Che gli umani non possano fare a meno degli altri animali è indiscutibile: la cosa è peròpriva di reciprocità dal momento che invece la quasi totalità di loro vivrebbe incredibilmente meglio senza di noi, o, volendo essere ancora più precisi, potrebbe almeno vivere se noi stessimo alla larga.
Detto questo, sarebbe davvero auspicabile che almeno in qualche occasione ce la potessimo fare a lasciarli in pace. Occasioni tra cui potrebbero a buon diritto annoverarsi le Olimpiadi, manifestazione in cui la meglio gioventù mondiale prova a superare se stessa in ogni e qualsivoglia disciplina. Splendido spettacolo, se non fosse che siamo riusciti ad inquinarlo con l’irrinunciabile spettacolo di forme di abuso a danno di qualche animale non umano. Certo, non succede più che le manchevolezze umane siano arbitrate con la punizione a frustate di qualcuno, reo di falsa partenza, come si legge avvenisse a quelle di 2700 anni fa; sarebbe scandalo. Ma i diritti li riserviamo alla nostra specie (in genere….), le frustate alle altre.
Brevi accenni alla storia delle Olimpiadi raccontano che a quelle di Parigi del 1900 (le seconde dell’età moderna dopo quelle di Atene del 1896), tra le discipline sportive compariva il tiro al piccione, quale cinica variante del tiro a segno: si doveva uccidere il maggior numero di volatili, facendo librare in volo ignari piccioni mentre i tiratori cercavano di colpirli a morte: 300 vittime restarono al suolo. Dopodichè il comitato olimpico decretò la competizione non rispondente ai requisiti etici previsti, come forse avrebbe potuto decretare anche in assenza di concreti sopralluoghi sul campo, visto che il pensiero per sua stessa natura, dopo le prime fasi di vita, sa diventare anche astratto e quindi permette per esempio di prevedere che il fuoco brucia anche senza mettervi sopra una mano: ma tant’è. Dopo la carneficina dei 300 volatili il comitato capì e il tiro al piccione non venne riproposto in nessun altro appuntamento olimpico, da cui venne così per sempre bandita la deliberata uccisione di esseri senzienti come mezzo per conquistare una medaglia.
Deliberata, appunto, perché quella non deliberata, ma derubricata a spiacevole incidente ha fatto la sua apparizione anche quest’anno con l’uccisione del cavallo Jet Set.
Ma andiamo per ordine: nel 1900 anche i cavalli vennero cooptati per gare di salto in alto e in salto in lungo, poi sospese fino alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912 : da allora sono sempre stati impiegati nelle competizioni di salto, dressage e concorso completo. Le informazioni sulle caratteristiche di ogni specialità si trovano facilmente in rete: vale la pena fare solo alcuni cenni: per esempio che il Salto in Alto comporta il superamento, senza abbatterli, di ostacoli mobili quali barriere, tavole, cancelli e balaustre di varie dimensioni, prova per la quale il cavallo deve essere potente e preciso, veloce e completamente rispondente alle azioni del cavaliere. C’è poi il Concorso Completo di Equitazione che comprende esercizi alle tre andature; il cross country lungo un tracciato disseminato da una serie di ostacoli naturali e fissi come laghetti, macerie, tronchi abbattuti, cataste di legna, fossi, staccionate, banchine, ed altri, da affrontare entro un tempo prestabilito; nonché il salto ostacoli. Il Dressage comporta che il cavallo si esprima con eleganza e in completa sintonia con il proprio cavaliere, mantenendo per kilometri andature assolutamente innaturali.
Non è questa la sede per una descrizione puntuale di come i cavalli arrivino ad ubbidire ad ordini che impongono loro di superare la paura che gli ostacoli provocano: facile intuire che il trattamento a cui vengono sottoposti renda quella paura più affrontabile di un’altra più atroce, quella delle punizioni nel caso non obbediscano. Su come poi si faccia muovere un cavallo a ritmo di danza, a suon di musica, con una successione ordinata e innaturale di movimenti non c’è informazione migliore di quella fornita da un video, poi rimosso da facebook perché considerato violento, che mostra il contemporaneo ininterrotto colpire un cavallo immobilizzato sulla zampa anteriore destra e posteriore sinistra, e poi viceversa, fino a quando, estenuato, finisce per riprodurre i movimenti richiesti: non importa quanto tempo occorra perché chi attua l’addestramento non ha fretta.
