mercoledì 30 ottobre 2019

TRUMP, CANON E GLI ALTRI


     
 

   L’orrida cronaca che il presidente Trump ha fornito dell’uccisione di Al Baghdadi, infarcita di un linguaggio adatto tutt’al più ad un machismo da film western anni ‘60, per molti ma non per lui spazzato via dalla diversa narrazione che dell’epopea western offrirono film cult quali “Il piccolo grande uomo” e “Soldato blu”,  ha cercato consensi anche in  un ostentato fiero omaggio al cane soldato, autore del  “great job”, anzi autrice, dal momento che hanno svelato trattarsi di una femmina. E così Conan, soldatessa sotto copertura della Delta Force, lingua penzoloni e orecchie tese, viene caricata di responsabilità non sue in imprese umane comunque la si veda ben poco onorevoli. Il presidente deve avere avuto notizia  dell’amplificazione emotiva che sempre accompagna la vista di un cane, stranamente non scalfitta nonostante la sua presenza nelle nostre case sia estremamente comune. Nella eccitata impazienza comunicativa, il presidente americano neppure si è accorto della propria schizofrenia, denunciata  dall’uso dell’espressione “ucciso come un cane”: da una parte orgogliosa ammirazione, dall’altra disprezzo cronicizzato per i  nostri amici, che contestualmente amici non appaiono più.

La relazione con i cani, anche nel mondo occidentale, è tutt’altro che univoca: siamo in tanti a considerarli nostri compagni di vita, ma anche di lavoro, di impegno sociale e civile, come ci ricordano i luoghi che sono teatro di terremoti o altri disastri, dove la loro presenza è fondamentale, dal momento che, pur in un mondo tecnologicamente tanto avanzato, risultano insostituibili grazie al loro olfatto  e alla capacità ostinata di tollerare  addestramenti ed esercitazioni estenuanti. Non si tirano mai indietro, tanto che non sono rare le cronache che parlano di alcuni di loro  morti per stanchezza: sfiancati, pur di non disattendere gli ordini dei loro referenti, a cui riservano obbedienza totale, abnegazione assoluta.

Davanti ai servizi che ce li mostrano all’opera, talvolta ci commuoviamo fino alle lacrime: non è scialbo romanticismo, non è solo l’ipersensibilizzazione sollecitata dall’affetto, intelligenza, dedizione del nostro cane, quello che amiamo e che ci ama, e che sempre ci sembra di vedere nelle immagini di quelli come lui. E’ che in loro percepiamo qualcosa di più, una sorta di valore aggiunto rispetto agli umani che li affiancano e che pure si distinguono per altruismo ed estrema generosità: perché quello che per l’umano è un  lavoro, una missione, un dovere sorretto da motivazioni a volte elevate e da una razionalizzazione che ammanta ogni sacrificio di significati che lo nobilitano, per un cane è sempre, solo e soltanto adesione alle richieste del proprio compagno umano: quello che è il loro limite è la loro grandezza: solo per te. E a quel compagno umano guardano come a un dio in terra, per lui possono superare ogni paura e ogni barriera, in una ostinata e pervicace volontà di andare fino in fondo, qualunque siano il compito affidato e il prezzo da pagare.

Di compiti a loro ne affidiamo davvero  tanti, tutti al nostro servizio: per cause dalla profonda valenza solidale, come l’accompagnamento dei non vedenti; per altre socialmente utili come il controllo, in veste di bagnini, di acque potenzialmente pericolose;  per altre ancora di tipo terapeutico quale le svariate forme di pet-therapy; proseguendo con quelle ben più discutibili quali il traino delle slitte, magari per vacanze cosiddette alternative. Le cose si complicano quando le attività a cui sono delegati contemplano attacco e aggressione e loro  diventano  allora cani-poliziotto: certo, attività socialmente accettate, ma che espongono a rischi mortali anche loro, oltre agli umani. Ricca la cronaca: Akil era solo un cucciolotto di un anno e mezzo, un cane lupo in forza ai reparti speciali di polizia di Tunisi, quando è morto nel conflitto a fuoco al museo del Bardo del marzo 2015: la folla si è aperta ed ha applaudito al passaggio del suo corpo, mentre erano in tanti a non trattenere le lacrime. Invece  Diesel, pastore belga,  era più matura, aveva 7 anni  quando è morta, colpita dalle prime raffiche di mitra, mentre per prima entrava in un appartamento di Parigi, indicato come covo dei responsabili degli attentati del novembre 2015. “E’ tornata indietro, colpita, per morire ai piedi del suo padrone, anzi del suo compagno” hanno raccontato i testimoni, commuovendo la Francia intera, e non solo. Ad Ape, pastore tedesco di due anni in forza all’FBI, è stato inutilmente praticato un massaggio cardiaco dopo che è stato colpito da un uomo, ricercato per l’omicidio di quattro persone, rifugiatosi in uno scantinato dove non era possibile inviare il robot meccanico che si usa in questi casi e quindi era lui ad indossare la telecamera d’ordinanza. Si va oltre, e si entra, con i cani, in zone di guerra, guerre lontane e guerre dichiarate o meno, molto vicine: Cairo, unico nome ricordato  il 6 maggio 2011 dal presidente Obama alla base militare di Fort Campbell  nel suo discorso di ringraziamento al commando degli 81 membri dell’unità segreta Seal Team Six, che uccise Osama Bin Laden, era il loro “cane da guerra”, un belga Malinois, proprio come Conan.

