Non che la gente comune sappia un gran che delle isole Faoer, che salgono alla ribalta della cronaca in genere una volta all’anno sempre nella stessa occasione: quando i suoi abitanti si dilettano a fare strage di delfini e balene. Si tratta di un gruppo di 18 isole, lassù nel nord, tra Scozia, Islanda e Norvegia, territori autonomi, ma appartenenti alla Danimarca, orgogliosamente estranee al Trattato di Schengen; autorizzate di conseguenza a non rispettare una normativa europea del 1992, che ripudia qualsiasi forma di caccia ai cetacei. La popolazione complessiva, poco più di 52.000 persone si legge, può godere di un tenore di vita che da un po’ di anni a questa parte viene considerato molto più che accettabile.
E’ in questo contesto che in un lontano passato si era andato insediando il cosiddetto Grindadrap, termine impropriamente tradotto come caccia alla balena, appuntamento annuale di caccia ai globicefali , grossi cetacei chiamati anche delfini e balene pilota, la cui carne un tempo costituiva cibo importante per gli abitanti. Ma col tempo la motivazione alimentare è andata totalmente scomparendo e non solo per le mutate condizioni economiche, che non la richiedono, ma perchè: la loro carne è talmente impregnata di mercurio che il suo consumo può essere nocivo al punto da sconsigliarlo fortemente soprattutto a bambini e donne incinte, come ha stabilito un documento della Faroese Food and Veterinary Authority nel giugno 2011.
Oggi questa caccia ha come unica giustificazione al proprio sopravvivere il richiamo al valore della tradizione, in nome della quale ogni anno molte centinaia di animali vengono trucidati con una crudeltà difficile persino da descrivere: i grossi mammiferi sono spinti dalle barche in una baia e, quando ogni possibilità di fuga è loro interdetta, si procede al massacro con coltelli , arpioni, addirittura trapani: il lavoro è lungo da portare a termine, l’agonia non finisce mai e gli animali terrorizzati, aspettano il loro turno, sommersi da un mare di sangue, mentre assistono ai disperati tentativi dei loro compagni di sottrarsi alla carneficina: femmine incinte, cuccioli, maschi: nulla importa. Quelli che dovrebbero essere i cadaveri, ma troppo spesso sono animali feriti, vengono poi portati sulla spiaggia, allineati con una certa cura e lasciati a contorcersi in bella vista davanti allo sguardo del pubblico, di cui fanno parte donne e bambini, le une a celebrare il machismo dei loro uomini, gli altri ad imparare la lezione. Una gran bella festa, insomma, in cui tutto si ferma perché ogni sguardo deve essere rivolto a quegli uomini immersi fino alla cintola nel mare diventato di sangue.
Che dire? Le parole a volte mancano perché il linguaggio non sempre dispone di termini in grado di descrivere la ricchezza delle oscenità che la specie umana sa ideare.
Lo spaventoso spettacolo a quanto pare riesce a supereccitare i maschi locali coinvolti: se gli studiosi riferiscono di un documento, Sheep Letter, che già nel 1298 imponeva limitazioni al numero di balene da uccidere, si deve dedurre che l’attività prendesse loro la mano e già da allora esagerassero forse un po’. Non diversamente da quanto successo in questi giorni, oltre 7 secoli più tardi: il numero di animali uccisi vicino a 1500 è considerato il più grande mai raggiunto prima, così grande da suscitare, oltre ad uno scandalo mondiale, una sorta di reazione imbarazzata da parte della stessa popolazione locale nonché un’esternazione di pur parziale condanna da parte della Commissione Internazionale per la caccia alle balene, che, benchè non famosa per particolare sensibilità in difesa delle stesse, ha riconosciuto una certa esagerazione nel portare a termine il massacro. Qualcosa è esondato: le belve assetate di sangue, incapaci di fermarsi una volta iniziato, non hanno affatto le sembianze di lupo o leone, a cui siamo soliti attribuire questo genere di istinti mortiferi: perché l’uno e l’altro, riempita la pancia, si sdraiano e si girano dall’altra parte. Hanno invece quelle inconfondibili dell’Homo Sapiens, impegnato a nutrire non tanto il proprio stomaco, che prima o poi si riempie, quanto un Io in cerca di presunte conferme al proprio valore, misurato sulla capacità di distruggere l’altro: e di questo l’Io non si sazia mai.
Il nostro sbigottimento per altro non dovrebbe avere ragion d’essere: dovremmo esserci abituati, perché si tratta delle dinamica sempre in atto nel corso delle battute di caccia anche agli animali di terra, quando i cacciatori non vorrebbero mai fermarsi, presi da quel sacro furore, che anche i legislatori moderni conoscono più che bene. Non è un caso, infatti, che le leggi di ogni paese pongano limiti: solo in certi giorni, solo in certe ore, solo contro un numero stabilito di animali si può soddisfare il desiderio di uccidere. In assenza di regole, il sacro fuoco dello sterminio brucerebbe infinite vittime, come dimostrano i terreni ricoperti di cadaveri, poco importa se di cinghiali o di uccellini minuscoli, piantonati da alcuni dei volenterosi esecutori, che si fanno immortalare con orgogliosi sorrisi di soddisfazione, quando sono incuranti delle norme.
