferenza dei passanti, dall’altra il tifo per il più forte da parte dei  bambini, lì ad imparare la lezione quotidianamente impartita.

domenica 8 settembre 2013

IL BAMBINO GIORGIO. E TUTTI GLI ALTRI




Giorgio, il bambino di tre mesi, in ospedale   perché papà e forse mamma gli hanno spaccato le ossa, quelle del cranio comprese, resterà cieco e sordo per tutta la vita. Commenti? Il linguaggio sempre più spesso è inadeguato, non possiede le parole per dire quello che la mente non vuole pensare: barbarie, crudeltà, ferocia sono termini abusati, non bastano, e altri non se ne trovano. Epoche antiche, dittature sanguinarie, luoghi di guerra ci hanno fornito esempi memorabili di performance  di questo tipo, ma in questo caso, nella Palermo dei nostri giorni, all’interno di una famiglia di certo fortemente disturbata, ma non di quelle avvolte in quel degrado economico e sociale che a volte sembra fornire inaccettabili alibi, l’orrore riesce a diventare ancora un po’ più forte: perché quando tutta  la possibile crudeltà viene rivolta contro il proprio bambino, reo di avere pianto, quando, dopo, l'unica preoccupazione sembra quella di  trovare il mezzo per cavarsela, perché una pena non si ha proprio voglia di affrontarla, non resta che tacere.
Tacere e agire. Cosa che ha fatto  un imprenditore milanese, anonimo per suo volere, che ha dato la disponibilità ad occuparsi vita natural durante di quel bambino, offrendogli tutte le possibili cure: non saranno sufficienti per ripagarlo di ciò che non potrà vedere né di ciò che non potrà sentire; non basteranno perché possa convivere senza sfaldarsi con l’insostenibile consapevolezza di essere stato oggetto di tanta malvagità da parte di chi aveva il dovere di proteggerlo; non basteranno: ma di certo conteranno molto.
Molti sono i pensieri che nascono a proposito delle istanze contenute in questa generosissima azione: per tollerare gli abissi della sconcertante oscenità che il male può raggiungere bisogna fare gesti che lo contrastino, che diano la possibilità di credere che, se il male è così grande, altrettanto lo può essere il bene. Soltanto così si può provare a  rendere tollerabile a se stessi e agli altri l’appartenenza al genere umano, altrimenti in quell’abisso non potremo non essere trascinati.
Al di là dell’enorme pena per un bimbo, devastato oltre l’immaginabile, e del senso di incolmabile ingiustizia, a muovere il signore di Milano c’è forse più in generale una  ribellione contro la presenza del male nel mondo. In modi diversi e in altre situazioni, non sono poche  le persone che, come ha fatto lui,  oppongono una resistenza ed una rivolta ad oltranza alle ingiustizie, anche a quelle che non hanno luogo sotto i loro occhi, andando a ripararle là dove più violentemente vengono compiute. Lo fanno medici, infermieri e personale tutto nelle zone di guerra; lo fanno missionari nelle missioni più sperdute; lo fanno tanti cittadini che trovano nel volontariato una struttura in cui il non ricevere alcun compenso per  le proprie azioni di aiuto le rende schiette e incontaminate.
E’ importante ricordare che altre persone fanno parte di questa schiera: sono tutti coloro che raccolgono per la strada cani feriti, affetti dalle peggio malattie, mezzo morti di fame; che spendono tutti i loro soldi per sfamare ogni giorno colonie di gatti ; che dedicano tempo preziosissimo ad un maiale o una mucca salvati dal macello. Credo che, oltre ad essere risposta immediata, empatica e compassionevole alla sofferenza di  un singolo animale, comportamenti tanto assoluti da condizionare una vita intera  testimonino del  bisogno, dell’urgenza, dell’ineluttabilità  di opporre all’infinito male che quotidianamente viene inferto a un numero altrettanto infinito di animali il bene che si è in grado di produrre, con azioni che il  mondo non lo salveranno, ma in qualche modo flebilissimo e fondamentale lo renderanno un posto un po’ migliore. Di certo  non si sposta di molto l’ago della bilancia che resta bene inchiodato sul negativo; per un animale messo al riparo, ve ne  sono schiere sterminate che subiscono una sorte atroce. Ma proprio in questo genere di  gesti riparatori è forse contenuta la forza che rende possibile continuare a stare, nonostante tutto, su questa terra.   “Mi vergogno di essere parte dell’umanità” è esclamazione comune di fronte alle ingiustizie commesse contro gli animali esattamente come contro tutti gli esseri deboli e indifesi. E’ come se esistesse una sorta di responsabilità personale in atti compiuti da altri, di cui ci si sente compartecipi e colpevoli in quanto, come membri della stessa specie, si è contaminati dalla stessa natura potenzialmente spietata .  Non è necessariamente sotto i nostri sensi che avviene ciò che ci sconvolge, ma esiste nell’inconscio collettivo di cui il nostro inconscio è partecipe. La risposta allora può essere quella di lasciare scaturire  dal cordoglio, dalla sofferenza, dal senso di colpa la spinta ad un gesto  riparatore,  che possa ridurre la responsabilità, ristabilire una forma di armonia, ripristinare un’integrità necessaria. La spinta etica diventa mezzo di sopravvivenza psicologica.
A volte la sproporzione tra le forze in campo travolge e la riva depressiva diventa l’unico approdo, perché nessun risarcimento sembra bastare: non sono pochi coloro che, spinti da una necessità imperiosa a  mettersi al servizio di altri animali,   travalicano ogni limite personale: nulla sembra bastare davanti al proprio giudizio implacabile. Bisogna fare sempre di più a rischio dell’annullamento, fisico o psichico,  di se stessi e scendere  in abissi  di sofferenza, dove non c’è possibilità di dare sollievo ad un senso di colpa cosmico, che si trasforma in volontà di espiazione e di annientamento.
Bello sarebbe se ci fossero, ma non ci sono, strade già segnate: forse la capacità di indignarsi resta l’arma più potente, se l’indignazione non resta vacua parola ma diventa strumento per cambiare le cose del mondo. O, molto più semplicemente, per fare la propria parte nel contrastare le cose di questo mondo: in difesa di tutti gli indifesi, di qualsiasi specie siano.

