giovedì 4 luglio 2013

L’AMBIGUA FASCINAZIONE DELLE ARMI

Negli Stati Uniti un bambino di due anni uccide per sbaglio sua madre con la pistola che lei teneva nella borsetta: e si torna a parlare della diffusione delle armi.
                                                        
La  vendita di armi è  commercio internazionale che non conosce crisi, in cui gli italiani-brava-gente  occupano posizioni di tutto rispetto: se non è recente la notizia degli  indiani dello stato del Madhya Pradesh,  disposti a farsi sterilizzare se il compenso  è un’arma, è invece ciclica quella che  le annuali fiere delle armi in varie città italiane registrano un numero sempre crescente di visitatori (lì i papà ci portano anche i bambini in gita); mai sopite richieste di  norme meno restrittive per la concessione del  porto d’armi a privati cittadini fanno da eco ad ogni argomentazione sul bisogno di sicurezza; se sono addirittura superflue le osservazioni sulle tragedie sempre in onda negli Stati Uniti, anche in Italia di tanto in tanto si legge che in varie città  ”è corsa al porto d’armi”.  
Insomma, per motivi solo in parte coincidenti, il fascino delle armi si esercita sulle nazioni e sugli individui.  
Le considerazioni sulla loro diffusione  per uso bellico richiedono argomentazioni politiche, sociali, economiche: ma, quando si tratta di difesa personale, sarebbe importante non misconoscere la prospettiva  psicologica e concedere  attenzione alle  disposizioni e reazioni personali, punto di partenza di ogni altra  analisi.  Anche i fatti  dell’India, il cui governatore, soddisfatto dell’inaspettato risultato della sua iniziativa,  aveva affermato di avere “disinnescato il mito maschile della virilità con quello ben più forte delle armi”, aiutano ad una lettura a 360 gradi delle complesse dinamiche che restano vivaci dietro l’invocazione al diritto alla legittima difesa.
In Italia le diatribe  sul  tema delle armi e sui limiti del loro possesso in nome del diritto ad autotutelarsi da ladri, stupratori e assassini riemergono ciclicamente; il dissenso è tra chi propugna la necessità dell’autodifesa dei buoni contro i cattivi,  e  chi si appella alle  esperienze internazionali, che testimoniano in modo indiscutibile come la detenzione di armi da parte dei privati cittadini, lungi dall’avere funzione di deterrente al crimine, inneschi  piuttosto un’escalation di violenza.
La imprescindibile osservazione di base è addirittura banale nella sua essenzialità: chi detiene un’arma, lo fa per usarla, esattamente come qualunque amante di macchine fotografiche vuole scattare le sue foto e ogni  possessore di auto desidera guidarle: "non si comprano mazze da baseball solo per guardarle né sci dell’ultima generazione per tenerli in salotto".
Dal momento che le  armi, a differenza di altri oggetti di culto,  sono  progettate per  fare del male, il loro possessore è inevitabilmente disposto e preparato a ferire ed  uccidere, e solo casuale sarà che non gli capiti di farlo. Questa fondamentale evidenza viene di norma sottaciuta e inglobata nel concetto di  diritto alla difesa, concetto tutt’altro che equivalente, perché tale diritto  è riferito al  movente causale, non alla modalità di rispondervi: il diritto alla difesa potrebbe infatti essere esercitato con mezzi del tutto differenti, basati su leggi e  interventi adeguati, per non parlare di politiche che si occupassero delle cause che al crimine inducono.    
Se si tace sulla disponibilità ad uccidere di chi invoca il diritto ad armarsi, si bypassa  una realtà che, per scomoda che sia, va invece presa in considerazione: esiste e si fonda su predisposizioni, frutto della complessa interazione tra componenti innate e ambientali, che sono lontanissime dall’essere politicamente corrette.  
Proprio qui, nello spazio che divide la cultura della violenza e dell’aggressività dalla cultura del diritto e del rispetto,  prende ad allargarsi la forbice che separa chi sostiene la liceità del possesso di armi da  chi la nega.
La disposizione dell’uomo alla possibilità di uccidere, l’intrinseca inclinazione anche alla malvagità non hanno bisogno di argomentazioni dimostrative dal momento che è tutta la storia dell’umanità a parlarcene, con la sequela ininterrotta di guerre, sia antiche sia drammaticamente contemporanee, che implicitamente  autorizzano e ipocritamente disconoscono lo smisurato campionario di ogni possibile crudeltà, violenza, sadismo. “Un terribile amore per la guerra” lo definisce James Hillman nel titolo illuminante  di un suo saggio, che individua nello “stato marziale dell’anima”, nella “follia del suo amore” la ragione ultima delle  guerre e, parallelamente,   di ogni atto violento.   