Restiamo allo spettacolo offerto nel corso delle Olimpiadi di Tokyo: se nessuno pare interrogarsi sul dietro le quinte, i mezzi di costrizione però sono lì da vedere: ferratura, bardatura, morso, paraocchi, redini, frustino. Niente da fare: tutti in ammirazione dello spettacolo, nella rassicurante convinzione che i cavalli siano felici di fare ciò che è contrario alla loro natura, presumibilmente giunti a Tokyo da ogni parte del mondo grazie ad una breve salutare passeggiata. Bella favola per pochi ingenui e per tanti negazionisti. Ma la favola bella si è interrotta: Jet Set, montato dallo svizzero Robin Godel, durante il cross-country, che appunto prevede il superamento continuo di ostacoli su un terreno accidentato, è caduto ferendosi ad una caviglia e si è quindi deciso di ucciderlo: le cronache dicono “Ha dovuto essere soppresso” come si si trattasse di una necessità estranea alla responsabilità umana, anziché una sua precisa conseguenza. I termini usati sono stati, oltre a soppresso, abbattuto, eutanasizzato, addirittura, capolavoro di ipocrisia eufemistica, lasciato andare: lasciato andare?! Ma davvero si può sostenere che Jet Set sia stato accontentato mentre chiedeva di andare? E dove? Nessuno di coloro così bravi ad interpretare il linguaggio equino lo aveva invece sentito chiedere di non andarci proprio a Tokyo? Come sia, nessuno tra i commentatori ha usato il verbo uccidere, forse poco politicamente corretto nella sua adesione alla realtà. Chiamare le cose con il loro nome è l’atto più rivoluzionario, diceva Rosa Luxemburg, e nessuna rivoluzione è ahimè in corso. Così Jet Set è morto senza che per questa morte ci sia stata giustizia. A seguire solo i necrologi del fantino che, dai social, con il cuore a pezzi ha pianto la morte prematura del suo caro cavallo, che gareggiava per ciò che amava di più. Non essendo richieste prove, tutto si può sostenere, anche che gareggiare fosse la cosa che amava di più. Non preoccupiamoci comunque per il fantino Godel: ha gestito una rapidissima elaborazione del lutto con l’astensione di qualche giorno dai social, dopo avere chiesto comprensione ai suoi fans. Lutto che per altro non ha comportato il ritiro della squadra svizzera che ha proseguito dignitosamente le prove, pur con il velo di tristezza calato sull’intera competizione olimpica. Tranquilli: solo un velo.
Un po’ meglio è andata a Saint Boy, colpevole di essersi rifiutato di saltare nel corso della competizione di pentathlon: la tedesca Annika Schleu è stata filmata mentre, presa dalla rabbia, lo frustava, e l'allenatrice Kim Raisner mentre, dopo avere urlato Colpisci! Colpisci più forte, gli rifilava un pugno: veniva perciò squalificata dai Giochi. Il pugno immortalato dai video non pare essere violento, ma violenta è certo l’istigazione a colpire più forte, mentre il pensiero corre ad un episodio analogo, divenuto virale tempo fa perché trasmesso da Striscialanotizia: in quel caso, in un centro di equitazione a Capalbio, un puledro si rifiutava, spaventato, di saltare un ostacolo In risposta, la giovane fantina lo frustava per tredici volte su muso e collo, in risposta alle incitazioni dell’istruttrice che, con soddisfazione intrisa di sadismo, esclamava Giusto! Giusto! Giusto,. La dinamica comune nei due episodi, di per sé vergognosa, suona ancora più indecente perché fa scuola, è insegnamento a come si (mal)trattano i cavalli, gode dell’autorità dell’esperto, anzi esperta, di turno, e sdogana l’inaccettabile pericolosità del binomio amore(dichiarato)-violenza(agita). To break the spirit, dicono gli inglesi, che sui cavalli la sanno lunga: bisogna spezzare lo spirito: se l’operazione non ha avuto successo e consente ad un cavallo di sottrarsi agli ordini, beh c’è sempre la frusta, immancabile accessorio educativo, a spiegare meglio: tutto legittimato e giustificato, a patto che non abbia luogo davanti alle telecamere, quelle abusive di un maneggio di Capalbio o, grande scandalo, quelle in mondovisione di una Olimpiade. A pagare il prezzo gli unici innocenti sulla scena del delitto, Saint Boy o il giovane puledro di Capalbio rimasto senza nome: solo per loro l’ingiustizia è dolore, spaesamento, paura. Così imparano la legge del più forte, che è sempre l’umano, anche nella sua versione femminile, visto che entrambi gli episodi vedono come protagoniste solo donne, in una malintesa tensione alla parità dei sessi, che non certo in questo modo dovrebbe essere perseguita, non certo con l’azzeramento di quell’empatia che tanto spesso è appannaggio privilegiato e forza del genere femminile, e che è una ricchezza preziosa, perché capace di fare da barriera all’infliggere sofferenza a chi è incapace di difendersi.
La condizione dei cavalli nella nostra cultura è un concentrato di atteggiamenti schizofrenici e incoerenti: emblema di eleganza, forza, vitalità, veri e propri inni alla vita vissuta nel gusto della libertà, proprio da coloro che si dicono incantati e stregati dalla loro bellezza inquieta e selvaggia sono schiavizzati con l’uso dei peggio strumenti di contenzione e educati con l’uso della onnipresente frusta. Persino quelli aggiogati alle carrozzelle e costretti a trainare turisti per le strade anche infuocate delle città sembrano mantenere l’appeal riservato alla magnificenza della loro struttura, alla criniera che svolazza seguendo i movimenti, agli sbruffi che scuotono le teste. Grandissima mistificazione della realtà: si vedono animali schiavizzati, costretti alla volontà dell’uomo, incitati a nerbate e si celebra l’inno alla natura libera e selvaggia.
Ancora lunghissima la strada verso il riconoscimento dei diritti de cavalli, come di tutti gli altri nonumani: si dovrebbe almeno esigere che il consueto spettacolo del predominio della razza padrona su una specie aggiogata e mortificata nell’esuberanza vitale che ne dovrebbe contraddistinguere l’essenza, non venisse spacciato per espressione d’amore e di intesa interspecifica. Il farlo è insulto all’intelligenza di ognuno.
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