domenica 28 luglio 2013

DAL PORCELLUM ALLA PORCHETTA: IL PASSO è BREVE




Fu l’onorevole Calderoli a definire "porcata", da cui poi il termine invalso di "porcellum",  il sistema elettorale da lui stesso sostenuto nel momento in cui cominciò a considerarlo una sozzeria, un abominio, un disastro. Prescindendo dalla spensieratezza con cui  un uomo politico prende atto dei propri errori  e  serenamente resta dov’è,  non può non colpire la determinazione con cui l’onorevole pesca nel suo bestiario  interiore in cerca di metafore ad hoc. E se è nel  mondo dei primati che trova immagini che, nel suo pensiero, sono utili a denigrare la gente di colore, è di quello dei suini che si serve per connotare  lo sprezzo per ciò che ritiene innegabilmente idiota: una vera porcata, insomma.

lunedì 22 luglio 2013

L’ONOREVOLE E L’ORANGO







 I PENSIERI E LE PAROLE
 L’onorevole (a quando la messa al bando degli ossimori?!?) Calderoli che pensa ad un orango quando guarda il ministro Kienge è l’occasione per alcune riflessioni sul linguaggio. Linguaggio che non è mai casuale:  veicola informazioni, idee, modi di pensare non solo attraverso l’elaborazione del pensiero, ma anche grazie all’uso dei termini che sempre sono carichi di un significato che va oltre il letterale per includere il suggerito, il metaforico, il simbolico.
Il mondo animale, in questo senso, è un pozzo senza fondo di idee, qualche volta frutto di associazioni logiche, molto più spesso legate alla rappresentazione che degli animali abbiamo costruito, altre volte ancora connesse ad una distorsione di pensiero.
Si può cominciare dalla constatazione che metafore dal mondo animale sono regolarmente e sapientemente utilizzate nel corso delle guerre, antiche e moderne,  quando la necessità di solleticare i peggiori istinti, di animare un odio che stenta a svilupparsi perché non è nutrito da alcuna ragione, connota con epiteti animali il nemico: lo scopo, purtroppo raggiunto, è quello che l’altro viene disumanizzato, abbassato al rango di animale non umano, e in questo modo reso più facile vittima di una violenza irragionevole. “Prima di morire, la vittima deve essere degradata, affinchè l’uccisore senta meno il peso della sua colpa” commenta  lucidamente Primo Levi (“I sommersi e i salvati”, Einaudi 1986) cercando l’introvabile senso degli orrori di Auschwitz. L’elenco è quanto mai vasto: era Churchill a parlare del “cane giapponese”, i giapponesi definivano “maiali” i cinesi,   “topi di fogna” erano gli ebrei durante il nazismo, “scarafaggi” i tutsi nel massacro a colpi di machete in Ruanda, “tacchini” gli iracheni in fuga nella guerra del golfo; topi drogati, nel linguaggio di Gheddafi, i ribelli che lo stavano spodestando nella guerra civile del 2011.

giovedì 4 luglio 2013

LA PELLICCIA DI LUCIO DALLA E LE CORNACCHIE CONDANNATE A MORTE

Alla morte di Lucio Dalla, nel marzo del 2012, tra le tante fotografie pubblicate, due lo vedono, in tempi diversi, avvoltolato in pellicce di imprecisati animali



C’è una fotografia di Lucio Dalla che obbliga a tanti pensieri, quella in cui appare avvolto in una pelliccia, di animale non bene identificato. Superfluo tessere le lodi di Lucio Dalla e ricordare che  lui è stato molto di più di un cantante, è stato il cantore di un’umanità sconfitta, ha guardato nelle pieghe delle ingiustizie sociali e ne ha colto la sofferenza; ha visto la pena dei carcerati e ne ha condiviso gli aneliti a vivere la propria umanità nei sentimenti umiliati da una giustizia disumanizzante. Il soldato che, in Itaca, combatte una guerra che darà vanto solo al suo capitano ha la stessa profondità del povero  di Bertol Brecht, che, qualunque sarà l’esito della guerra, sarà sempre un vinto.

L’AMBIGUA FASCINAZIONE DELLE ARMI

Negli Stati Uniti un bambino di due anni uccide per sbaglio sua madre con la pistola che lei teneva nella borsetta: e si torna a parlare della diffusione delle armi.
                                                        
La  vendita di armi è  commercio internazionale che non conosce crisi, in cui gli italiani-brava-gente  occupano posizioni di tutto rispetto: se non è recente la notizia degli  indiani dello stato del Madhya Pradesh,  disposti a farsi sterilizzare se il compenso  è un’arma, è invece ciclica quella che  le annuali fiere delle armi in varie città italiane registrano un numero sempre crescente di visitatori (lì i papà ci portano anche i bambini in gita); mai sopite richieste di  norme meno restrittive per la concessione del  porto d’armi a privati cittadini fanno da eco ad ogni argomentazione sul bisogno di sicurezza; se sono addirittura superflue le osservazioni sulle tragedie sempre in onda negli Stati Uniti, anche in Italia di tanto in tanto si legge che in varie città  ”è corsa al porto d’armi”.  
Insomma, per motivi solo in parte coincidenti, il fascino delle armi si esercita sulle nazioni e sugli individui.  
Le considerazioni sulla loro diffusione  per uso bellico richiedono argomentazioni politiche, sociali, economiche: ma, quando si tratta di difesa personale, sarebbe importante non misconoscere la prospettiva  psicologica e concedere  attenzione alle  disposizioni e reazioni personali, punto di partenza di ogni altra  analisi.  Anche i fatti  dell’India, il cui governatore, soddisfatto dell’inaspettato risultato della sua iniziativa,  aveva affermato di avere “disinnescato il mito maschile della virilità con quello ben più forte delle armi”, aiutano ad una lettura a 360 gradi delle complesse dinamiche che restano vivaci dietro l’invocazione al diritto alla legittima difesa.

mercoledì 3 luglio 2013

ZOO, CIRCHI, SAGRE

Foto di Wei Seng Chen


Zoo, circhi, sagre, sono contesti in cui gli animali vengono tenuti imprigionati, costretti in condizioni incompatibili con la loro natura, obbligati a performances estranee alle loro inclinazioni, allo scopo esclusivo di divertire il pubblico. Il fenomeno non è di poco conto se si considera che in Italia i circhi sono circa 300, che gli zoo vanno aumentando pur nelle forme di zooparchi, che hanno ancora luogo annualmente un migliaio di sagre di Paese dove, ad un certo punto, la folla per divertirsi maltratta quache animale.


