La
relazione con i cani, anche nel mondo occidentale, è tutt’altro che univoca:
siamo in tanti a considerarli nostri compagni di vita, ma anche di lavoro, di
impegno sociale e civile, come ci ricordano i luoghi che sono teatro di terremoti
o altri disastri, dove la loro presenza è fondamentale, dal momento che, pur in
un mondo tecnologicamente tanto avanzato, risultano insostituibili grazie al
loro olfatto e alla capacità ostinata di
tollerare addestramenti ed esercitazioni
estenuanti. Non si tirano mai indietro, tanto che non sono rare le cronache che
parlano di alcuni di loro morti per
stanchezza: sfiancati, pur di non disattendere gli ordini dei loro referenti, a
cui riservano obbedienza totale, abnegazione assoluta.
Davanti
ai servizi che ce li mostrano all’opera, talvolta ci commuoviamo fino alle
lacrime: non è scialbo romanticismo, non è solo l’ipersensibilizzazione sollecitata
dall’affetto, intelligenza, dedizione del nostro cane, quello che amiamo e che
ci ama, e che sempre ci sembra di vedere nelle immagini di quelli come lui. E’
che in loro percepiamo qualcosa di più, una sorta di valore aggiunto rispetto agli
umani che li affiancano e che pure si distinguono per altruismo ed estrema generosità:
perché quello che per l’umano è un
lavoro, una missione, un dovere sorretto da motivazioni a volte elevate
e da una razionalizzazione che ammanta ogni sacrificio di significati che lo
nobilitano, per un cane è sempre, solo e soltanto adesione alle richieste del
proprio compagno umano: quello che è il loro limite è la loro grandezza: solo
per te. E a quel compagno umano guardano come a un dio in terra, per lui
possono superare ogni paura e ogni barriera, in una ostinata e pervicace
volontà di andare fino in fondo, qualunque siano il compito affidato e il
prezzo da pagare.
Di
compiti a loro ne affidiamo davvero tanti, tutti al nostro servizio: per cause
dalla profonda valenza solidale, come l’accompagnamento dei non vedenti; per
altre socialmente utili come il controllo, in veste di bagnini, di acque
potenzialmente pericolose; per altre
ancora di tipo terapeutico quale le svariate forme di pet-therapy; proseguendo
con quelle ben più discutibili quali il traino delle slitte, magari per vacanze
cosiddette alternative. Le cose si complicano quando le attività a cui sono
delegati contemplano attacco e aggressione e loro diventano
allora cani-poliziotto: certo, attività socialmente accettate, ma che espongono
a rischi mortali anche loro, oltre agli umani. Ricca la cronaca: Akil era solo un
cucciolotto di un anno e mezzo, un cane lupo in forza ai reparti speciali di
polizia di Tunisi, quando è morto nel conflitto a fuoco al museo del Bardo del
marzo 2015: la folla si è aperta ed ha applaudito al passaggio del suo corpo,
mentre erano in tanti a non trattenere le lacrime. Invece Diesel, pastore belga, era più matura, aveva 7 anni quando è morta, colpita dalle prime raffiche
di mitra, mentre per prima entrava in un appartamento di Parigi, indicato come covo
dei responsabili degli attentati del novembre 2015. “E’ tornata indietro, colpita, per morire ai piedi del suo padrone, anzi
del suo compagno” hanno raccontato i testimoni, commuovendo la Francia
intera, e non solo. Ad Ape, pastore tedesco di due anni in forza all’FBI, è
stato inutilmente praticato un massaggio cardiaco dopo che è stato colpito da
un uomo, ricercato per l’omicidio di quattro persone, rifugiatosi in uno
scantinato dove non era possibile inviare il robot meccanico che si usa in
questi casi e quindi era lui ad indossare la telecamera d’ordinanza. Si va
oltre, e si entra, con i cani, in zone di guerra, guerre lontane e guerre
dichiarate o meno, molto vicine: Cairo, unico nome ricordato il 6 maggio 2011 dal presidente Obama alla
base militare di Fort Campbell nel suo
discorso di ringraziamento al commando degli 81 membri dell’unità segreta Seal
Team Six, che uccise Osama Bin Laden, era il loro “cane da guerra”, un belga
Malinois, proprio come Conan.
