mercoledì 25 settembre 2013

COME LA LA ROMANIA L'UCRAINA 2012

EUROPEI: CAMPIONATI DI CHE?
L’attesa per l’inizio dei campionati europei di calcio sta per concludersi, e con lei, speriamo,  la strage delle migliaia di cani da cui le strade dell’Ukraina dovevano essere ripulite per l’arrivo degli dei del pallone e dei loro fans, uomini duri sì, ma amanti dell’ordine e della pulizia. Visto che  solo la “conclusione  dei lavori” ha consentito la fine del massacro non si può non parlare di grave sconfitta di tutte le  iniziative che hanno avuto luogo per mesi contro questo sterminio: proteste, striscioni subito oscurati e multati perché non si fa, lettere, appelli,   petizioni, diffusione di foto e di video, nella convinzione che davanti alle immagini dell’orrore di sicuro qualcosa sarebbe successo. Niente da fare: le cose hanno seguito il corso stabilito da chi, manovrando le leve del potere, ha proseguito imperterrito, certo di poter contare se non sul silenzio del mondo del pallone, di certo sull’assenza di iniziative che andassero oltre una pacata protesta. Niente di diverso dal sospiro di sollievo che, quando arriva Pasqua, sottolinea che non si uccidono più agnelli, perché sono morti tutti,  o, alla fine del periodo natalizio, ci consola perchè finalmente la gente, abbuffata e satolla, magari per un po’ si asterrà dal mangiare altri animali.

Il dispiacere e l’amarezza sono  davvero grandi, dal momento che, rispetto alle stragi di animali  che nel mondo occidentale avvengono quotidianamente nei mattatoi e alle tante altre ignominie, quali la vivisezione, la caccia, l’imprigionamento negli zoo e via enumerando, in questo caso la possibilità di un intervento efficace non era impossibile. Certo non ci si poteva illudere che bastasse fare richieste educate perchè paesi che tanto poco rispetto dimostrano per la questione dei diritti in generale ponessero fine all’eccidio che avevano programmato. Avrebbero però avuto conseguenze enormi altri interventi: quello del  presidente dell’UEFA, per esempio che, sollecitato a prendere una posizione precisa, avrebbe potuto assumere un atteggiamento forte e chiaro, con degli aut aut che mettessero in discussione lo stesso proseguimento dei campionati: si è invece limitato  prima a dare pallide rassicurazioni e poi a sottolineare l’estraneità del proprio ruolo all’intera vicenda. Bisogna prenderne atto:   la faccenda davvero non lo riguarda, nel senso che non lo interessa: per lui a contare è il tragitto del pallone, con tutti gli annessi e connessi.

Il presidente UEFA non deve comunque essersi sentito solo  perché a condividere la sua inerzia sono stati  presidenti delle squadre, allenatori, giocatori, riserve incluse, inerzia tanto più colpevole quanto maggiore è il prestigio che li accompagna e con esso il potere di incidere sulla realtà. Invece eccoli lì, tutti rigorosamente compatti nel separare il proprio ruolo dalle vicende in atto.

Siamo di fronte ad  un mastodontico meccanismo di negazione, grazie al quale questi osannati uomini dei nostri giorni hanno potuto trovare la tranquillità necessaria, non farsi turbare, non subire contraccolpi sul proprio rendimento calcistico: solo timidi comunicati ufficiali del tipo che la situazione è ormai sotto controllo , e poi  molto più potenti convinzioni che “Non è affar mio: io cosa c’entro?”. Meccanismo esiziale, foriero delle peggiori conseguenze. La realtà viene negata grazie a quella abitudine a girare la testa dall’altra parte  o a metterla sotto la sabbia, a fare lo struzzo, come ci suggeriscono le metafore non a caso così comuni nel nostro linguaggio, comuni come lo sono i comportamenti a cui si riferiscono: si finge di non vedere nonostante  l’accesso alla realtà sia a portata di mano, di occhi, di orecchie e di cuore; e questa è la condizione per sentirsi innocenti di un male che, appunto, si dice non esistere. I tirocini a questa forma di autoassoluzione perché il fatto non esiste sono storicamente infiniti: quando si rifiuta di essere testimoni, di assumere posizione, di fare il proprio lavoro di uomini, diventa  tutto  possibile. Scomodiamo Martin Luther King che diceva che non è grave il clamore chiassoso dei violenti, ma il silenzio spaventoso delle persone oneste. E lasciamoci raggiungere dalle parole di Albert  Einstein che ci ricordano che il mondo è quel disastro che è non tanto per i guai combinati dai malfattori , ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare.

Come nel miglior copione già visto, la negazione della realtà, nel momento in cui non ha più potuto essere letterale perché le immagini e i filmati hanno continuato ad incalzare nonostante le dichiarazioni che le volevano “sotto controllo”, è confluita nella negazione del proprio ruolo e della propria responsabilità: Io cosa c’entro? E dell’imperativo morale ad agire non rimane traccia.

Davanti ai massacri e alle grandi ingiustizie, si può scegliere di guardare e tacere; si può invece scegliere di indignarsi e di prendere  posizione: e se è purtroppo scontato che sia  la maggioranza a dire sempre  sì, basterebbe una minoranza che non si lascia trasformare in mostro per cambiare il corso della storia, anche di una piccola storia di cani ukraini. Se uno, uno solo, dei giocatori, degli allenatori, dei presidenti avesse alzato la propria voce per condannare il massacro in atto, minacciando per esempio di disertare i campionati nel caso un altro cane ancora fosse stato ucciso, molte cose avrebbero potuto cambiare, non esclusa  una reazione a catena in direzione contraria al silenzio . In tanti studi condotti sui gruppi, sempre emerge che un solo dissenziente è in grado di far  crollare il tasso di conformismo. Il dissidente nel mondo del calcio non c’è stato. Peccato: una grossa occasione persa:  ogni cane sottratto alla crudeltà di una morte ingiusta avrebbe per sempre portato con sè la propria gratitudine, come sempre fanno i cani, così pronti a non recare rancore, nonostante tutto, alla specie umana. Una grossa occasione persa perché il nostro tempo non ha bisogno di eroi di cartapesta da osannare perché centrano una rete (e taciamo a quale prezzo) : ha bisogno di uomini comuni, di quelli che compiono la banalità del bene semplicemente oltrepassando la frontiera che separa la passività dall’azione.

Non è certo il caso di scomodare il coraggio di Perlasca e  Irina Sender, pronti a  rischiare la vita, nei tempi bui del nazismo e dei campi di concentramento, per contrastare il  male fatto ad altri: qui si trattava, nella peggiore delle ipotesi, di rischiare  la partecipazione a un campionato di calcio. Prezzo evidentemente troppo alto.

Il pensiero  ora va a loro, a quelle migliaia di cani catturati, ammassati, massacrati, di cui  forse possiamo immaginare   i pensieri che hanno attraversato la mente  in mezzo a quell’esplosione insensata di violenza, guardando negli occhi il nostro di cane, quando ci fissa in attesa dei nostri gesti da cui sempre fa dipendere felicità o delusione. Del tutto indifferenti di chi,  tra l’entusiasmo generale, verrà proclamato il vincitore di un campionato, che tutti i partecipanti hanno già perso in materia di solidarietà, empatia e rispetto.

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