Non possiamo fingere di non sapere che gli orsi in bicicletta, le tigri che attraversano cerchi infuocati, i leoni seduti sugli sgabelli, gli elefanti che danzano a ritmo di musica nei circhi sono il risultato di tecniche di ammaestramento crudelissime. Un percorso che ha sempre il suo prologo con un rapimento, la sottrazione forzata di questi animali dai loro luoghi di origine con l'inevitabile uccisione di molti esemplari e la morte accidentale di tanti altri. Una sottomissione che prosegue poi con metodi per indebolire la volontà degli animali prigionieri. Con la privazione di acqua e cibo, con gli ordini impartiti alle povere bestie percosse con fruste, bastoni e ferri roventi. Non hanno difficoltà ad ammetterlo gli stessi circensi, i "domatori" secondo cui la libertà e la bellezza della natura sono sacrificabili al gusto di un addomesticamento forzato.

TOPI CHE RIDONO E MAIALI CHE PROVANO NOSTALGIA



 Chiunque abbia un animale sa perfettamente a cosa ci si riferisce quando si parla dei loro sentimenti e delle loro emozioni; conosce l'imbarazzante capacità del proprio cane di immensamente gioire per ogni ritorno quotidiano del suo compagno umano rimasto lontano solo per poche ore come quella di farsi invadere dall'angoscia con crisi di inappetenza al solo vedere ricomparire valigie che risvegliano il ricordo di separazioni inaccettabilmente prolungate; distingue il miagolio di protesta da quello di pigra soddisfazione del micio di famiglia; addirittura si accorge quando gli scatti del suo pesce nell'acquario testimoniano inquietudine e nervosismo o invece, sinuosi e lenti, lo rivelano appagato e tranquillo.

Insomma, la conoscenza e la familiarità, mediati dall'affetto, consentono di prendere atto dell'esistenza articolata di un mondo interiore degli altri animali, fatto per altro già evidenziato alla metà del 1800 da Darwin, che aveva riconosciuto che essi provano emozioni di tutti i tipi: sono gelosi e nostalgici, sentono simpatie ed antipatie, sanno divertirsi e desiderano giocare.

domenica 30 giugno 2013

IL TOPO FABRIZIO







Vuoi attaccare l’altro? Paragonalo agli animali 
                                                                

Siccome non c'è niente  di nuovo sotto il sole, ma corsi e ricorsi storici, dejavu  stancamente si ripetono, la recente polemica del richiamo dell'onorevole Calderoli all'orango, alla vista del ministro Kienge, richiama alla mente pari pari la campagna (2010) della Confederazione  Elvetica contro gli stranieri che rubano il posto di lavoro a chi è nato sul suolo patrio:  si intitolava  BALAIRATT, ballano i topi, e l'immagine di tre topastri veniva usata per  incarnare lo sporco spregevole che sempre viene da fuori, dalle altrui fogne: la soluzione? Ovvio: derattizzare.
Di tutto si può accusare questa campagna tranne che di originalità: l’altro, il diverso, lo straniero, e poi piano piano a seguire il nemico, quello da cui guardarsi e quello da eliminare, ha le fattezze di un animale. Il meccanismo è funzionale ad accentuare le differenze: tanto maggiori queste sono, tanto più forte è l’identificazione con il  proprio gruppo di appartenenza, che spesso non ha altri elementi di coesione se non la distanza da altri.
Tali metafore divampano soprattutto nel corso delle guerre, quando i freni inibitori di qualsiasi tipo collassano, e la necessità di sollecitare aggressività e violenza diventa fondamentale, ma non sempre facile, dal momento che il nemico è identificato come tale dalla classe al potere, ma non da chi deve andare a ucciderlo.

SBATTI LA CARNE IN PRIMA PAGINA



Se uno dei quotidiani più diffusi mette sulla copertina del suo inserto l’immagine di tre grossi pezzi di carne rossa con striature di grasso sotto il titolo "Carne al TOP", la tipologia stessa dell’immagine, più adatta alla vetrina di una macelleria che ad un settimanale, qualche riflessione la impone.
Il piatto è ghiotto, per restare in tema, ed è bene individuare gli ingredienti. Che i media, con il loro potere culturale, sociale, politico ed economico, non mostrino aperture alla difesa del mondo animale è cosa nota e spiegabile: lo sfruttamento animale nelle sue variegate forme dà lavoro e/o arricchisce un infinito numero di persone, allevatori, aziende, commercianti, ricercatori, case farmaceutiche. Ce ne è quanto basta per uno schieramento senza se e senza ma dalla parte "giusta", quella che nega, rimuove, svilisce la sofferenza degli animali. Ma loro sono ubiquitari nelle nostre vite, necessari, irrinunciabili. I media, che non lo
ignorano, si occupano solo di alcuni e solo in determinati contesti: non vi è giornale che non dedichi spazi inteneriti a vicende di cani in attesa del proprio padrone scomparso o alla vecchia signora che spende la pensione per nutrire i gatti; il veterinario dice la sua su come evitasre la carie al coniglietto e tutti sanno quanto funziona la pet-therapy.
Contestualmente un pietosissimo velo di silenzio è steso sul non politicamente corretto, cioè sui tragici costi pagati dagli animali all’alimentazione "normale", basata sul consumo di carne: la pubblicità è pervasiva, ma attenta a scindere nelle parole e nelle immagini il prodotto finito dalla sua origine: troppo sensibile ormai gran parte dei consumatori che mangiano di gusto, ma si ribellano al ricordare l’origine di tante prelibatezze. Decantare il tonno in scatola non è rischioso, perché, poveretto, pressato com’è nella scatoletta, non reca traccia della sua morte cruenta e crudelissima. Così noi, anime belle del mondocivilizzato, ad eccezione di un po’ di machi che come sport praticano la caccia, di tanti vivisettori che si esercitano in quella che autorevoli riviste scientifiche hanno definito "cattiva scienza", di tanti operatori che fanno in prima persona il lavoro sporco e, con le parole di Coetzee, hanno avvolto la loro anima nel carapece, pur sostenendo con il nostro stile alimentare il massacro degli animali, abbiamo eliminato dal nostro repertorio mentale i riferimenti al loro olocausto: davvero una nuova sensibilità si è andata instaurando, grazie ad una progressiva eliminazione di spettacoli di violenza, crudeltà, accanimento brutale, alla cui esposizione si deve un processo di spegnimento della pietà.