L’omaggio
di Obama, come quello dei compagni poliziotti o degli agenti, ci parla di una
realtà di amicizia e affetto tra uomini e cani, solidali nelle vita e nella
morte, oggetto di un rispetto che esplode nel momento della drammatica
separazione: riserviamo loro onori, ci mettiamo sull’attenti al loro passaggio,
ci lasciamo sopraffare dalla commozione quando li salutiamo, avvolti nelle loro
pettorine che sanciscono l’appartenenza ad un gruppo.
Come
succede per gli umani, gran parte della
realtà viene occultata dietro la retorica dell’ultimo saluto: poco si parla per
esempio dei cani usati in guerra, usanza davvero non nuova dal momento che si
hanno ricostruzioni storiche che datano a 18 secoli prima di cristo il loro uso
in Mesopotamia. Ci riguarda molto più da vicino il loro regolare impiego nelle guerre
e spedizioni del secolo scorso e di quello attuale: sappiamo per esempio che
gli italiani, impegnati nella conquista della Libia del 1912, mandarono là cani,
soprattutto provenienti dalla Sardegna: per
dovere di una cronaca senza onore, a
fine operazioni li abbandonarono sul suolo africano. Per la serie: la
riconoscenza non è dote diffusa tra gli umani quanto lo è nel mondo dei cani,
che, come tutti sanno, sono i migliori amici dell’uomo: nessuno, prudentemente, ha mai sostenuto trattarsi
di un legame di reciprocità.
Per
altro il loro impiego in guerra ci ha invaso di acritica ammirazione, fin dai
tempi in cui Rin Tin Tin a Fort Apache correva all’appello insieme al piccolo
caporale Rusty, inconsapevole antesignano dei bambini soldato: perché gli
Indiani dovevano pure essere sterminati.
Situazioni
tutt’altro che isolate: tante le foto che ritraggono i cani insieme ai soldati italiani
in trincea nel corso della prima guerra mondiale; trainavano slitte in luoghi
troppo impervi per i muli e servivano per il trasporto di viveri, acqua,
munizioni. A servizio dell’esercito tedesco erano stati arruolati 35.000 cani,
dobermann e pastori tedeschi, come portaordini, per la ricerca dei feriti, per
la bonifica dai ratti. Testimonianze e fotografie raccontano anche del loro ruolo amicale tanto apprezzato dai
soldati italiani in una situazione di estrema e totale drammaticità, in grado
di sollecitare sentimenti di tenerezza e affetto, tanto preziosi in mezzo alle
carneficine dove ogni briciolo di umanità sembrava perduto ed era l’animalità a
rintracciarlo: insomma, presenze vitali anche in termini di aiuto e sostegno. Peccato
che, al termine della guerra, secondo ricostruzioni giudicate attendibili, furono abbandonati sull’Adamello, nel momento
del veloce abbandono della zona dei reparti in rapida avanzata: legati alla
catena.
La
storia non si ferma, i conflitti si moltiplicano e si inaspriscono e anche
nella seconda guerra mondiale i cani sono stati costretti a fare una parte,
rimossa come tanto altro è stato rimosso, ma non per questo meno drammatica: furono
migliaia quelli arruolati, in varie nazioni, con compiti disparati, tra i quali
quello di bombe viventi, con cariche di
esplosivo legate addosso fatte deflagrare al momento opportuno: il pensiero,
che vaga dissacrante di associazione in associazione, va ai bambini e alle bambine a cui oggi viene inflitta analoga sorte: Iran,
Nigeria, Irak, Afganistan: i cani
venivano chiamati “suicidi”, attribuendo loro un’intenzione autodistruttiva
funzionale all’assoluzione dei mandanti; quei bambini e quelle bambine, con in mano le
chiavi di un paradiso fallace, sono chiamati
“martiri”, quasi fossero portatori di una scelta consapevole di autoimmolazione
anziché vittime del buio della ragione: le parole per commentare davvero mancano.
Della
guerra del Vietnam basta ricordare che i 5000 cani, che aiutarono gli americani
e salvarono persone, al rientro delle truppe in America furono, per ordine dei
superiori, uccisi o abbandonati lì: lì dove, utile ricordarlo, mangiare carne
di cane è normale. Con tutto ciò che comporta e che non si riesce a riferire.
Non
basta mai e ancora oggi vengono usati perché in grado di percepire gli IED
(Improved Explosive Device), bombe artigiane usate per esempio nelle guerre
cecene, ma anche come cavie per misurare il potere mortale di armi chimiche e
batteriologiche. In altre situazioni, invece, sono costretti a buttarsi con il
paracadute da altezze di 5000 metri, con buona pace delle loro caratteristiche
etologiche.