Se è innegabile che istanze violente e aggressive compongono la natura umana,  quello che ha avuto luogo in occidente, entro i confini del nostro paese, nel corso degli ultimi secoli, è stato un percorso che, in direzione dello  stato di diritto,  ha regolamentato i comportamenti stabilendo  limiti sempre più stretti all’espressione della violenza, sia pubblica che privata: ha messo al bando, insieme alla pena di morte, la possibilità delle istituzioni  di togliere la vita  in risposta a  qualsivoglia crimine; ha tolto diritto di cittadinanza alle attenuanti per il delitto d’onore perché nessuna passione può giustificare l’omicidio; ha posto barriere severe all’estensione del  concetto di legittima difesa per evitarne ogni abuso.
Nel costante processo di reciproco rimodellamento e influenzamento, leggi ed opinione pubblica sono andate costruendo, in una dinamica  dialettica e inevitabilmente non lineare, una nuova etica: le norme giuridiche, introiettate, sono divenute norme personali di comportamento: ed oggi in Italia gli omicidi (se si escludono quelli riferiti alle realtà mafiose in senso lato) sono un fenomeno quantitativamente ridotto, ingigantiti se mai dall’esposizione mediatica a cui sono soggetti, sia  in virtù della loro rarità sia al servizio di una politica che ricerca il consenso attraverso risposte immediate e irriflessive alla paura che essa stessa elicita.
 Siamo tutti figli della cultura in cui viviamo, oltre ad essere gli agenti che la forgiano: a mano a mano che la vita umana, nel mondo occidentale,  è andata assumendo un valore sempre maggiore,  le armi sono divenute oggetti strani ed estranei, che molti di noi non hanno mai visto, se non al cinema, tanto che  l’intravedere il rigonfiamento di una pistola sotto una giacca diventa facilmente fonte di  inquietudine. Inquietudine che si rafforza quando si incrociano pistole e mitra di cui sono armati quelli chiamati a difenderci nelle nostre città: “Speriamo che non gli scappi un colpo!” è l’immediato  malfidente pensiero di chi, lungi dal sentirsi tutelato, continua a vedere in un’arma un pericolo innescato: perché  continua ad avere un concetto di cosa significhi  protezione che passa non dalle armi, ma dalla pacificazione sociale.
Il porto d’armi per legittima difesa in Italia è rilasciato per legge a chi detiene o trasporta valori e a chi è esposto a rischi di sequestro, di aggressione, di vendetta. Le categorie coinvolte sono quindi molto ampie: tutti i giudici per esempio corrono pericoli, così come i periti che lavorano per loro, nonché medici, psicologi, assistenti sociali, insegnanti a contatto con detenuti.
Ma, tra tutti costoro, solo una ridotta percentuale decide di richiederlo: il chè è sufficiente a dimostrare che non è una oggettiva situazione, ma una soggettiva convinzione a indurre le persone ad armarsi.
Se si escludono i malavitosi di ogni tacca e gli appartenenti alle forze dell’ordine, nonché parte di chi detiene nel proprio negozio importanti valori,  chi sono le persone “normali” che girano con la pistola? La tipologia è prima di tutto al maschile; la condizione economica è elevata; l’atteggiamento di chi pubblicamente la esibisce o comunque distrattamente la lascia intravedere  è  di  provocatoria sicurezza, di sfida. La  pistola appare una sorta di  appendice fallica ad un machismo in cerca di conferme, rinforzato dalla  reazione di intimidito stupore  che induce negli altri. Imparzialità impone di rilevare che l’universo femminile, in genere non coinvolto in un ruolo attivo, ospita elementi che impersonano una sorta di archetipo di “donna del boss”, che rinforzano con la  loro sensuale ammirazione le imprese virili: valga per tutti l’esempio delle lettere d’amore solleticate dai vari Vallanzasca di turno.
Possedere un’arma significa conoscerla e maneggiarla per rendersela familiare; significa conoscerne segreti e potenzialità; comporta il prendersene cura, lucidarla; soprattutto significa imparare ad usarla il meglio possibile. Progressivamente essa si va trasformando in una sorta di feticcio, di idolo, di oggetto d’amore, importante tanto da  modificare la stessa identità di chi la possiede, in quanto diviene elemento  capace di influire sul comportamento, mezzo per  distinguersi dagli altri, fonte di virile autocompiacimento e  di orgoglio.