PERCHE' MANGIAMO CARNE

L'analisi psicologica di ANNAMARIA MANZONI nell'intervista di Elena Bernabè, www.eticamente.net



 All'interno del suo libro, "Noi abbiamo un sogno",  vi è un'analisi psicologica illuminante riguardo le motivazioni che spingono le persone a mangiare carne: ce le può riassumere brevemente?

Il discorso è articolato e complesso e poco adatto ad una sintesi che inevitabilmente  trascura elementi importanti. In ogni caso,focalizzando  il problema della violenza sugli animali non umani sul “mangiar carne”, si va diritti al cuore della questione perché grandissima parte di tale violenza non è agita da persone sadiche e  malvagie, ma è consentita e supportata da quelle “normali”, per bene, che con il proprio stile di vita, la propria alimentazione , il proprio modo di vestire sono la causa del martirio quotidiano di uno sconfinato numero di loro.
Se fare fronte e contrastare l’aggressività può essere compito complesso, ma per il quale nel corso del tempo sono stati approntati strumenti, frutto di molti approfondimenti sulla sua eziologia,  più complicato è occuparsi di  quella banalità del male, di cui il mangiar carne è chiaro esempio,  che proprio in quanto banale viene accettata nella sua pretesa normalità, senza nemmeno essere riconosciuta come male.
Da sottolineare quanto  la  psicologia sia ancora oggi omissiva al riguardo: le ragioni vanno ricercate, io credo,  nel fatto che coloro che dovrebbero essere gli studiosi di questo fenomeno sono in genere essi stessi  oggetto dello studio che dovrebbero condurre. In altri termini: gli psicologi, meglio: noi psicologi  siamo parte del problema esattamente come lo sono tutte le altre persone, quando non riconosciamo come prodotto di prepotenza e predominio il mangiare  gli animali, nonostante  il corollario di schiavizzazione e uccisione che ciò comporta,   non mettiamo   a fuoco  la situazione , non ci  rendiamo conto della tragedia quotidiana in atto, rispetto alla quale dovremmo sentirci chiamati a intervenire per cercare di decodificarla, dal momento che, per  formazione e professione,  possediamo , o dovremmo possedere, gli strumenti per farlo. Per altro tutte le forme di violenza legittima intraspecifica, vale a dire all’interno della specie umana, (si pensi alla pena di morte, alle punizioni fisiche sui bambini…) sono davvero poco studiate, in se stesse e nelle loro conseguenze, se non in modo indiretto, come per esempio con l’interpretazione degli studi di Milgram sulla obbedienza distruttiva; esattamente  come succede per quanto riguarda la violenza legittima interspecifica, quella contro gli altri animali.
Di fatto sono molti i  meccanismi che consentono il perpetuarsi dell’attuale stato di cose, permettendo di non riconoscere il male, per legalizzato  che sia, insito nel nostro rapporto con gli altri animali: si tratta di meccanismi  inconsci, definiti di difesa proprio in quanto assolvono il compito di proteggerci  dall’angoscia che potrebbe esplodere se la realtà in atto venisse riconosciuta. In primo luogo non si può prescindere dal nostro essere totalmente immersi in una  cultura antropocentrica, per cui il concetto stesso di animale è svilito e identificato non con quello di  essere vivente, sofferente e senziente, ma con quello di entità che è di fatto reificata, ridotta allo stato di cosa. Solo questa rappresentazione dell’animale permette per esempio che la gente possa tranquillamente accordarsi per “andare a mangiare il pesce”, oppure organizzi gioiose grigliate o celebri con soddisfazione piatti stagionali come lenticchie con zampone o polenta con  capriolo. I termini sono scollegati dall’animale che sono,  le vittime indifese non sono neppure pensate, non vivono nemmeno nell’immaginario, non possiedono esistenza propria. Si pensi a quell’immagine tanto spesso pubblicizzata, in cui la sagoma di una mucca è divisa in parti corrispondenti ad altrettanti “pezzi” destinati a variegati  trattamenti culinari: l’essenza stessa dell’animale è negata in favore della sua riduzione a cibo. Tradizioni filosofiche e  convincimenti religiosi teorizzano la liceità di tutto ciò: agli animali  non umani ancora oggi non è stata attribuito il possesso dell’anima, e questo basta alla scellerata giustificazione di ogni male contro di loro: per attribuirla alle donne sono state necessarie lunghissime riflessioni (da parte degli uomini), per gli schiavi è stato più complicato ancora. La cinica osservazione che tenere categorie di esseri viventi in condizioni di inferiorità procura enormi vantaggi a chi detiene il potere non rende ottimisti sul tempo necessario a che una salutare rivisitazione del nostro rapporto con gli animali dia  loro la dignità che loro neghiamo, siano o meno contenitori di quell’anima che pare essere il salvacondotto per ogni attribuzione di dignità.
A questa imprescindibile cornice cognitiva, entro la quale ci poniamo come  razza padrona di altre specie, si affiancano molte altre dinamiche. Un forte ruolo lo giocano  la dittatura della consuetudine,    la pervasività stessa del fenomeno che induce a delle non scelte: l’abitudine si riproduce e si propaga nelle nostre vite inducendoci a reiterare gesti e comportamenti senza che emerga il bisogno di interrogarci al proposito. E così  si continua a  mangiare ciò che si è sempre mangiato. E’ tra l’altro provato che, non solo dal punto di vista psicologico ma anche da quello fisiologico, esiste un adattamento positivo ai gusti e ai sapori  a cui da sempre siamo assuefatti: per rendersene conto, basta il confronto quotidiano con tanta variegata  immigrazione, che ci mostra come  le persone portino con sè dai loro paesi d’origine consuetudini alimentari,  da cui tendono a non staccarsi, non