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Annamaria ManzoniL’abbandono degli animali è solo l’ultimo atto di un rapporto squilibrato, le cui fondamenta affondano in una svilita considerazione del nonumano. Del resto, li si considera proprietà personale, come indicano gli appellativi “padrone” o “proprietario”. Scrive Annamaria Manzoni: “Non è certo un caso che, nella nostra cultura, gli animali siano mantenuti all’interno di una cornice cognitiva, che li designa come esseri inferiori, in genere disprezzabili e diffamabili…”
Nell’estate rovente in corso, ancora e come sempre a pagare un prezzo ancora peggiore degli umani sono gli animali. Non solo i viaggi della morte verso i macelli diventano quell’inferno in terra che a loro regolarmente destiniamo, né, nel silenzio generale, ci arrivano certo dei report su quanto avviene nei laboratori di vivisezione, che l’epidemia Covid pare avere ulteriormente legittimato in nome della presunta salvaguardia della salute umana. Ma l’homo sapiens non ha remore neppure davanti a quei cani e gatti e altri ancora che gli piace tanto definire d’affezione, e di cui, in difesa del diritto inalienabile alle vacanze, semplicemente si libera. Ci sono i numeri a metterci davanti alla realtà e ci sono i filmati in rete a informarci delle modalità: i numeri sorprendono, ma, per loro stessa natura, non smuovono emozioni. Lo fanno però le immagini di quegli animali da compagnia, i migliori amici dell’uomo trattati come oggetti da lasciare in discarica, perché hanno perso la loro utilità, non servono più e sono anzi divenuti un ingombro: occupano tempo e spazio che si preferisce dedicare ad altro.
Ignobili i comportamenti immortalati dalle riprese visibili in rete: a Castel Volturno un pastore tedesco viene scaricato in un luogo assolato e lui, quando l’auto si muove, cerca invano per un breve tratto di seguirla. Il filmato si interrompe e il resto è lasciato all’immaginazione.
Da Foggia arriva il breve report di un altro abbandono, reso se possibile ancora più tragico dalla presenza di un bambino: quella che si suppone sia la madre scarica il cane, usa il guinzaglio per legarlo a un palo e si allontana, mentre il bambino scoppia in un pianto dirotto, che non ha il potere di smuoverla: lui si dispera e lei neppure si ferma per calmarlo.
In entrambi gli episodi sconvolge lo strapotere dell’umano verso il cane, di cui si può fare quello che si vuole. E angoscia l’assenza di qualsivoglia forma di empatia: la sofferenza dell’animale non viene colta o, se lo è, non origina reazioni conseguenti. Il bambino in lacrime poi parla di molto altro ancora: lui soffre per la separazione e forse sente in sé, oltre al proprio dolore, il riverbero di quello di lui. Quello che non può sapere è che, intanto, sta introiettando una lezione tossica: l’insensibilità della madre farà scuola, perché lei, per il suo stesso ruolo, è un modello di vita, i suoi insegnamenti sono legge morale ed entreranno nel patrimonio esperienziale del figlio. Se è vero che l’empatia si forma soprattutto sulla scorta di modelli di comportamenti empatici offerti dagli adulti di riferimento, il tracollo educativo dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti: il bambino imparerà che quello che lui prova, il suo dolore, è fuori luogo, non ha diritto di cittadinanza perché l’adulto (che le cose le sa) gli sta insegnando che è questo il modo in cui si trattano i più deboli. Disastro educativo, se per educazione si intende prima di tutto e sopra tutto il rispetto per gli altri: le conseguenze sarà il futuro a mostrarle: e, se andranno nella direzione di un indurimento del cuore, dell’indifferenza verso chi ci chiede comprensione e aiuto, ben poco ci sarà da meravigliarsi. Certa è in ogni caso la portata traumatica di esperienze del genere: nei racconti degli adulti ritornano, con tutta la veemenza di ciò che è incistato nella mente come nel corpo, episodi dell’infanzia marcati da una muta sofferenza davanti a un proprio animale maltrattato, abusato, abbandonato da un genitore, e dal cupo senso di disperazione davanti alla propria impotenza. Ferite dell’anima, infettate o meno da successive esperienze, ma sempre capaci di lasciare segni indelebili e di mantenere in vita un dolore pronto a riesplodere quando i ricordi, ricacciati nel profondo, riemergono perché sollecitati da qualche circostanza.