Nulla di diverso, se vogliamo allargare il discorso, dal delirio distruttivo che può animare le stragi di umani, quando soldati vittoriosi assecondano una pulsione perversa a massacrare ogni vivente, al di fuori di qualunque pur discutibile “utilità”. Insomma noi umani siamo insuperabili: qualche esempio istruttivo: nella notte di San Bartolomeo (1572), i cattolici uccisero tra 5 e 10.000 protestanti: in nome della stessa religione di pace ed amore. In una sola notte . Se il passato è una terra straniera che pensiamo di non abitare più, nel 1995 la città di Sebrenica di morti, musulmani bosniaci, ammazzati a freddo da quelli che fino a non molto tempo prima potevano essere stati i loro vicini di casa, ne ha contati oltre 8000.
Lo studioso Y. N. Harari, nel definire con dovizia di dimostrazioni la nostra specie come la più ferale che esista negli annali di biologia, visto il nostro passato e il nostro presente, auspica l’emergere di una motivazione a proteggere le specie che sono ad oggi riuscite a scampare alla nostra distruzione in modo particolare i grandi animali degli oceani”. E’ probabile che il suo prezioso libro, Da animali a dei, gli abitanti delle isole Foer non lo abbiano letto e non abbiano potuto accogliere l’accorato suggerimento: ci si aspetterebbe comunque una pur minima consapevolezza di chi sono quegli animali che da secoli ininterrottamente si ostinano con tanta convinzione ad uccidere. Ne saprebbero forse qualcosa, da rudi uomini di mare quali sono avvezzi ad imparare dall’esperienza e non dai libri, se il loro interesse non contemplasse solo la scelta degli strumenti più brutali e mortiferi.
Chi ama occuparsi della loro vita, anziché della loro morte, racconta per esempio che i delfini sono animali molto intelligenti, veloci, dotati di autocoscienza, quindi consapevoli delle circostanze in cui si trovano. La descrizione di uno di loro data dal famoso oceanografo Jacques Cousteau è struggente: costretto in un acquario, morì picchiando il cranio contro i bordi della “piscina” in cui veniva tenuto segregato solo per sollecitare lo stupore divertito del pubblico davanti alla sua obbedienza: fu il figlio Jean-Michel a parlare di suicidio puro e semplice e ad affermare Abbiamo ucciso un delfino disperato con i nostri maltrattamenti e la nostra indifferenza. Ric O’Barry, colui che catturò e istruì i cinque delfini della serie Tv Flipper, trasmessi con grande successo tra il 1964 e il 1967, racconta invece di come una di loro , Kathy, decise deliberatamente di non respirare più e di morire. Uso la parola suicidio con trepidazione, ma non conosco altra parola per definire quello che ho visto. Se il suicidio è un’evenienza assolutamente drammatica quando coinvolge un umano, perché testimonia di una vita talmente insopportabile da rinnegare se stessa, quando messo in atto da un nonumano annichilisce: perché loro, più di noi, appaiono immersi nella propria natura corporea, indifesi come bambini, alieni dalla possibilità di inventarsi un aldilà che ripaghi delle ingiustizie terrene, laddove noi adulti possiamo avere a disposizione meccanismi complessi di difesa e sublimazione del dolore.
Ecco: stiamo parlando di animali che sperimentano il dolore fisico, ma anche emozioni grandi, dotati di istinto materno e di sentimenti filiali, soggetti al desiderio, alla gioia, alla tristezza, ahimè al terrore; sanno essere gentili ed amichevoli.
Ecco: questi esseri che sono meraviglie della natura, portatori di bellezza e incantamento, questi esseri che ci appaiono maestosi, liberi e fieri mentre li osserviamo dalle navi, sono quelli torturati e uccisi nel cuore della civilissima Europa: per rispettare la tradizione.
La tradizione, bisognerà pur chiarirlo, non giustifica proprio nulla, perché non conta neppure sulla forza di un’ argomentazione, ma si limita a richiamarsi alla consuetudine: si fa perché si è sempre fatto: non esattamente un capolavoro di speculazione mentale.
Ma nulla rimane immutabile, perché sono gli individui che attuano il passaggio da una generazione all’altra, e gli individui cambiano: ogni generazione è portatrice di valori diversi in contrasto con quelli delle generazioni precedenti, tanto più in tempi di rivolgimenti velocissimi quali sono quelli attuali. Le persone modificano i loro comportamenti in funzione del contesto e rifiutano i vecchi modelli quando risultano privi di senso, non sintonici con un pensiero che si è trasformato. Senza contare che parlare di cultura significa riferirsi ad un’idea di civilizzazione, affinamento ed evoluzione dei costumi, significa riferirsi ad un progresso verso il rispetto per tutte le forme viventi: significa ampliamento della coscienza.