solo per proteggere un filo di continuità con un passato e un luogo pregno di affetti, ma perché i loro stessi sensi, il gusto, l’olfatto si sono programmati ad  apprezzarli. Allo stesso modo  staccarsi da una pratica alimentare in cui i prodotti di origine animale sono potentemente  presenti (e questa, nel mondo occidentale,  è la norma nell’educazione dei bambini) richiede una scelta a fronte della sua perpetuazione che procede “in automatico”, tanto più semplice perchè frutto di  inerzia. Quando nuove consapevolezze, a cui è davvero impossibile sottrarsi,  inducono a prendere atto della realtà di indicibile dolore che questo comporta, altri meccanismi arrivano in salvataggio dal rischio di sperimentare intollerabili sensi di colpa: il fatto che si tratti di un’abitudine del tutto condivisa, ubiquitaria, “normale” induce a non assumere il senso della propria  responsabilità, talmente  parcellizzata da risultare incorporea. Per altro il percorso che porta la carne in tavola è facile da ignorare: non conservando  traccia visibile e percepibile dell’animale da cui proviene,  la gran parte dei cibi cucinati facilita marcatamente i meccanismi  salvifici di rimozione e di negazione:  il salame si è materializzato lì sul  bancone del supermercato, il tonno è sempre stato nella scatoletta  e se un passato è riconosciuto al  pollo è al massimo quello del tempo trascorso  nel forno. E così possono essere i bambini stessi, nel mondo pubblicitario, gli  sponsor di questi “prodotti”, bambini che con tanta facilità sono indotti ad ignorare il dietro le quinte di tutto ciò, bambini rispetto ai quali gli adulti compiono dei veri disastri nel trasformare quella che è la loro naturale attrazione affettiva verso gli animali in quell’appiattimento sullo status quo, che passa dalla negazione del problema alla sua progressiva accettazione attraverso un processo di desensibilizzazione.
Non si può dimenticare come le società, le culture si preoccupino delle propria sopravvivenza  riproponendo valori sempre uguali a se stessi: l’educazione, la scuola trasmettono riferimenti  che perpetuano l’esistente e   sostengono come valore quello dell’obbedienza, dell’adattamento alle norme. Disobbedire, cambiare lo stato delle cose, ribaltare le abitudini, sconvolgere le convinzioni richiede invece la capacità di dare corso al proprio sentire anche quando questo segue direzione contraria al sentire dei più, richiede fiducia in sé stessi e nei propri pensieri, richiede il coraggio dell’essere contro.
Il pensiero divergente deve sempre difendersi dagli attacchi del conformismo, che si serve di innumerevoli strumenti per affermare se stesso: chiunque si occupi di difesa attiva degli altri animali , per esempio, ha inevitabilmente dovuto fare i conti con il  “confronto vantaggioso”, si è in altri termini sentito obbligato a  giustificarsi davanti all’accusa che ben altri sono i problemi del mondo che meritano dispiegamento di energie, le guerre e la fame, le donne violentate e i bambini sfruttati: ma l’ingiustizia in qualunque luogo è una minaccia per l’ingiustizia in qualunque altro luogo, diceva Martin Luther King in tempi in cui l’utopia sembrava essere ad un passo dalla realtà. E Che Guevara esortava ad essere sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia contro chiunque, in qualunque parte del mondo. Quei chiunque sono sempre e dovunque anche e soprattutto gli animali non umani, tanto disconosciuti come vittime; purtroppo, ed è amarissima considerazione , anche  chi della difesa dei deboli sembra fare ragione di vita oggi sembra ignorarlo.
Non va dimenticata poi la mistificazione della realtà, quella sorta di etichettamento eufemistico che ci parla di mucche felici (di vedersi sottratto il vitellino appena nato, che viene allontanato urlante e disperato), che ci mostra maialini danzanti ( per essere stati evirati,amputati appena nati di denti e coda), che definisce la caccia “buona” (perché stermina a pallettoni animali in sovrappiù per il gioioso piacere di uomini – e donne!- in assetto di guerra), di macellazione umanitaria (ma gli ossimori sono per definizione termini incompatibili tra di loro):il mondo non sarebbe quel disastro che è se venissero usati termini corretti per descrivere la realtà, dice Tom Regan in “Gabbie vuote”. Purtroppo non chiediamo di meglio che sentirci rassicurati: così accettiamo con sollievo la mistificazione della realtà, la negazione di ciò che risulta insopportabile: bisognerebbe invece ricordare che , come dice il filosofo Galimberti, la negazione è la prima radice, la più profonda dell’immoralità collettiva: perché il rifiuto a riconoscere le grandi ingiustizie evita la reazione che potrebbe avere luogo se venissero riconosciute. Molti dei grandi massacri della storia non avrebbero forse potuto essere portati a termine se non fossero rimasti inerti coloro che avrebbero potuto intervenire.
Il  discorso  si complica con tante altre considerazioni che vanno a includere il tema della violenza che non può essere distinta a seconda di chi ne è l’oggetto: perché un link indissolubile, a livello sia di responsabilità che  di conseguente sofferenza,  lega quella esercitata contro chiunque: uomini, donne, bambini, animali. Invece ci nutriamo di  affermazioni generali (“la  violenza è da rifiutare”) , i comandamenti sono assoluti (“non uccidere” ), ma poi è insito nelle convinzioni che gigantesche eccezioni possono serenamente essere elevate al rango di  norma: sui bambini la violenza, che è il vero nome delle punizioni fisiche,  è considerata ancora oggi  educativa anche in alcuni paesi del mondo occidentale, come se i bambini non fossero persone, i più deboli tra le persone; e uccidere gli animali non umani non è peccato.

