Difficile
ignorare, anche se del tutto insensibili all’argomento, che il Milan in un paio
di settimane è riuscito a inanellare la bellezza di ben quattro sconfitte, in campionato e fuori: gran
brutta esperienza, meritevole di approfondimenti su un numero impressionante di
canali televisivi, impossibili da dribblare (sic!) se solo si fa un po’ di
zapping. Farlo è comunque interessante perchè inaspettatamente immette nel vivo
di animate discussioni sul veganismo, che deve essere diventato un fenomeno
davvero inquietante se riesce ad invadere anche questo genere di spazi. E se ne
scoprono allora della belle.
La
faccenda è ormai risaputa: nell’ottobre scorso l’allenatore Vincenzo Montella stabilisce
per la sua squadra un nuovo regime alimentare, con l’ausilio del preparatore
atletico Emanuele Marra e sotto la guida della naturopata Michela Valentina
Benaglia. Si comincia a parlare di dieta vegana, ma un po’ a bassa voce, con un
interesse tutto sommato molto contenuto. Che resta tale fino ai giorni scorsi,
quando le performances non proprio entusiasmanti dei rossoneri hanno scatenato la caccia
all’untore: individuato appunto nel veganesimo, rinato dalle ceneri dell’indifferenza
per finire lì sul banco degli imputati:
sarebbe riuscito ad indebolire gli atleti, nel fisico certamente, ma anche nel
morale, nella psiche. Un giocatore, coraggiosamente trincerato dietro un
anonimato forse degno di più temibili
minacce, avrebbe confidato al giornalista “…mi
alleno meglio con la carne rossa” (Pianeta Milan, 03.02.2017): il giornalista, comprensivo, afferma a
commento che “l’istinto carnivoro
comincia a farsi sentire”, sostenuto nella sua visione delle cose da un suo
collega di Repubblica, Enrico Currò, il quale, umilmente, attribuisce valore
scientifico alle proprie convinzioni quando afferma che “…la carne rossa…tra l’altro è parte importante della dieta da calciatori”.
Si, sì: proprio quella inserita nell’elenco degli alimenti “probabilmente
cancerogeni” dall’OMS (Lancet Oncology, 26.10.2015). All’ a.d. Galliani non resta che giocare
sulla difensiva (sic!) e rassicurare che quella imposta non è una dieta vegana,
ma vegetariana (Corriere dello Sport, 5 febbraio)! Così magari i tifosi si tranquillizzano
nel sentire che i loro eroi sono sì sottoposti a sacrifici, ma non
estremi. Di sacrifici e rinunce non si
astiene dal parlare lo stesso Montella, severo sì, ma consapevole che la dura scelta
è il prezzo da pagare sulla via della gloria (che magari arriverà).
I
titoli dei giornali hanno in genere sintetizzato la scelta alimentare in
questione riferendosi a “soia e kamut”
nonché “famigerato latte di soia o di
cocco” (per la cronaca, famigerato
è sinonimo di malfamato: il latte di
soia!?!) per un “Milan
in crisi e affamato” per il quale sarebbero stati violati gli standard
nutrizionali con questa “dieta che
sembrerebbe addirittura vegana”. Addirittura?! Non è casuale il richiamo ad alimenti poco usati nella
nostra cucina, certamente perdenti nel confronto con cibi ritenuti virili, ben
più adatti ai loro campioni: che quindi sono in crisi di astinenza, soffrono di
languore carnivoro, hanno già allucinazioni (Repubblica, 3 febbraio).
Bene,
una verifica dei cibi contemplati dal piano alimentare sotto processo contiene
una scoperta davvero interessante: perché tra questi vi sono carne di tacchino
nonché ragù di
pollo: ignoranza allo stato puro oppure
mistificazione della realtà? Nessuno, per quanto del tutto disinteressato alla
questione, può ignorare che vegetarianesimo
e veganesimo non sono compatibili con il
consumo di alcun animale: e si dà il caso che tacchini e polli lo siano.
Quindi, la famigerata dieta è semplicemente una dieta leggera, ma il gioco di
squadra (sic!) dei media non ha contemplato si alzassero voci per correggere
l’errore o condannare la mistificazione: muro compatto in difesa dell’indifendibile,
quindi.
