Se il veganesimo
sia progetto di vita, splendida utopia, o solo atto di disperata denuncia è la
nostra mente a pensarlo e saranno i giorni di un lontano futuro a decretarlo.
Di
certo l’ideale di un mondo nuovo, capace di vedere tutti gli animali affrancati
dall’asservimento e dal dolore, non può che incentrarsi prima di tutto e sopra
tutto sul cibo: perché è intorno ad esso che si accumula la massima parte
del nostro personale e diretto apporto
alla grande questione degli animali. Animali che mangiamo, disinteressandoci
del prezzo di sofferenza che imponiamo loro, minimizzandolo o negandolo, se mai
giustificandolo come imprescindibile, sempre assolvendoci. Anime belle quali
siamo, al di là delle tante parole di amore per gli animali, a tavola
diventiamo tanto spesso corresponsabili di una crudeltà da cui pure ci
affermiamo e ci consideriamo lontani anni luce.
Focalizzando il problema della violenza sugli animali non
umani sul “mangiar carne”, si va diritti al cuore della questione perché grandissima
parte di tale violenza non è agita da persone sadiche e malvagie, ma è consentita e supportata da
quelle “normali”, per bene, che con il proprio stile di vita, e quindi anche la
propria alimentazione, sono la causa del martirio quotidiano di uno sconfinato
numero di loro. Il mangiar carne è
chiaro esempio di quella banalità del male,
che proprio in quanto banale viene accettata nella sua pretesa
normalità, disconosciuta nella sua portata e nelle sue conseguenze.
E’
in effetti nel campo dell’alimentazione che vengono compiuti i crimini peggiori
in termini di reiterazione e di numero di vittime: perché gli animali nel mondo
vengono mangiati dalla stragrande maggioranza della popolazione, da molti tutti
i giorni, da alcuni più volte al giorno:
unico limite i condizionamenti economici. E questo nonostante sia possibile, facile, sensato, oltrechè
imperativo morale, nutrirci d’altro.
Molte
osservazioni si affastellano nel cercare il bandolo della matassa di
comportamenti che coinvolgono popolazioni per altri versi tanto lontane le une
dalle altre come lo possono essere quelle che popolano il mondo occidentale e i
paesi poveri o cosiddetti emergenti, quelli separati da convinzioni religiose
apparentemente distanzianti, paesi in pace e paesi in guerra: tutti uniti per
una volta, al di là di ogni diversità, dalla ostinata convinzione che gli
animali sono lì giusto per essere da noi mangiati. “Il diritto di uccidere un
cervo o una mucca è l’unica cosa sulla quale l’intera umanità sia francamente
concorde, anche nel corso delle guerre più sanguinose”, osserva Milan Kundera.
Nutrirsi
è azione necessaria, ma da sempre uscita dai confini della necessità per
invadere quelli del piacere: non è certo
un caso che la gola appaia tra i sette peccati capitali, quei “vizi”
considerati tra le dannazioni che ci affliggono, quelli che riguardano la
profondità della natura umana e contengono la possibilità di originare ricadute
in altri ambiti .
Il
cibo, non appena ci si allontana da tempi e da paesi dove è destinato alla pura
sopravvivenza, va ad occupare immediatamente l’area di comportamenti che
perdono il loro senso originario e parlano piuttosto di sregolatezza, piacere,
impulsi incontrollati. Comportamenti ben poco nobili nelle loro manifestazioni,
tanto che Dante riteneva i golosi degni di un girone infernale, il settimo, in cui li condannava a terra, faccia in giù a
mordere il fango, tormentati da una pioggia incessante.
L’atto
del nutrirsi è sempre contaminato da altre dimensioni: contiene valenze fortemente simboliche, intrecciate a
sensazioni ed esperienze con cui si confonde perdendo la sua originale
essenzialità. E’ uno dei primi scambi mamma/bambino, momento
che, teso alla sopravvivenza, subito
si colora di emozioni e sensazioni.