2- Secondo lei è possibile cambiare questa mentalità "carnivora"? se si in che modo?
A questa domanda credo si possa rispondere solo richiamando il  pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo del cuore: la realtà è devastante e il compito di cambiarla ciclopico, perché,  diceva Saramago, premio Nobel per la letteratura, questo mondo è sbagliato, non imperfetto: sbagliato.
Quali siano i modi più utili per fare la propria parte nell’incidere sull’esistente è difficile stabilirlo; sono comunque tanti e ognuno di essi contiene la  possibilità di modificare lo stato di cose. E’ in circolazione in rete un filmato spagnolo, che mostra l’ operatore di un reparto macelleria  che, dopo avere offerto  ai clienti assaggi di pasticci di carne, molto apprezzati, chiede loro se vogliano  la salsiccia fresca da cucinare e, al loro assenso,  si china a raccogliere da un cesta un maialino vivo, lì insieme ai suoi fratellini, che lui  infila in  una macchina tritacarne da cui escono salsicce già belle pronte. Si tratta, inutile dirlo, di finzione perché il maialino viene in realtà messo in salvo tra le braccia di una ragazza, ma ciò che vedono i  clienti non lo lascia supporre: interessante la reazione dei clienti, che   guardano quello che il macellaio va facendo dapprima stupiti poi costernati: cercano di fermarlo, lo  coprono di insulti :nessuno accetta più di acquistare quello che prima era parso un prodotto prelibato. Il filmato rende evidente l’ ignoranza e la disinformazione che avvolgono  il mondo dello sfruttamento animale, inverosimile  in epoca di internet,  ma reale: persino persone di ottima cultura, di  certo non escluse dall’accesso all’informazione, spesso si meravigliano  per esempio di venire a sapere  che il latte che bevono è quello  sottratto al vitello, quasi le mucche lo producessero in automatico, essendo “animali da latte”. Dato lo stato delle cose, sollevare il velo sulle nefandezze è necessario, come lo è una corretta controinformazione sulla percorribilità del veganesimo senza rischi per la salute.
Ma, al di là delle singole strategie,  il discorso vero  è quello della necessità di un rivolgimento esistenziale, filosofico, di pensiero che rimetta in gioco dalle fondamenta il nostro modo di essere: la  cultura che può opporsi all’attuale stato di cose è la  cultura della solidarietà, dell’ empatia, della comprensione dell’altro, tutti valori che non possono fermarsi sul confine di specie, che è un confine fittizio, ma devono inglobare nel proprio orizzonte etico tutti gli esseri viventi. Una cultura consapevole  che le relazioni devono essere  costruite  sulla collaborazione e non sull’antagonismo, sulla cooperazione e non sulla prevaricazione. Una cultura che riesca a vedere gli animali non umani come, con le parole di Henry Beston  “altri universi captati insieme a noi, nella rete della vita e del tempo; nostri compagni di prigionia nello splendore e nel travaglio di questa terra”.  E che si giochi sulla grande partita che ha inizio dall’educazione dei bambini, che deve essere prima di tutto educazione alla non violenza e  al rispetto, e si propaghi  poi in ogni piega  della società in cui  amplissimi mezzi per ingenerare il cambiamento di certo sono  appannaggio di chi detiene il potere:  ma non potendo avere soverchie illusioni al proposito, dal momento che  tanto spesso il medico è esso stesso parte della malattia, è necessario recuperare la consapevolezza della possibilità di ognuno di poter incidere in modo impensato sulla realtà. Non bisogna dimenticare che “l’ingiustizia è negligenza individuale”, che sulla scena del crimine, oltre a  carnefice e vittima , c’è un terzo personaggio che è lo spettatore, da cui tanta parte del finale dipende. Allora è fondamentale, se spettatori siamo, non essere silenziosi, diventare noi il cambiamento, agire contro ogni infamia, recuperando il senso di vicinanza con tutte le forme di vita, anche attraverso la disubbidienza alle leggi degli uomini, nel rispetto di un’etica che arriva in luoghi pacificati, che tali leggi, oggi, non sanno nemmeno immaginare.

3- Psicologia e vegetarismo: quale delle due ha dato inizio al suo libro?
 E’ stata la convinzione che gli altri animali, quelli non umani, non sono esclusi dall’interesse psicologico:  vivono in numero enorme all’interno delle relazioni con la loro presenza, anche quando non riconosciuti perché ridotti a cibo: è inaccettabile relegarli, come facciamo con l’eccezione dei cosiddetti animali da compagnia,  allo stato di silenzio e di invisibilità. Se è vero che ogni esperienza incide su di noi, sul nostro modo di essere, modificando persino la nostra realtà cerebrale, è fondamentale prendere atto del ruolo degli altri animali nelle nostre vite, prendere atto di loro anche come  oggetti di studio, oltre che, e questo viene al primo posto, di stupita fascinazione, se solo si ha voglia  di guardarli nell’incredibile ricchezza delle loro vite
 Per quanto mi riguarda, posso solo dire che da sempre conosco i nomi di Firpo, Ras, Laika, cani vissuti molto prima che io nascessi e che la memoria di mio padre mi ha consegnato con tanta dolcezza, negli aneddoti della sua infanzia molte  volte ripetuti,  da farli entrare nel mio mondo psichico : che di persone e di animali è popolato .