 Quante volte la cronaca ci parla di persone che, con “un’arma regolarmente denunciata” hanno un giorno ammazzato un vicino, un amico, molto più spesso un familiare? Ogni caso è diverso dall’altro e ogni caso, in assenza di quell’arma si sarebbe concluso in un modo che non è possibile ipotizzare : ma certo la familiarità con tale “attrezzo” ha indirizzato la reazione, perché  la violenza è anche funzione degli strumenti a disposizione. Inoltre ripetere un gesto abituale è facile e può diventare istintivo: se le circostanze, la rabbia, le passioni obnubilano una mente di solito lucida e prevedibile nel suo funzionamento, diviene una possibilità tutt’altro che remota mettere in atto un automatismo, che, per sua natura, offre un canale di scarico adeguato, in quanto diretto e immediato, ad una  aggressività in cerca di espressione.
Questa privata “corsa agli armamenti” che è il porto d’armi è supportata dalla convinzione di dover tenere a bada il male, che è percepito fuori di sé, in un ipotetico nemico; ma questo nemico non raramente è invece interno a sé, è angoscia paranoide, sospettosità,  diffidenza pervasiva e non riconosciuta,  che cerca di oggettivarsi in qualcosa di esterno, più facilmente osteggiabile. Se il nemico non c’è, lo si inventa: e allora la rappresentazione del proprio mondo privato va  popolandosi di immigrati clandestini minacciosi, di rapinatori privi di scrupoli, di sinistri individui pronti ad irrompere nella propria  casa e nella propria vita. In questo panorama il senso stesso di legittima difesa non può avere  confini reali: perché se l’altro è proiezione di  un universo persecutorio, per difendersene bisognerà inseguirlo, distruggerlo, annientarlo:  magari a scariche di pallettoni.
Che in tutto ciò giochino un ruolo esaltazione ed eccitazione è ben più di un’ipotesi: la trasformazione di sé stessi nel ruolo del giustiziere mobilita la stessa ambigua fascinazione del male su cui si basa il successo mediatico delle imprese di personaggi alla Charles Bronson o alla Shwartzenegger, che celebrano non il senso di giustizia, ma l’apoteosi della violenza.
Quanto alla localizzazione del male, quando non rappresenta  la proiezione delle proprie angosce, spesso non è nemmeno da ricercare tanto lontano, alla distanza di  ladri e assassini sconosciuti: la maggior parte degli omicidi e delle violenze, ormai è conoscenza assodata, hanno luogo dentro le mura domestiche, nella famiglia, tra persone strette da legami profondi. Questo è tema che merita, e su cui sono in corso, ampie e approfondite riflessioni: è certo  comunque che  il desiderio di armarsi per legittima difesa si appella all’esistenza di un nemico ipotetico,  che spesso offusca la reale difficoltà di relazioni;  tale possesso poi finisce per rendere facile e a portata di mano la violenza estrema contro chi, familiare o amico, come nemico non è affatto riconosciuto.
 “Che illusi, se crediamo di poter applicare restrizioni sul porto d’armi!” afferma ancora Hillman, dalla sua ottica sì esistenziale, ma intrisa  della cultura americana  dove “Uzi e Colt, Luger e Beretta sono gli idoli di oggi”,  dove “la carabina è divenuta amico, compagno, fratello”: “altro che orsacchiotto!”. Noi alla carabina non siamo arrivati e siamo ancora in tempo per decidere se quello che  vogliamo è davvero  “portarci la morte nella borsa”  insieme alla pistola.
Per concludere vale la pena ricordare che il referendum svoltosi in Italia nel 1981  contro la liceità del porto d’armi prevedeva, in caso di vittoria,  anche l’abolizione della caccia, in quanto non venivano fatte  distinzioni tra armi da difesa e armi da caccia, nella convinzione che la familiarità con strumenti atti a  ferire e uccidere, non importa se esseri umani o animali, si colloca in un unico terreno, che è la cultura  della violenza.
Se tale  cultura è unita con un inestricabile intreccio a tutta la storia dell’umanità, dobbiamo essere consapevoli che ad essa, e non ad altro, si rende omaggio con la corsa alle armi che quindi la legittimano distraendo dalla possibilità di incanalare le pulsioni aggressive in più auspicabili percorsi.

2 commenti:

  1. Nel bellissimo film "il giocattolo", con Nino Manfredi, viene mostrata questa parabola di violenza portata dalla stessa esistenza delle armi. Grazie per averne parlato, e grazie anche per aver nominato il referendum sulle armi, di cui ebbi l'onore di raccogliere le firme, e che pochi oggigiorno ricordano!
    Antonella Sagone

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  2. Cercherò il film, che non conosco. In fondo anche Alberto Sordi in Finchè c'è guerra c'è speranza, è stato acuto, considerando che si parla di molti decenni fa. Ma pare si debba sempre ricominciare da zero; e magari da un nuovo referendum....Buona giornata. Annamaria

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