L’attenzione
per il nutrimento spesso rimane prioritaria
per tutta la vita nei pensieri materni:
“Hai mangiato?” è domanda che include e veicola preoccupazioni materne per figli da tanto
tempo adulti: segno che il cibo mantiene valenze simboliche capaci di
oltrepassare la concretezza e la logica della realtà.
Non stupisce allora che Vivien Lamarque, per tutta la vita alla ricerca del legame
spezzato con la propria madre, che a nove mesi la lasciò adottare da altri,
invochi “Prendimi a cuore. Dimmi di mangiare”.
Mangiare insieme è atto sociale, che non siamo disposti a condividere con chiunque, tendenza ben fotografata dall’espressione non aver mai mangiato nello stesso piatto, atta a sottolineare l’estraneità rispetto a qualcuno, estraneità che sarebbe interrotta dalla condivisione di uno stesso momento alimentare, che renderebbe l’altro un compagno, temine, giova ricordarlo, la cui etimologia rimanda proprio a cum-panis, a chi condivide cioè lo stesso pane. Perchè quello della tavola è il luogo della fraternità e della condivisione: mangiare nello stesso piatto è sinonimo di spartizione di atteggiamenti e pensieri; aggiungere un posto a tavola è segnale di ospitalità profonda.
Roberto
Saviano ricorda che il boss Morabito il Tiradritto, arrestato nel 2004, quando
gli fu offerto un panino prima di essere portato in carcere, mentre era in
caserma tra magistrati e carabinieri, si alzò dal tavolo e andò a mangiarlo
faccia al muro: “non si divide la tavola con chi non si riconosce”.
E
che dire dell’affezione per i cibi dell’infanzia che emerge con la forza di
ricordi incontenibili, a cui Proust (Alla
ricerca del tempo perduto) è stato in grado di attribuire la nobiltà di
passi divenuti patrimonio letterario : “Portai alle labbra un cucchiaino di tè, in
cui avevo inzuppato un pezzo di madleine. Ma nel momento stesso che quel sorso
misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, attento a quanto avveniva in
me di straordinario. Un piacere delizioso mi aveva invaso…sentivo che era
legato al piacere del te e della focaccia, ma la sorpassava
incommensurabilmente . Da dove veniva? Che significava? Dove afferrarla?” :
quel sapore è veicolo di memorie per
Proust, perché ad un tratto diventa
chiaro che è quello della madleine della domenica mattina che la zia Leonie
offriva a lui bambino, tanti anni prima, dopo la messa, intinto nel tè.
Quale
potere evocativo intriso nella memoria, quali esperienze cablate nel fondo
dell’anima traghettate da un cibo! Anche noi, comuni mortali senza la capacità
di sublimare in righe indimenticabili le nostre sensazioni, tante volte abbiamo sperimentato il riemergere dal passato di situazioni, volti
ed esperienze richiamate dal sapore, dal profumo, dall’aspetto di un cibo della
nostra infanzia, che ci riporta nello spazio di una cucina a cui non avevamo
più ripensato, di una situazione che pensavamo morta.
Struggente
la descrizione di John Fante della cucina di sua madre; “ Il vero regno di mia madre, l’antro caldo della strega buona….un
piccolo mondo venti per venti: l’altare erano i fornelli, il cerchio magico una
tovaglia a quadretti dove i figli si nutrivano, quei vecchi bambini richiamati
a propri inizi, col sapore del latte della mamma che ancora ne pervadeva i
ricordi, e il suo profumo nelle narici, gli occhi luccicanti, e il mondo
cattivo che si perdeva in lontananza mentre la vecchia madre-strega proteggeva
la sua covata dai lupi di fuori.” (John Fante, La confraternita dell’uva) .
Cibi
dell’infanzia che, se per alcuni sono ricordi magari intensi di un momento,
diventano ancoraggi esistenziali per chi è costretto a lasciare il proprio
paese per terre spesso inospitali e lontane; e allora riempiono con il profumo
delle spezie o con odori intensi, che
solo all’olfatto degli estranei sono privi di dolcezza, la straniazione di luoghi restii ad accettarli.