Manifestazioni che hanno avuto origine in tempi lontani facilmente contemplavano un uso distorto degli altri animali, perchè si trattava di tempi, in cui il rispetto per loro era pressochè sconosciuto. Ma negli ultimi decenni e ancor di più negli ultimi anni hanno avuto luogo potenti cambiamenti nella cultura dei diritti, anche di quelli animali. Le conoscenze etologiche , se mai ce ne fosse stato bisogno, hanno tolto ogni alibi: sappiamo con certezza che tutti sono in grado di provare dolore fisico; molti anche malessere emotivo; sanno soffrire, gioire, godere; sperimentare ansia, paura, depressione; sono stati riconosciuti come esseri senzienti (Trattato di Lisbona; 2009); molti di loro ( mammiferi !!! come balene e delfini!!!, uccelli, persino alcuni invertebrati quali il polpo) come dotati di autoconsapevolezza (Dichiarazione di Cambridge; 2012). Esiste una Dichiarazione Universale dei Diritti degli Animali (1978); un Manifesto per l’Etica Antispecista (2002); è andata crescendo in modo esponenziale la sensibilità nei loro confronti: se vogliamo parlare di cultura, è questa la cultura in cui siamo immersi oggi nel mondo occidentale, nella civilissima Europa del massacro dei cetacei, cultura assolutamente distonica nei confronti del loro abuso.
Agli abitanti delle Faoer è attribuita la convinzione che il massacro rituale sia per loro fondamentale per sentirsi faroesi: ci si può solo augurare che l’informazione non corrisponda a verità. Perché far coincidere la propria identità con quella di entusiastici massacratori di esseri senzienti, coscienti, terrorizzati e dolenti significa riconoscere come costitutiva del proprio modo di essere la parte sadica e crudele di sé stessi. Il chè sarebbe innegabile fonte di estrema preoccupazione per tutti.
Come ulteriore fonte di preoccupazione è il fatto che alle Foer i bambini facciano da pubblico alla manifestazione, che, considerata gioioso momento di festa, li richiama ad osservare ed imparare una lezione che entrerà a far parte anche della loro identità. E’ in atto uno scandaloso fallimento del concetto di educazione quale scuola di rispetto, di empatia, di condivisione. Nel condurli a fare da pubblico alla sofferenza delle vittime indifese, si insegna loro a negare la compassione, perchè il suo insorgere comporterebbe un giudizio di scarso machismo, di fragilità ed emotività, di una delicatezza indegna dell’ideale lì condiviso che identifica virilità con crudeltà, coraggio con durezza. La direzione imposta è quella dell’analfabetismo emotivo, che non rimarrà circoscritto nel perimetro della manifestazione in atto, ma sarà un tassello nella formazione della personalità adulta di questi bambini. Lo sviluppo dell’empatia, a partire da una sorta di identificazione e di simpatia verso gli esseri più deboli, di qualunque specie, rende gli individui meno aggressivi e più disponibili verso gli altri; la sua negazione procede in direzione opposta: un Documento degli Psicologi (http://annamariamanzoni.blogspot.com/p/documento-psicologi.html ) firmato da centinaia di professionisti, tra cui nomi illustri del panorama nazionale ed internazionale, esprime motivata preoccupazione per il coinvolgimento dei bambini in tutte le situazioni in cui la sofferenza e il maltrattamento degli animali vengono disconosciuti o diventano motivo di festa.
Sugli adulti, a quanto pare, tanti giochi sono ormai stati giocati: non si può che rammaricarsi comunque che le donne, pur non impiegate in prima linea, approvino tanto convintamente, appiattendo quella che è concordemente ritenuta una caratteristica molto più rappresentata nel genere femminile, quella della propensione all’empatia. Non è certo questa l’uguaglianza di genere per la quale da così tanto tempo si lotta.
Sul disappunto espresso dalle autorità e dalla popolazione per l’enorme numero di vittime di quest’anno, non vale neppure la pena dilungarsi: sostenere che, se fossero state la metà o solo un po’ di più non ci sarebbe stato nulla da eccepire è solo l’ennesimo insulto alla sofferenza di ogni singolo individuo animale, che è assoluta, non relativa al numero degli altri.
Quale che sia lo stato dell’arte delle disposizioni psichiche consolidatesi nella popolazione delle Faoer, è fondamentale che la Danimarca, se c’è, batta un colpo: va tolta ogni forma di salvacondotto legale, ogni autorizzazione a tanta bruttura. E’ fondamentale perchè, nella mente di molti, i concetti di legalità e di giustizia si fondono; e di giustizia in tutto questo non si intravede neppure un’ombra residua. Non dovrebbe essere difficile: si tratta solo di distinguere la civiltà dalla barbarie.
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