Visto che la tesi acriticamente accreditata faceva riferimento al veganesimo, avrebbe potuto essere l’occasione per alzare il sipario su uno stile di vita, da molti rimosso perché in grado di smentire luoghi comuni e abitudini inveterate, e invece abbracciato da indiscussi campioni di svariate discipline. A cominciare dal più grande, quel Carl Lewis, “figlio del vento”, indiscussa leggenda con le sue dieci medaglie olimpiche oltre alle altre, che nel 1990 diventa vegano, per motivi etici e religiosi, nel bel mezzo della sua attività sportiva e dichiara “Ho scoperto che un atleta non ha bisogno di proteine animali per essere un atleta di successo. Infatti il mio migliore anno nelle competizioni di atletica leggera è stato quando mi sono convertito al veganismo”. Lo sprinter, due volte primatista mondiale nei 100 metri, che si palleggia con lui titoli prestigiosi, è
Leroy Burrel, lui invece “soltanto” vegetariano. Si potrebbe continuare con Edwin Moses, che per otto anni non ha mai perso la gara dei 400 metri ad ostacoli, o Murray Rose, vegetariano dalla nascita. Ma è esaustiva la dichiarazione di Dave Scott, considerato il più grande triatleta del mondo, che definisce “un errore ridicolo
" pensare che gli atleti abbiano bisogno di proteine animali.
E per sfatare il mito che vuole i vegani pallidi ed emaciati, grotteschi seguaci di uno stile di vita francescano, corredati da una masochistica propensione all’autoflagellazione edonistica, basta dedicare un pensiero reverente alle sorelle Williams, Venus e Serena, l’una vegana su indicazione del medico, l’altra per condivisione solidale, secondo quanto riportato dai media: di loro, sulla cui potenza fisica avrebbero molto da dire le centinaia di tenniste che hanno avuto la (mala)sorte di doverle fronteggiare, tutto si può dire tranne che richiamino, nell’aspetto e nella forza dirompente, sofferte privazioni alimentari. Se poi vogliamo restare nei patri confini, un grande testimonial è Mirco Bergamasco, statuario e imponente, il quale di mestiere gioca a rugby, che notoriamente, per dirla con Nanni Moretti, non è uno sport per signorine: richiede velocità, forza, potenza, agilità, prontezza di riflessi, concentrazione, e anche coraggio. Appunto: lui è vegano.
Insomma, davanti ad uno stato delle cose di cui gli esempi precedenti offrono solo un timido accenno, le reazioni del mondo calcistico, quello di testa e quello di pancia, della stampa che interpreta e dei tifosi che si scatenano, lasciano basiti: la ragione di fondo si appoggia all’esistenza di una profonda convinzione, in gran parte inconscia, che gli alimenti abbiano una forte connotazione sessista: ci sono quelli da uomini e ci sono quelli da donna . Gli stereotipi sono radicati e la carne, soprattutto quella rossa, resta alimento icona dell’uomo macho, metafora di virilità. Risalendo nel tempo, era diffusa la convinzione antica che introiettare un animale significasse impossessarsi delle sue caratteristiche, convinzione che sopravvive ancora oggi nell’asserzione condivisa che si è ciò che si mangia. La carne rossa, poi, con il suo stesso aspetto, richiama concetti collegati all’uomo primitivo, quello che si procurava il cibo cacciandolo: quindi dal cavernicolo passando per il cacciatore per arrivare al calciatore, secondo una efficace sintesi di Brunella Gasperini (Repubblica, 15.12.2014). Dall’altra parte c’è il mondo dei cibi leggeri, delle donne, quelle che si nutrono garbatamente e con delicatezza di soia e affini, rafforzando un’identità di genere fondata sulla debolezza. “Is meat male?” E’ maschile la carne? E’ il titolo di una ricerca pubblicata nel 2012 sul Journal of Consumer Research, autore Paul Rozin, professore di psicologia della Università di Pennsylvania. Risposta positiva, a quanto pare, non solo in nome dell’analisi scientifica dei dati, ma anche di una statistica molto più casereccia sulle abitudini osservabili intorno. Associamo ai cibi caratteristiche che sono coerenti con l’identità di genere: la carne (rossa) è macha e si connette ad uno stereotipo virile a quanto pare ancora vivo e vegeto: non sarà che nutrendo gli eroi in calzoncini corti con soia e kamut incomba su di loro una sorta di castrazione metaforica, non abdicheranno, insieme al consumo di carne, alla loro identità virile? Identità che, curiosamente, non appare però scalfitta dall’irruzione, negli spogliatoi e fuori, di profumi e deodoranti, gel e depilazioni. Ma tant’è: la coerenza latita nelle cose di questo mondo.