L’idea di abbandonare un animale non si materializza dal nulla
Un docufilm dal titolo più che emblematico, Not a time for children, Non è un tempo per bambini (e chi potrebbe negarlo?), riporta interviste in una Ucraina dalle immense sofferenze storiche, che l’attuale situazione riporta alla luce: una donna molto anziana nel ripercorrere i ricordi di una vita a partire dall’inizio della seconda guerra mondiale nel suo paese, parla di tutte le atrocità viste nel corso della sua storia personale. Ma è nel momento in cui racconta della fuga della sua famiglia sui carri, mentre il loro cane Rex cercava faticosamente di seguirli correndo e lei e il fratellino imploravano inutilmente il padre di portarlo con loro, è in quel momento che una disperazione incontenibile la invade. Rex viene investito e ferito e piange sdraiandosi a morire ai lati della strada: settant’anni anni e tanti ignominie viste dopo, non hanno cancellato la potenza disperante di quell’avvenimento, inizio della fine di ogni illusione.
Ecco, ciò che la guerra aveva reso un’esperienza generatrice di una sofferenza devastante per due bambini, vittime precoci di tanti orrori, oggi si ripete serenamente nella civilissima e pacifica (?) Italia decine di migliaia di volte in una sola estate, non sulla scorta di un cataclisma, ma di una ottusa egoistica insofferenza a una convivenza venuta a noia, al mantra del “liberati da tutto quello che limita la tua libertà”, inno al diritto all’egocentrismo più sfrenato.
Da quale stordimento della sensibilità prende forma questa crudeltà? L’abbandono è solo l’ultimo atto di un rapporto squilibrato, le cui fondamenta affondano in una svilita considerazione del nonumano: troppo spesso l’uomo, nella sua dilagante concezione antropomorfa, non riesce a vedere l’animale come soggetto portatore di diritti da rispettare. Il cane, il gatto, il criceto, il furetto (!), il pitone (!!) e tutti gli altri, vengono scelti con la superficiale noncuranza che si dedica alle cose, a cui viene riconosciuto solo un valore monetizzabile: li si considera poi proprietà personale, come per altro bene indicano gli appellativi “padrone” o “proprietario” con cui si continua a designare il proprio ruolo rispetto ad un animale. Se questo è il punto di partenza, tutto il resto è consequenziale: si è proprietari di cose e, se si tratta di esseri viventi, di schiavi: delle une e degli altri si fa ciò che si vuole.
Non è certo un caso che, nella nostra cultura, gli animali siano mantenuti all’interno di una cornice cognitiva, che li designa come esseri inferiori, in genere disprezzabili e diffamabili: costringerli in questa sorta di discarica morale è il mezzo per continuare a fare di loro ogni sorta di male, senza neppure sentirci in colpa, perché, se sono così spregevoli, in fondo se lo meritano.
Quindi l’idea di abbandonare un animale non si materializza dal nulla, ma germoglia come epilogo di una relazione fortemente stigmatizzabile: altro che affetto quello che prova l’umano in questione se è vero che il termine affezione parla di quel miscuglio di emozioni e sentimenti che lega un essere a un altro, fatto di vicinanza, desiderio di condivisione, attenzione al bene dell’altro che si confonde con il proprio.
Ricordate quanti animali furono adottati durante il lockdown?
Se di relazione affettiva si può parlare si tratta di quella a senso unico, che si muove dal nonumano all’umano e non viceversa: inimmaginabile l’abbandono dell’uomo, anche del peggiore, da parte del proprio cane, sempre disposto a seguirlo in ogni situazione, pronto a trotterellargli al fianco, se mai con un’occhiata interrogativa, subito inglobata nell’ansia, tradita nel respiro affannoso, nel cuore che batte all’impazzata, per una sola paura: non farcela a seguirlo.
Il fenomeno è enorme, dal momento che si parla di 80.000 gatti e 50.000 cani abbandonati ogni anno (poco o nulla si sa degli altri), a cui si aggiungono tutti i casi di restituzione nei quali ci si prende invece la briga, per tacitare una coscienza comunque indulgente, di ritornare al canile, o gattile, di provenienza dove si racconterà di insospettate allergie, dell’arrivo di un neonato, di insormontabili problemi di salute, di disastri economici. E si volteranno velocemente le spalle per sottrarsi allo sguardo giudicante degli operatori e a quello del proprio cane, non sia mai si possa leggervi dentro una supplica. Dopodiché, problema risolto.