L’omaggio di Obama, come quello dei compagni poliziotti o degli agenti, ci parla di una realtà di amicizia e affetto tra uomini e cani, solidali nelle vita e nella morte, oggetto di un rispetto che esplode nel momento della drammatica separazione: riserviamo loro onori, ci mettiamo sull’attenti al loro passaggio, ci lasciamo sopraffare dalla commozione quando li salutiamo, avvolti nelle loro pettorine che sanciscono l’appartenenza ad un gruppo.

Come succede per gli umani,  gran parte della realtà viene occultata dietro la retorica dell’ultimo saluto: poco si parla per esempio dei cani usati in guerra, usanza davvero non nuova dal momento che si hanno ricostruzioni storiche che datano a 18 secoli prima di cristo il loro uso in Mesopotamia. Ci riguarda molto più da vicino il loro regolare impiego nelle guerre e spedizioni del secolo scorso e di quello attuale: sappiamo per esempio che gli italiani, impegnati nella conquista della Libia del 1912, mandarono là cani,  soprattutto provenienti dalla Sardegna: per dovere di una cronaca  senza onore, a fine operazioni li abbandonarono sul suolo africano. Per la serie: la riconoscenza non è dote diffusa tra gli umani quanto lo è nel mondo dei cani, che, come tutti sanno, sono i migliori amici dell’uomo:  nessuno, prudentemente, ha mai sostenuto trattarsi di un legame di reciprocità.  

Per altro il loro impiego in guerra ci ha invaso di acritica ammirazione, fin dai tempi in cui Rin Tin Tin a Fort Apache correva all’appello insieme al piccolo caporale Rusty, inconsapevole antesignano dei bambini soldato: perché gli Indiani dovevano pure essere sterminati.

Situazioni tutt’altro che isolate: tante le foto che ritraggono i cani insieme ai soldati italiani in trincea nel corso della prima guerra mondiale; trainavano slitte in luoghi troppo impervi per i muli e servivano per il trasporto di viveri, acqua, munizioni. A servizio dell’esercito tedesco erano stati arruolati 35.000 cani, dobermann e pastori tedeschi, come portaordini, per la ricerca dei feriti, per la bonifica dai ratti. Testimonianze e fotografie raccontano anche del  loro ruolo amicale tanto apprezzato dai soldati italiani in una situazione di estrema e totale drammaticità, in grado di sollecitare sentimenti di tenerezza e affetto, tanto preziosi in mezzo alle carneficine dove ogni briciolo di umanità sembrava perduto ed era l’animalità a rintracciarlo: insomma, presenze vitali anche in termini di aiuto e sostegno. Peccato che, al termine della guerra, secondo ricostruzioni giudicate attendibili,  furono abbandonati sull’Adamello, nel momento del veloce abbandono della zona dei reparti in rapida avanzata: legati alla catena.


La storia non si ferma, i conflitti si moltiplicano e si inaspriscono e anche nella seconda guerra mondiale i cani sono stati costretti a fare una parte, rimossa come tanto altro è stato rimosso, ma non per questo meno drammatica: furono migliaia quelli arruolati, in varie nazioni, con compiti disparati, tra i quali quello di  bombe viventi, con cariche di esplosivo legate addosso fatte deflagrare al momento opportuno: il pensiero, che vaga dissacrante di associazione in associazione,  va ai bambini e alle bambine a cui  oggi viene inflitta analoga sorte: Iran, Nigeria,  Irak, Afganistan: i cani venivano chiamati “suicidi”, attribuendo loro un’intenzione autodistruttiva funzionale all’assoluzione dei mandanti; quei  bambini e quelle bambine, con in mano le chiavi di un paradiso fallace,  sono chiamati “martiri”, quasi fossero portatori di una scelta consapevole di autoimmolazione anziché vittime del buio della ragione: le parole per commentare davvero mancano.

Della guerra del Vietnam basta ricordare che i 5000 cani, che aiutarono gli americani e salvarono persone, al rientro delle truppe in America furono, per ordine dei superiori, uccisi o abbandonati lì: lì dove, utile ricordarlo, mangiare carne di cane è normale. Con tutto ciò che comporta e che non si riesce a riferire.