Molto
più superficialmente e ai limiti del ridicolo, ricerca puerile per viaggiatori
vacanzieri in crisi di astinenza per i gusti di casa propria, spaghetti al
pomodoro o caffè ristretto, che assumono i contorni di oggetti del desiderio e
con quella casa costruiscono un ponte ideale ed immediato: spaesamento e
lontananza si annullano.
E’
l’ambito dell’alimentazione che dà voce e forma a disturbi mentali: abbuffate
bulimiche di cibo, rifiuti anoressici al suo consumo, disordini di ogni tipo sono
la punta dell’iceberg di disagi profondi che trovano nella modalità di nutrirsi
o di non farlo una strada espressiva.
Pagine
scritte da Tolstoj oltre cento anni fa continuano a non farci onore, grazie
alla pregnanza che mantengono oggi: “Non
c’è una solennità, un avvenimento gioioso, un’inaugurazione, che trascorre
senza un banchetto. Osservate la gente che viaggia, ciò risulta ancor più
evidente. I musei, il parlamento, le biblioteche come sono interessanti!...E
dove mangeremo? Dov’è che si mangia meglio?” (Lev Tolstoj, Contro la caccia e il mangiar carne):
scritto nel 1895, ma sembra questa mattina.
Insomma
è ovvio che intorno alla tematica del cibo , con la profondità di contenuti che
ad esso sono legati e da esso sollevati, si gioca una partita fondamentale che
è anche psicologica ed esistenziale e anche per questo raggiunge le dimensioni
stratosferiche del business che alimenta. Quello che succede in tutto ciò è che
a scomparire nel mare magnum di bisogni, significati, simbolismi, impulsi e
desideri sono coloro che ne pagano un prezzo incommensurabile: gli animali.
Sono loro quindi che vanno fatti riemergere, vanno visti e riconosciuti come le
vittime innocenti e senza peccato, devono riassumere la corporeità che a loro
attiene e che sembra invece agli occhi di molti invisibile ed evanescente.
Perché di solito di tutto ci si occupa in relazione al cibo, tranne che della
sua essenza quando è vita animale.
Con
tutto questo dobbiamo fare i conti quando ci occupiamo di veganesimo, che non è
uno stile alimentare, ma è ideologia di vita. Sarebbe bello, e anche doveroso,
che l’etica del rispetto e della nonviolenza da sola fosse sufficiente a
ribaltare le consuetudini che investono
tutti i nostri comportamenti quotidiani; che l’empatia verso gli animali
giocasse da sola la partita del nostro rapporto con loro; che un elementare
senso di giustizia bypassasse ogni altra pulsione. Sarebbe bello, e anche
doveroso: i numeri però raccontano un’altra storia, quella di una per ora
assolutamente esigua minoranza di persone che hanno deciso e sono state in
grado di fare scelte conseguenti. Moltissimo resta da fare affinchè una
consapevolezza diversa si vada diffondendo: la consapevolezza, da trasformare in responsabilità, che nella stratosferica
lotta per i diritti animali, il campo dell’alimentazione è quello in cui ognuno
di noi, oggi stesso, può apportare un personale e fondamentale contributo,
spostando il focus dell’interesse dalla propria pancia e dalla propria testa e
dal proprio cuore a quelli speculari degli altri animali. Decidendo una volta
per tutte in quale mondo vogliamo vivere.
È tremendo il mondo che ci siamo costruiti: esso ci opprime facendoci credere che non vi sia altro modo; ci spinge in direzioni di autodistruzione, facendo soffrire ogni cosa che tocchiamo, annullandola, uccidendola.
RispondiEliminaAl mio invito, verso due persone che conosco, di smettere di fumare, la risposta è stata "tanto di qualcosa bisogna morire": risposta emblematica dello stato d'animo, ma anche del limite del pensiero, della mente che mente, che chiude chi ormai ha rifiutato di guardar meglio dentro se stesso, in un circolo autodistruttivo, che non prende in minima considerazione null'altro che se stessi, in un'individualismo senza sbocco se non quello nel dolore e nella morte.
