martedì 20 settembre 2022

ELISABETTA II, TRA CORGI E FAGIANI

    


Post mortem, si sa, chi se ne é andato sembra entrare di diritto nel consesso delle migliori persone: cordoglio, tristezza, rimpianto e quell’inquietante  senso di ineluttabilità, di fine segnata che prima o poi riguarderà ognuno dei sopravvissuti , appannano le emozioni negative e trasformano anche  i sentimenti meno nobili che magari erano stati l’unica linfa di una conoscenza non apprezzata nel loro contrario. Potenza della nostra psiche, capace di facili giri di valzer tra ammirazione e denigrazione, stima e disprezzo

Se ad andarsene non é un parente o un amico, ma un personaggio pubblico la faccenda é un po’  diversa perché non coinvolge più solo emozioni e sentimenti, ma si entra nel merito dei giudizi di valore: le parole certo tendono a mantenersi  misurate perché i morti inducono ad una forma di deferenza, a cui sono in tanti a non sottrarsi.

Ciò non toglie che i fatti anche meno lusinghieri, magari sfrondati da giudizi offensivi, dovrebbero essere raccontati con la  migliore veridicità possibile. All’interno di questa cornice, colpisce che la già incoronatissima Elisabetta II risulti  incoronata anche come  grande amante degli animali nei titoli di vari articoli reperibili on line.

Limitando rigorosamente il discorso a questo ambito, uno sguardo alla sua intera vita, sulla scorta di quanto riportato nelle pagine di varie testate,   non può che stridere  con questa acclamazione.

Figlia d’arte di un appassionatissimo cacciatore, quale era suo padre re Giorgio VI, fu da lui avviata giovanissima alla caccia, verso cui sviluppò una passione mai appannata dagli anni. Già nel 1952 appariva insieme al consorte Filippo sulla copertina di Shooting Times, rivista che designava già nel nome la  propria convinzione che il tempo di sparare é qui e adesso: con buona pace delle vittime.

E’ poi del 1960 la nota fotografia di lei, in India, orgogliosa davanti alla tigre uccisa dal marito: soddisfatta, lei accanto agli umani che fecero l’impresa,   e l’animale morto ai loro piedi. Curiosamente (???) il  Principe Filippo, grande sostenitore dei trofei di caccia, in quello stesso periodo veniva nominato presidente del World Wide Fund for Nature. Quando si dice ambientalismo…

Si trattava di tempi in cui tutto  il male fatto agli animali, anche solo per divertimento, risultava lecito non solo in termini di legge, ma anche secondo tante coscienze. Ciò non toglie  che sempre ci sono persone capaci di opporsi alle nefandezze, quando le si considerano tali, aprendo così la strada a cambiamenti che magari potranno  realizzarsi solo in un futuro non prossimo; compito fortemente facilitato quando si agisce da una posizione di assoluto privilegio, che consente ogni deragliamento dalla norma diffusa senza pagare pegno: Elisabetta II non era certo tra queste.

Nel  corso del suo lunghissimo regno, la passione e il gusto di uccidere animali braccati, terrorizzati e innocenti non pare avere conosciuto tregue. Nelle tenute reali, tipo Balmoral in Scozia, ungulati e uccelli vengono “ospitati” solo per essere poi liberati e uccisi da nobili e sovrana, che si divertono così  tanto nel farlo, che pare nessuno possa nemmeno pensare di chiedere che so, magari una moratoria per pensarci un po’ su.

Nel 2000 il Sunday Mirror definiva l’allora regina  The killer queen, perché vista torcere il collo ad un fagiano ferito, portatole dal suo cane.

Non se l’era presa molto per questa gogna, però, visto che nel  2004 veniva di nuovo immortalata mentre finiva a colpi di bastone, regale quanto si vuole, ma pur sempre bastone, della selvaggina che aveva avuto la mala sorte di essere stata ferita anziché uccisa in una ennesima battuta di caccia. Pochi giorni prima il principe Filippo aveva riempito di raccapriccio una scolaresca sulla quale aveva fatto piovere nugoli di fagiani, su cui aveva sparato all’impazzata in un’eccitazione incontenibile, incurante che gli uccelli feriti cadessero sulle teste dei bambini in ricreazione nel cortile di una scuola.

Le foto più recenti degli ormai anzianissimi coniugi, lui fucile in spalla, lei con un volatile  (ferito? morto?) pendente dal suo braccio,  attestano di una indomita passione che ha attraversato i pur epocali cambiamenti  a cavallo di due secoli, che hanno visto nascere, oltre all’ambientalismo, l’animalismo, la messa in discussione dell’antropocentrismo, il dibattito sui diritti degli animali. Niente da fare: non un pensiero sulla liceità di tutto questo, sull’ingiustizia in atto, sulla sofferenza delle vittime.