Una menzione speciale merita la restituzione di animali, cani in primo luogo, adottati nel corso del lockdown legato al Covid: ad oggi sarebbero oltre 157.000. Il Covid aveva indotto molte persone, inguaribili ingenui, ottimisti nonostante, buonisti per vocazione, al mantra consolatorio “Ne usciremo tutti migliori”: non ne siamo ancora usciti, e una imprevista guerra sta trasformando nel mondo molte persone normali in assassini per procura di chi decide le sorti del mondo. Ci stiamo abituando a un report bellico quotidiano in cui la presa di… l’avanzata verso… l’arrivo di truppe… riempiono le pagine dei giornali che dovrebbero invece essere occupate dalla denuncia della tragedia di singole vite umane (e animali). No: non siamo diventati migliori: anzi nel corso del lockdown l’uso strumentale di altre vite, in questo caso nonumane, si è persino rafforzato: mi sento solo, mi annoio, ho bisogno del cane per essere autorizzato alla passeggiata quotidiana. Vado in canile e mi procuro gratis ciò che mi serve, del tutto incurante delle emozioni e delle illusioni che mobilito nell’altro. Poi in canile ci ritorno e lì lo lascio.
È grave che ancora non riusciamo a collegare le singole forme che il male assume: non lo individuiamo in noi, nei nostri comportamenti, quelli che sono alla nostra portata, che attuiamo senza sensi di colpa, perché incapaci di riconoscerli come forme diverse di un’unica ignominia.
I molti volti della violenza
Lo studioso Stephen Pinker dice che se vogliamo contrastare la violenza, dobbiamo combatterla in tutti i comportamenti in cui si manifesta: dalle sculacciate ai bambini alla dichiarazione di guerra tra nazioni. E in tutte le forme di crudeltà contro i nonumani, aggiungo io. O lo facciamo questo passo di consapevolezza o non arretreremo di un passo dal baratro di immoralità su cui continuiamo ad affacciarci.
Per completezza di informazione, è necessario ricordare che gli abbandoni estivi non sono in funzione delle temperature né di patologie stagionali: sono invece l’apoteosi di quel fenomeno che, in misura più contenuta, non registra tregua nel corso dell’anno, innescato dalle più disparate giustificazioni. Apprezzabilissimi picchi vengono raggiunti in particolare a ridosso dell’apertura della caccia, quando la messa in prova testimonia di una non soddisfacente abilità venatoria del cane. I cacciatori, brava gente, con una spiccata passione per ferire e uccidere esseri indifesi, fanno quindi ciò che a loro è più congeniale: si liberano del loro cane. Faranno altrettanto a chiusura stagione: costa meno procurarsene uno “nuovo” l’anno successivo che mantenere per mesi quello che non lavora.
Certo, la medaglia ha un’altra faccia: esistono persone che non si allontanano da casa per un solo giorno da quando l’amico a quattro zampe l’ha reso difficoltoso o hanno cominciato a frequentare solo posti dove anche lui è ammesso o mai elaborerebbero un progetto di vita che non contemplasse la sua presenza. Ma questo non basta a controbilanciare la barbarie inflitta a tanti esseri incapaci di difesa. Le leggi la sanciscono come reato penale (art. 727 c.p.), ma le pene sono irrisorie (arresto fino a un anno e ammenda da 1.000 a 10.000 €) e soprattutto quasi regolarmente inapplicate. In attesa di un loro inasprimento e soprattutto di una regolare applicazione, si può solo sperare che il rispetto per gli animali che sanciscono vada diffondendosi non come baluardo a una multa, ma come valore da introiettare da tutti coloro ancora incapaci di riconoscere la profonda immoralità di certe azioni.
Basterebbe per altro provare a mettersi nei panni di quei cani abbandonati, destinati a morire, stremati di fame e sete, in qualche luogo negletto, o spiaccicati nell’urto di un parafango o, nella più fortunata delle ipotesi, disorientati nell’estraneità di un canile. I quali, ancora prima della sofferenza fisica che inevitabilmente incontreranno, sperimenteranno la paura, che è la più forte e intollerabile delle emozioni, quando, saranno strappati alla loro normalità, fatta di cose e luoghi conosciuti, di voci, anche severe, a cui dare ascolto; e proveranno un panico, che li immobilizzerà al bordo di una strada o li costringerà a correre disperatamente, senza direzione, lontano. Prima dello sfinimento finale, che, c’è da scommetterci, non avrà cancellato il rimpianto e la nostalgia, se sarà rimasto ancora del tempo. Perché, nonostante tutto, continuano ad amare, loro, con quella ostinazione così ingiustificata, visti gli umani destinatari, da far dire al poeta Kiarostami che “per quanto ci pensi, non riesco a capire la ragione di un tale attaccamento del cane”.
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