Così è nel rapporto col cibo: non ci si cura di cosa comporti, salvo poi gridare sul letto di morte tutto il dolore che si prova, ma sempre ed unicamente presi da se stessi. Nessun rimorso per i miliardi di vittime che hanno foraggiato il proprio stile di vita pagando con la loro. Grazie per questa disamina sulla follia e sulla distruttività del vizio capitale a mio avviso peggiore, che pervade l'Umanità in maniera così capillare e profonda da gettarmi spesso nello sconforto, vinto ogni volta dalla consapevolezza che, però, la via d'uscita è talmente ovvia e facile!
Caro Roberto, si: la via d'uscita è a portata di mano di ognuno di noi. Ma sembra che tutto quello che richiede un minimo di impegno non lo prendiamo nemmeno in considerazione. L'antropocentrismo esiste perchè esiste l'egocentrismo: ognuno di noi al centro del mondo, con il diritto di fare qualunque cosa per il nostro esclusivissim interesse. Buona giornata!
EliminaSolo quando diventi vegano ti accorgi di quanto è forte il legame sociale generato dal cibo, attraverso di lui passa l'accettazione in un gruppo, l'avvicinarsi tra due persone, il superamento di un momento difficile; si mangia insieme ai matrimoni e ai funerali. E si tratta di usanze fortemente conservative, metterci mano modificando ciò che si mangia provoca ansia e reazioni violente. Gli onnivori non sanno quanto li stiamo aiutando ad aprire la mente.
RispondiEliminaE' vero Giorgio: lavoriamo anche per il bene e l'interesse degli onnivori. Come in ogni aspetto della vita, il bene delle vittime corrisponde a quello dei carnefici: l'emancipazione femminile si ritorce positivamente sugli uomini, come la liberazione degli schiavi è miglioramento della vita degli schiavisti. Purtroppo non è una verità riconosciuta da tutti.
RispondiEliminaA presto e grazie
Caro Roberto, siamo di fronte ad un compito e all'ipotesi di un capovolgimento tale che davvero dovrebbe portare alla costruzione di un mondo altro. Ce la faremo? difficilissimo essere ottimisti: credo comunque che valga la pena avere obiettivi elevatissimi, mirare in alto. "Questo mondo è sbagliato, non imperfetto: sbagliato" diceva Josè Saramago. Unire le forze è fondamentale. E dopo si vedrà.
RispondiEliminaCara Annamaria, è proprio così, non è facile, eppure più passa il tempo più vedo che il vero cambiamento intorno a me lo vedo nella misura in cui è il mio atteggiamento a cambiare. Uno stato di serena consapevolezza e coerenza si riflette in atteggiamenti meno difensivi e maggiore apertura anche negli altri.
RispondiEliminaCredo che una cosa veramente improtante sia trasmettere come fare questo passo sia una cosa possibile e fattibile. Non una scelta complicata, difficile, irta di rischi come vogliono farci pensare. Non serve il nutrizionista personale! Mangiare vegetale è economico, semplice, gustoso. Ormai anche in rete si trovano miliardi di ricette e la nostra cucina italiana è strapiena di piatti senza ingredienti animali, del tutto "normali". occorre fare uscire l'alimentazione vegan da quell'aura di straordinarietà che la rende una scelta epr pochi.
E per quanto riguarda la presunta emarginazione sociale, trovo che un atteggiamento rilassato ma coerente suscita solo per poco tempo le reazioni degli amici o conoscenti: poi tutti si rilassano e accettano senza grandi difficoltà, e chi invece continua a reagire male beh... è un suo problema!
ah sono Antonella Sagone ;)
RispondiEliminaSi, sono convinta anch'io che le cose siano molto meno difficili di quanto continuiamo a descrivere. Unico problema, il click che deve scattare nel cervello come output di tutte le informazioni, convinzioni, emozioni inserite. Buona giornata. Annamaria
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