.
Anche
nel compiaciuto orgoglio di Trump per il coraggio di Conan, nella soddisfazione
per il suo rapido ristabilirsi dalle ferite, viene occultata la realtà di tutti
i suoi conspecifici, gli altri cani di cui, prudentemente, non vengono riferiti
il numero, il nome o la razza, così è più difficile immaginarseli: in quel tunnel sono saltati in aria insieme
alle vittime umane: omissione prudente quanto ipocrita quella della loro fine,
ma, si sa, in ogni guerra la prima vittime è la verità.
Insomma:
cani da guerra, cani poliziotto, cani della protezione civile, arruolati in
imprese di guerra e in imprese di pace, che loro non possono distinguere l’una
dall’altra , ma sanno servire con dedizione, serietà e abnegazione.
La
ridondante retorica, che regolarmente commenta il loro impiego nel salvataggio
di umani in pericolo, necessita forse di una riflessione che ne rilevi le componenti proiettive e antropocentriche:
ci piace tanto attribuire loro la
volontà estrema di aiutare persone in difficoltà, di arrivare in tempo e
anteporre generosamente il salvataggio delle vittime alla propria incolumità. Non
ci asteniamo dall’attribuire loro pensieri e stati d’animo che sono nostri,
perché trasferire sull’altro ciò che ci
appartiene è il mezzo che ci facilita nell’incontro, perché riconoscere
elementi noti e condividerli crea un terreno comune su cui è agevole muoversi. In
realtà loro sempre si impegnano in compiti che hanno appreso e di cui non conoscono
il valore sociale e la cifra etica: non perseguono il trionfo di una giustizia, di cui
ignorano i parametri, e nemmeno esprimono
preferenze morali; ma non per questo si astengono dal portarlo a termine fino all’ultimo fiato pur di assecondare il loro
compagno umano. Lo fanno qualunque sia questo compito, come appunto dimostra il
loro impiego bellico, in cui vengono trasformati in macchine da guerra, anziché
di pace; e il discorso riguarda anche i cani utilizzati per la caccia, quelli
addestrati per imprese criminali da bande armate, quelli mandati al massacro nei combattimenti
più o meno clandestini. E altri ancora. Ma sembriamo non capire: e ancora oggi
pensiamo ai pastori tedeschi che minacciavano e azzannavano prigionieri deboli
e indifesi nel campi di concentramento nazisti come a mostri di aggressività,
crudeli e assetati di sangue; immagine
purtroppo rinfrescata dalle cronache del carcere di Abu Ghraib, dove le vittime
erano, questa volta, i prigionieri iracheni. Come pensiamo ad altri pastori
tedeschi, ai labrador, ai malinois del terremoto come a campioni di generosità.
Un
approccio più disincantato e realista dovrebbe riportare la questione nei suoi
termini veritieri: riconoscere che ancora una volta siamo noi umani a fare
scelte precise e a trasformare i cani in nostri collaboratori, nel bene e nel
male, ci carica delle responsabilità che sono nostre; contestualmente, lungi
dal togliere valore e significato agli sforzi estremi dei cani, sono la testimonianza della loro intelligenza,
ma anche della determinazione, della lucidità, della ostinazione che anima i
loro comportamenti, della loro capacità di amare senza ambivalenze, a
differenza di noi umani, che, come afferma Freud, siamo inesperti di amore puro
e dobbiamo sempre mescolarlo all’odio nelle nostre relazioni: questa è la cifra
del loro attaccamento incondizionato a quell’umano che si sono trovati per
compagno, da cui si aspettano come ricompensa niente altro che una crocchetta, un biscotto,
soprattutto l’abbraccio che li scompiglia. “Per quanto ci pensi, non capisco la
ragione di un tale attaccamento del cane” dice il regista iraniano Abbas
Kiarostami: forse tanta adorazione non trova proprio giustificazione nelle
caratteristiche umane, ma dipende da quelle del cane, che, fortuna nostra, le dispensa gratis.
Per
concludere, un pensiero più dolente che ammirato a Conan che magari
dell’impresa a cui ha partecipato non è affatto contento e invece, là in Siria,
piange i suoi compagni morti: dicono i francesi che, se meticolosamente
addestrato l’uomo può diventare il migliore amico del cane. Forse può, ma in un
futuro ancora non visibile all’orizzonte.
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