Non basta mai e ancora oggi vengono usati perché in grado di percepire gli IED (Improved Explosive Device), bombe artigiane usate per esempio nelle guerre cecene, ma anche come cavie per misurare il potere mortale di armi chimiche e batteriologiche. In altre situazioni, invece, sono costretti a buttarsi con il paracadute da altezze di 5000 metri, con buona pace delle loro caratteristiche etologiche.


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Anche nel compiaciuto orgoglio di Trump per il coraggio di Conan, nella soddisfazione per il suo rapido ristabilirsi dalle ferite, viene occultata la realtà di tutti i suoi conspecifici, gli altri cani di cui, prudentemente, non vengono riferiti il numero, il nome o la razza, così è più difficile immaginarseli:  in quel tunnel sono saltati in aria insieme alle vittime umane: omissione prudente quanto ipocrita quella della loro fine, ma, si sa, in ogni guerra la prima vittime è la verità.

Insomma: cani da guerra, cani poliziotto, cani della protezione civile, arruolati in imprese di guerra e in imprese di pace, che loro non possono distinguere l’una dall’altra , ma sanno servire con dedizione, serietà e abnegazione.

La ridondante retorica, che regolarmente commenta il loro impiego nel salvataggio di umani in pericolo, necessita forse di una riflessione che ne rilevi  le componenti proiettive e antropocentriche: ci piace tanto attribuire loro  la volontà estrema di aiutare persone in difficoltà, di arrivare in tempo e anteporre generosamente il salvataggio delle vittime alla propria incolumità. Non ci asteniamo dall’attribuire loro pensieri e stati d’animo che sono nostri, perché  trasferire sull’altro ciò che ci appartiene è il mezzo che ci facilita nell’incontro, perché riconoscere elementi noti e condividerli crea un terreno comune su cui è agevole muoversi. In  realtà loro sempre si impegnano in  compiti che hanno appreso e di cui non conoscono il valore sociale e la cifra etica: non  perseguono il trionfo di una giustizia, di cui ignorano i parametri, e nemmeno  esprimono preferenze morali; ma non per questo si astengono dal  portarlo a termine  fino all’ultimo fiato pur di assecondare il loro compagno umano. Lo fanno qualunque sia questo compito, come appunto dimostra il loro impiego bellico, in cui vengono trasformati in macchine da guerra, anziché di pace; e il discorso riguarda anche i cani utilizzati per la caccia, quelli addestrati per imprese criminali da bande armate,  quelli mandati al massacro nei combattimenti più o meno clandestini. E altri ancora. Ma sembriamo non capire: e ancora oggi pensiamo ai pastori tedeschi che minacciavano e azzannavano prigionieri deboli e indifesi nel campi di concentramento nazisti come a mostri di aggressività, crudeli e  assetati di sangue; immagine purtroppo rinfrescata dalle cronache del carcere di Abu Ghraib, dove le vittime erano, questa volta, i prigionieri iracheni. Come pensiamo ad altri pastori tedeschi, ai labrador, ai malinois del terremoto come a campioni di generosità.


Un approccio più disincantato e realista dovrebbe riportare la questione nei suoi termini veritieri: riconoscere che ancora una volta siamo noi umani a fare scelte precise e a trasformare i cani in nostri collaboratori, nel bene e nel male, ci carica delle responsabilità che sono nostre; contestualmente, lungi dal togliere valore e significato agli sforzi estremi dei cani,  sono la testimonianza della loro intelligenza, ma anche della determinazione, della lucidità, della ostinazione che anima i loro comportamenti, della loro capacità di amare senza ambivalenze, a differenza di noi umani, che, come afferma Freud, siamo inesperti di amore puro e dobbiamo sempre mescolarlo all’odio nelle nostre relazioni: questa è la cifra del loro attaccamento incondizionato a quell’umano che si sono trovati per compagno, da cui si aspettano come ricompensa  niente altro che una crocchetta, un biscotto, soprattutto l’abbraccio che li scompiglia. “Per quanto ci pensi, non capisco la ragione di un tale attaccamento del cane” dice il regista iraniano Abbas Kiarostami: forse tanta adorazione non trova proprio giustificazione nelle caratteristiche umane, ma dipende da quelle del cane, che, fortuna nostra,  le dispensa gratis.

Per concludere, un pensiero più dolente che ammirato a Conan che magari dell’impresa a cui ha partecipato non è affatto contento e invece, là in Siria, piange i suoi compagni morti: dicono i francesi che, se meticolosamente addestrato l’uomo può diventare il migliore amico del cane. Forse può, ma in un futuro ancora non visibile all’orizzonte.


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