La defunta regina viene altresì celebrata anche per il cosiddetto amore per i cavalli: ma ne avremmo tutti da trarre dei vantaggi se finalmente, al di là della retorica imperante, si cominciasse a separare il concetto di amore da quello di sottomissione e sfruttamento. Questa passione, condivisa con la nobiltà inglese tanto che  l’equitazione è considerata  Sport of the Kings, e condivisa in Gran Bretagna anche  da grande parte della gente comune, trova grande espressione nelle corse, tra le quali in Inghilterra viene celebrata una delle più sfiancanti,  la Steeplechase horse Racing, con Grand National annuale di Liverpool, dove i cavalli sono costretti a correre per 4 miglia saltando ostacoli: impresa ai limiti della sopportazione, che inevitabilmente porta di frequente gli animali a incorrere in incidenti mortali. Ma nemmeno le corse “normali”, il cui numero in Gran Bretagna è spropositato, dovrebbero  essere celebrate come espressione di amore:  i cavalli, frustati secondo norme che regolano quanto e con quale forza per arginare la voglia dei fantini di strafare, devono correre a perdifiato sotto lo sguardo soddisfatto di un pubblico tradizionalmente elegante, se mai eccitato dall’ammontare delle scommesse, che osserva compiaciuto la messa in onda dello strapotere umano su un’altra specie. To break the spirit é l’espressione che gli inglesi usano per riferirsi alla doma dei cavalli: si, glielo spezzano proprio lo spirito. E non si contano quelli che poi  muoiono per cadute rovinose o perché il cuore non regge: i loro fantini in genere ci piangono un po’ sopra, in nome dell’amore che li legava a loro, per poi passare velocemente ad “occuparsi” di un altro esemplare della stessa specie: the show, si sa, must go on.

Illuminante sarebbe anche la visione di qualche filmato (purtroppo oscurato da facebook perché spettacolo violento: tanto per dire)  sui metodi usati per costringere i cavalli a quell’andatura ritmata e danzante, a quell’innaturale postura di collo e testa abbassati, offerte come spettacolo a matrimoni e morti reali e ad altre celebrazioni : si avrebbe  conto di quanto il concetto di amore sia estraneo a tutto questo. Per non parlare del fatto che il rifiuto degli inglesi a mangiare la carne dei loro beniamini si risolve salomonicamente nel macellarli e spedirli poi in Francia dove sono meno selettivi. Un’inchiesta dell’Observer ha messo in luce come neppure i purosangue si sottraggano a questo destino.

Superfluo continuare: Elisabetta II non c’é più. E non c’é più il principe Filippo che con lei ha condiviso tutto questo.

Resta la grandissima preoccupazione per il prossimo futuro: William ed Harry, privi di qualsiasi giustificazione che attenga al clima culturale intorno, dal momento che sono cresciuti in tempi in cui la questione animale non può più essere ignorata, mostrano passioni analoghe a quelle della nonna e della loro famiglia in generale: William nel 2014 era in Spagna ad uccidere cervi e cinghiali; di lui le cronache raccontano che  abbia già iniziato il piccolo George all’età di  7 anni, futurissimo re, alla caccia al gallo cedrone, con la benedizione della pur regale, eterea, raffinata Kate. Anche Harry, apparentemente il più alieno dai vezzi della casa reale, non é stato da meno fino a quando avrebbe  attaccato il fucile al chiodo pochissimi anni or sono per amore di Megan. Possiamo solo sperare in un amore duraturo. La famiglia insomma, che allo sguardo vigile della regina non si è mai sottratta, pare avere bene introiettato la lezione.

E’ quindi di fronte a tutto questo che desta sconcerto il tributo a lei dedicato quale grande amante degli animali.

Certo, ha amato i cani, da cui si é circondata, e allora sarebbe sufficiente definirla amante dei cani, o, con ancora maggiore precisione, amante dei corgi e poi dei dorgi.E amava, raccontano, le api

Certo, nel 2019 ha detto basta alle pellicce: senza  sottovalutare il suo ruolo di modello (per quanto tardivo) per la gente, a 93 anni non deve essere stato proprio un sacrificio.

Nell’annuale  discorso al Parlamento del 2021, considerato storico, ha esortato a prendersi cura di un maggior benessere degli animali, benessere che però non ha messo in relazione alla necessità dell’abolizione della caccia, per sempre intoccabile, né di una virata in senso  plant based, come si tende a dire, dal momento che, a quanto si legge, la sua dieta è stata carnea fino all’ultimo giorno. Ha esortato a considerare gli animali esseri senzienti, ma ci aveva già pensato il trattato di Lisbona, mentre  la dichiarazione di Cambridge aveva già dichiarato gran parte di essi dotati di autoconsapevolezza. Ha perorato un migliore trattamento degli animali negli zoo, ma non ha ipotizzato una loro chiusura. Per non parlare dei sospetti, sostenuti dal Guardian, di uccisione, tra il 2005 e il 2016, di specie protette, nella tenuta di Sandringham (Norfolk), che mai ha potuto essere verificata per il mancato assenso della monarchia alle necessarie indagini.

Insomma, la regina Elisabetta II ha avuto nei confronti degli animali un atteggiamento  assolutamente  antropocentrico.

Purtroppo ha evidentemente contribuito, insieme alla fetta più tradizionalista e conservatrice della popolazione,  a condizionare  anche le nuove generazioni della sua famiglia con il modello proposto, a quanto pare tanto fortemente introiettato da coinvolgere una generazione dopo l’altra, nel vuoto di rispetto per gli animali non umani e in una strenua chiusura alle istanze di cambiamento provenienti da tante parti.

Non serve puntare indici accusatori, perché il passato non si può correggere e le vittime, tante, mai saranno ripagate. E’ però doveroso almeno chiamare le cose con il loro nome., il ché, diceva Rosa Luxemburg, sarebbe già rivoluzionario. Evitando di parlare di amore dove c’è abuso, potremo magari evitare di ritrovarci  su una china in grado di precipitarci nella totale confusione tra bene e male, tanto incistati l’uno con l’altro da non essere più distinguibili.

 

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