In sintesi, del veganesimo è accreditata una rappresentazione impropria: della sua essenza, perché confuso con ciò che non è, e delle sue ricadute, che vengono mistificate. Rappresentazione che appare difensiva in risposta anche al diffondersi di un nuovo stile di vita, dall’indiscussa rilevanza economica, sancita persino dal paniere ISTAT, che vede nel 2017 i prodotti vegetariani e vegani presi in considerazione, in quanto divenuti significativi delle abitudini alimentari. Non c’è che dire: le cose cambiano e lo fanno velocemente se è vero che i tempi in cui, alla richiesta di un piatto vegano, la reazione era interrogativa, sconcertata, di panico (“che è?!”) sembrano appartenere ad un’altra era, ma da loro ci distanziano non più di due o tre anni.
L’opposizione al cambiamento, in risposta, assume forme diverse e passa anche dalla svalutazione esplicita o implicita dei nuovi cibi, ma soprattutto delle persone. Maurizio Crozza ne è il testimonial intoccabile più dirompente: la rappresentazione che lui fa del veganesimo è filtrata da un personaggio ridicolizzato all’eccesso, lo chef Germidi Soia, tutto erbe e radici, e, guarda caso, fortemente femminilizzato anche attraverso l’accentuazione di una gestualità che risulta francamente fuori tempo massimo : il quale, con una reazione da decompressione, si fa venire la bava alla bocca al solo sentire nominare un panino con salame e maionese. Copione identico a quello dei giocatori i quali, secondo la tesi accreditata da alcuni commentatori, pagherebbero sul campo le abbuffate natalizie, ovvia risposta liberatoria in reazione al regime alimentare subito.
Insomma se un nuovo stile di vita va diffondendosi, mantenere lo status quo diventa per molti necessario: invece di un’analisi che non potrebbe che essere perdente, è allora più facile opporre reazioni sconsiderate, giocate sulla messa in ridicolo di chi lo fa proprio.
Esiste una ricerca, pubblicata sul British Journal of Sociology nel marzo 2011 ( datata, ma non si ha notizia di lavori altrettanto significativi più recenti), svolta sui giornali inglesi del 2007, da cui emerge l’attitudine degli stessi a gettare discredito sul veganesimo, descritto come bizzarro e comunque di difficile attuazione: i “seguaci” sarebbero ascetici, capricciosi, sentimentali, estremisti, in preda ad una nuova mania. Il ritratto che ne esce è fortemente peggiorativo e gli autori, Matthew Cole e Karen Morgan, lo interpretano alla luce della vegafobia, come volontà di riproduzione dello specismo, quindi allargando correttamente il discorso dal piano alimentare a quello etico. Il veganesimo, spiegano, viene marginalizzato come fenomeno attraverso la cattiva rappresentazione che ne viene data; argutamente osservano che, in questo modo, viene contestualmente perpetuata un’offesa morale anche a danno degli onnivori, ai quali non viene offerta l’opportunità di capire che cosa davvero è lo stile di vita di cui si sta parlando, lontano anni luce dall’essere una dieta, e quale enorme sfida alla svalutazione di tutte le specie animali contenga: ridicolizzare è il modo per oscurare e quindi riprodurre e perpetuate relazioni di sfruttamento tra umani e non umani.
E’ esattamente questo il nocciolo duro della questione: anche nelle situazioni di casa nostra, quelle a cui si è fatto riferimento nelle pagine precedenti, grandi assenti, invitati di pietra, sono gli animali non umani: si parla di cibo e non si parla di loro, che sono i soggetti implicati, sulla cui vita, ma soprattutto sulla cui morte, si gioca la vera partita, infinitamente più drammatica di quelle sui campi di calcio: la questione etica scompare per far posto a infinite, stucchevoli discussioni a base di luoghi comuni, inesattezze, preoccupazioni per il tono muscolare. E così è tutto un mondo fatto di ingiustizie, sofferenze, irraccontabili crudeltà, a scomparire, rimosso e negato. Sarebbe auspicabile che almeno qualcuno tra i destinatari illustri della nuova dieta, anziché lamentarsi a bassa voce, cogliesse l’occasione per informarsi e poi spendesse la propria immagine, prendendo posizione: non in favore delle virtù di kamut e soia, che davvero non importano a nessuno, ma di tutti quegli animali che popolano anche il loro mondo dorato. Le ricadute sarebbero enormi, in virtù della loro popolarità: dì una sola parola….: la aspettiamo, insieme a tutti gli altri animali, per i quali la partita che si gioca è quella tra la vita e la morte. Grazie in anticipo.
|
Si, Roberto: la superficialità + diffusa, spesso poi c'è malafede e il risultato è assicurato. In ogni caso davvero incredibile parlare di dieta vegana così a sproposito: è consequenziale poi poter sostenere tutto e il ocntrario di tutto. Forza! ce ne vuole molta....
RispondiElimina