venerdì 21 giugno 2013

ZOOSAFARI




Di certo uno zoosafari non è uno zoo: non ci son gabbie, gli animali non vanno avanti e indietro con movimenti stereotipati che manifestino la loro sofferenza; non si incrociano gli sguardi immobili di quelli che sembrano avere abdicato persino ai desideri ed hanno smesso di lottare per una irraggiungibile libertà.
Eppure, anche se quelli che vi sono portati a vivere non sono assoggettati alle peggiori limitazioni, tante cose  non appaiono condivisibili in questi luoghi, in cui di naturale non si trova nulla. Il fatto è che qui la loro presenza è finalizzata a fungere da merce, da attrazione per futuri potenziali visitatori, grandi e soprattutto piccoli;  in uno spazio delimitato vengono immessi animali di specie  diversificate, i più svariati, a seconda delle decisioni e delle convenienze del proprietario, che li fa nascere a questo preciso scopo e abitare  luoghi che sono lontanissimi e diversi da quelli d’origine; qui devono restare in una sorta di arca di Noè allargata in cui molte sono le specie che devono essere rappresentate e possibilmente tenute in condizioni che ne favoriscano la riproduzione, ma senza esagerare.
 La  grande maggioranza degli animali che popolano gli zoosafari, quando si trovano nei luoghi dove sarebbero deputati a vivere se lasciati in santa pace, conducono un’esistenza sociale complessa, in gruppi speciespecificamente organizzati in cui esistono relazioni parentali, di coppia, amicali; in cui gli anziani svolgono un ruolo importante per i più giovani; in cui i piccoli crescono con l’apporto di tanti diversi adulti in ruoli differenti. La vita e la morte lì seguono altri ritmi, sono  estremamente composite, affascinanti e tragiche al tempo stesso, perché passano attraverso la lotta per la sopravvivenza, la difficoltà delle condizioni naturali, le differenze marcate dalla propria forza o dalla propria debolezza. Di tutto ciò uno zoosafari non può certo dare conto, imbrigliate come sono le esistenze degli animali lì trattenuti; è scontato che le condizioni originarie non possono essere fittiziamente riprodotte, e di conseguenza ogni intento conoscitivo è destinato ad abortire sul nascere; meglio ancora: non è neppure perseguito, perchè l’unico vero scopo  è miniaturizzare contesti di vita ben lontani dall’originale, secondo le leggi di un  mercato teso a fornire non conoscenza, ma superficiale divertimento.  Non è edificante lo spettacolo di macchine e pullman che attraversano questi spazi sputacchiando i loro gas di scarico; lo è ancor meno quello di vocianti ragazzini che, tra un panino e l’altro, allungano ogni tipo di junk food a quelli tra gli animali che, proprio  come loro, dovrebbero invece poter contare su scelte alimentari sensate.

giovedì 20 giugno 2013

SAGRA "DEI OSEI"



SPETTACOLO VIETATO AI MINORI   

L’empatia è la capacità di mettersi nei panni degli altri, di sentire in una sorta di risonanza interna quello che l’altro sente: è facoltà formidabile perché dà la possibilità di prendere atto di qualche cosa che sta succedendo ad un altro, indipendentemente da un’analisi critica e razionale, per la quale si possono non avere adeguate competenze, e di fornire un tipo di conoscenza completa, perché immette nel mondo delle emozioni e dei sentimenti, che sono parte imprescindibile della possibilità di capire.
Gli studi al proposito, proprio in virtù dell’enorme importanza che essa riveste a livello personale e relazionale, procedono incessantemente: la più recente scoperta a cui hanno condotto, in Giappone,  è che  bimbi di 10 mesi (esatto: di dieci mesi!)  sono in grado non solo di cogliere nessi di causalità tra diverse azioni, ma addirittura, in situazioni adeguatamente strutturate, di esprimere preferenza e tifo per chi rappresenta la vittima rispetto a chi  è tormentatore: in altri termini le radici primigenie dell’empatia e del senso di giustizia sarebbero precocissime, inscritte nella nostra natura biologica.
L’informazione è tale da modificare in senso vagamente ottimistico l’idea svilita e mortificata di noi stessi e dell’umanità in generale di fronte al disastro ben visibile intorno a noi e a noi del tutto imputabile. Accanto alle ottime considerazioni che ci consentono di pensare ( illuderci?) che, stando così le cose, forse non tutto è perduto, che c’è ancora spazio per tentare un riscatto dal male profondo che popola questo nostro mondo, l’informazione comporta anche una doverosa presa d’atto della responsabilità che abbiamo verso le nuove generazioni che, biologicamente in grado di rendere il mondo un posto migliore di quello che è, possono d’altro canto a causa nostra divenire bersagli di  input tali da invertire malauguratamente la  rotta.
Anche la sagra dei osei in questa dinamica fa la sua parte, parte che sarebbe ingiusto sottovalutare. Questa, come tutte le sagre, è anche luogo di ritrovo e di festa dove portare i bambini, che ne costituiscono di conseguenza pubblico privilegiato. Mettiamoci allora per un po’ dal loro punto di vista, usando quell’empatia di cui anche noi adulti, per quanto deteriorati possiamo essere, non possiamo non  conservare traccia: cosa vedono i loro occhi? Vedono “osei”, alias uccelli, uccellini, volatili di ogni specie, grandezza e tipo chiusi dentro gabbie; gabbie numerose, l’una sopra all’altra e l’una di fianco all’altra, a formare un enorme reticolato che separa la vita articolata e ricca del di fuori dalla coercizione e dai limiti del di dentro. Vedono animali  variamente stipati, a volte immobili, a volte soggetti  a stereotipati nervosi movimenti del capino; vedono bestioline ferite  e lasciate lì; altre che si indovinano collassate dal caldo; altre ancora che sbattono infinite volte contro il metallo delle gabbie.  Vedono una realtà fatta di  reclusione, imprigionamento, isolamento dal contesto naturale; di impossibilità a fare quello che gli uccelli per definizione fanno: volare,  che è di certo cosa buona e bella, tanto che  noi umani gliela  invidiamo e  in mille modi cerchiamo artificiosamente di riproporla, pur non essendo certo stati attrezzati dalla natura a farlo. E invece no, a loro non glielo facciamo fare: sole, luce, rami da raggiungere, giochi a rincorrersi, amoreggiare e litigare nell’aria, tutto rigorosamente vietato a tutto vantaggio di una stolida carcerazione di loro che sono detenuti senza colpa. Magari vedono, i bambini,  anche un prezzo esposto sulla gabbia, tanto per fugare ogni dubbio: noi gli uccelli li vendiamo e li comperiamo, li rinchiudiamo e li spostiamo dove vogliamo.

SAGRA DI SACILE



TRADIZIONI SENZA VALORE

“..Nella caccia non vedo che un atto inumano e sanguinario, degno di uomini che conducono una vita senza coscienza, che non si armonizza con la civiltà e col grado di sviluppo , a cui noi ci crediamo arrivati. Basta immaginare la condotta dell’uomo durante la caccia per convincersi che, lasciando libero il passo ai suoi peggiori istinti, egli compie atti che, al solo pensarvi lo farebbero arrossire in altre situazioni. La sopraffazione, la perfidia,le trappole, l’imboscata, l’assalto di molti a uno solo, del forte contro il debole, il ratto dei piccini ai genitori e viceversa, sono altrettanti atti vili per se stessi…. compiuti apertamente durante la caccia”:  si può proseguire parlando di costante suicidio morale perseguito dai cacciatori, dell’assenza di pietà, della gioia crudele di provocare dolore. Sono solo alcune delle espressioni usate nel 1891 da Leone Tolstoj , che la caccia ben la conosceva per averla praticata prima che una salutare riflessione lo inducesse ad allontanarsene per sempre con il rimorso per quello che non aveva capito prima. La connotazione della caccia come attività crudele e incivile  è oggi nel nostro paese estremamente diffusa, tanto che  i cacciatori sono oggi una minoranza del tutto esigua, non più di 7/800 mila:  una progressiva consapevolezza ha indotto un numero sempre crescente di persone non solo a non praticarla in prima persona, ma ad esprimerne una secca  e definitiva condanna. Incredibilmente una classe politica sorda alle istanze dei cittadini di cui dovrebbe essere l’espressione e intrepretare la volontà è succube e prona di una minoranza aggressiva e astorica. Di conseguenza è necessario ancora mobilitarsi  per far valere i propri diritti di cittadini, ma ancora di più di tutti quegli animali, senza diritti e senza voce,  che ne sono le vittime incolpevoli.
Su questa scia si situa la sagra degli osei, celebrata con orgoglio a Sacile, provincia di Pordenone, che mette in mostra ogni 2 di agosto migliaia di “uccelli da richiamo”: espressione già di per sé latrice di una realtà di sopraffazione e inganno: già perché questi uccelli , privati della libertà, rinchiusi in gabbie anguste, obbligati a spezzare il proprio volo contro le sbarre che incontrano cercando un sud, che è iscritto nei loro geni,  nei periodi di migrazione, devono servire a loro insaputa e loro malgrado a richiamare con un canto, che è  di desiderio,  altri uccelli, e  così  portarli giusto giusto sulla traiettoria dei pallettoni dei cacciatori, di quelle persone, cioè, bardate come per la guerra, armate fino ai denti, pronte ad atterrare con immane prova di coraggio esseri di pochi grammi, incantati nel loro volo dalle lusinghe inconsapevoli di altre vittime.
Non credo occorrano commenti: la realtà di prepotenza, sopraffazione, crudeltà e cinismo è talmente evidente che ogni parola suonerebbe superflua. Vale allora solo la pena di fare poche riflessioni sull’orgoglio esibito dai cittadini di Sacile, che celebrano con soddisfazione quella chiamano  festa della natura con  migliaia di uccelli rinchiusi in gabbie piccole e sovraffollate: il tutto per , vantare la  tradizione, che 738 anni di storia non hanno scalfitto.

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Ci risiamo, niente di nuovo sotto il sole, corsi e ricorsi storici, dejavu che stancamente si ripetono.
La nuova campagna della Confederazione  Elvetica contro gli stranieri che rubano il posto di lavoro a chi è nato sul suolo patrio (no! Non stiamo parlando dell’Italia: potrebbe sembrare, ma non è così) si intitola BALAIRATT, ballano i topi: e tre topastri incarnano lo sporco spregevole che viene da fuori, dalle altrui fogne: la soluzione? Ovvio: derattizzare.
Di tutto si può accusare questa campagna tranne che di originalità: l’altro, il diverso, lo straniero, e poi piano piano a seguire il nemico, quello da cui guardarsi e quello da eliminare, ha le fattezze di un animale. Il meccanismo è funzionale ad accentuare le differenze: tanto maggiori queste sono, tanto più forte è l’identificazione con il  proprio gruppo di appartenenza, che spesso non ha altri elementi di coesione se non la distanza da altri.
Tali metafore divampano soprattutto nel corso delle guerre, quando i freni inibitori di qualsiasi tipo collassano, e la necessità di sollecitare aggressività e violenza diventa fondamentale, ma non sempre facile, dal momento che il nemico è identificato come tale dalla classe al potere, ma non da chi deve andare a ucciderlo.
La costruzione del nemico può ricorrere ad  immagini che solleticano azioni e reazioni violente;  ecco allora le metafore animali servire allo scopo: gli animali più gettonati sono i maiali, i cani che devono essere rabbiosi o rognosi, i topi, gli scarafaggi, le formiche. Per limitarci alla storia moderna, Martin Lutero chiamava maiali gli ebrei;  gli indiani del nord America venivano definiti lupi, serpenti e babbuini;  la propaganda nazista equiparava gli ebrei a topi da stanare;  Mussolini preferiva le cimici slave; i giapponesi si riferivano ai cinesi come a maiali; tacchini vennero chiamati gli irakeni nella guerra del Golfo e scarafaggi i Tutsi ad opera degli Hutu.