per quello amicissimo, sbadatamente diretto contro il proprio piede o la propria spalla, e per quello per nulla amico per cui a caderne vittima sono gli altri, i passanti casuali. Tra questi ultimi trovano posto persone impallinate perché scambiate per fagiani; altri così mimetizzati da suggerire la presenza di un cinghiale, presenza talmente desiderata da allucinarla nel pensiero; ci sono bambini colpiti mentre giocavano in cortile; braccianti impegnati nella raccolta di frutta, atterrati l’uno dopo l’altro come birilli.
E ci sono anche bambini nel ruolo di discepoli portati con sé per un precoce imprinting, aggirando spensieratamente non solo norme di legge, ma soprattutto minimale senso di responsabilità genitoriale. E si può continuare con i danni collaterali, accidenti imprescindibili di ogni guerra che si rispetti, che, nella forma di infarto o grave malore, colpiscono cacciatori di solito un po’ agé, il cui fisico, ahimè, come per altro in tante cose della vita, non sostiene debitamente una inalterata passione dei sensi.
Insomma morti e feriti di ogni "stagione venatoria", meriterebbero un
interesse di cui non si vede traccia nelle istituzioni: la caccia non solo non si tocca, costi quel
che costi, ma, tramite iniziative regionali, continua a godere
delle sovvenzioni pubbliche, destinate agli sport; cosa incredibile se giudicata non solo in base ad un barlume di senso
etico per cui non vi può essere nulla di sportivo, nel senso di leale, corretto
e rispettoso, nell’andare ad uccidere esseri
indifesi, ma neppure volendosi attenere alla definizione letterale di “sport” data dalla Commission of
the European
Communities WHITE PAPER ON SPORT (luglio
2007), fatta propria dal CONI (che riconosce la FIDASC, Federazione Italiana di armi sportive da caccia), secondo
cui il termine sport si riferisce a “qualsiasi attività fisica che …….. abbia per obiettivo l’espressione o il miglioramento
della condizione fisica e psichica, lo
sviluppo delle relazioni sociali o l’ottenimento di risultati in competizioni di tutti i
livelli”. Le “relazioni
sociali” e le “condizioni fisiche”
così care all’attività venatoria sono quelle di cui sopra, che, per imperizia,
imprudenza, superficialità, incompetenza, discontrollo emotivo, deliri di
onnipotenza, dato l’accesso, per certificata idoneità psicofisica, al fucile caricato a pallettoni, comportano
l’evenienza che tali relazioni risultino mortifere, quindi non esattamente in
fase di implementazione e sviluppo come vorrebbe l’autorevole libro bianco: non
esiste stagione di caccia che non si concluda con decine di morti e un numero di
gran lunga superiore di feriti [1]: il chè
testimonia la natura niente affatto accidentale delle vittime umane, che sono
invece intrinseche alle dinamiche venatorie.
Quanto all'ipotizzato miglioramento delle
condizioni psichiche, beh il discorso, nella sua complessità, risulta quanto
mai interessante. A partire dalla considerazione che la caccia , per gli
occidentali, è attività di svago e fonte di piacere, alternativa ad una partita
a tennis o a calcetto, per intenderci; le motivazioni reali che ne sono alla
base sono offerte generosamente dai diretti interessati, i cacciatori, i quali,
nei loro siti, la celebrano in estasi con espressioni che diventano mantra: palpitante
avventura, eccitazione, magia, ardore, passione, ebbrezza, euforia: se non
altro si deve dar loro atto di ottime competenze introspettive,
nell’autoriconoscimento di emozioni e stati d’animo.
Temendo comunque di trovare ben poca condivisione al di fuori della loro rassicurante e autoreferenziale cerchia e ben sapendo di quanto la loro passione venga connotata, da una fiumana in crescita di detrattori, come pesante disvalore anziché estasi mistica, i cacciatori fanno poi seguire giustificazioni ideali, riferite all’ amore per la natura, al dovere di civiltà e alla missione ecologica di cui si sentono portatori: il tutto sintetizzato nel concetto di “caccia buona”, ossimoro linguistico al servizio della mistificazione della realtà, a cui ci sarà sempre qualcuno disposto a credere o a fingere di farlo: un po' come all'idea di "amore criminale" insomma: quello per cui si accoltella e magari poi anche si brucia quella che si ama tanto. .
Temendo comunque di trovare ben poca condivisione al di fuori della loro rassicurante e autoreferenziale cerchia e ben sapendo di quanto la loro passione venga connotata, da una fiumana in crescita di detrattori, come pesante disvalore anziché estasi mistica, i cacciatori fanno poi seguire giustificazioni ideali, riferite all’ amore per la natura, al dovere di civiltà e alla missione ecologica di cui si sentono portatori: il tutto sintetizzato nel concetto di “caccia buona”, ossimoro linguistico al servizio della mistificazione della realtà, a cui ci sarà sempre qualcuno disposto a credere o a fingere di farlo: un po' come all'idea di "amore criminale" insomma: quello per cui si accoltella e magari poi anche si brucia quella che si ama tanto. .
La difesa
ad oltranza della loro attività suggerisce
ai cacciatori di bypassare prudentemente il punto di vista delle vittime : grandi
assenti, nelle loro descrizioni, sono gli animali, il loro terrore, la
disperata fuga per la salvezza, il ferimento, gli spasmi, l’agonia talvolta
interminabile, la disperazione di
cuccioli vicino alle madri morte,
l’annichilimento delle madri davanti al corpo immobile dei
figli. Assenti sono il cervo senza
scampo che chiede grazia con le sue lacrime, nelle parole di Montaigne; la cerva che assiste
il maschio ferito, con la testa levata al cielo e l’espressione piena di
cordoglio, in quelle di Tolstoj; quelli che sentiamo ansimare increduli nei filmati dai luoghi della carneficina: volpi
stanate da buche profonde, rifugio vano da cani che le estraggono strappando loro
la pelle, e aprono la strada al cacciatore di turno, appostato nei dintorni.
E’ un guardiacaccia,
Giancarlo Ferron[2],
che racconta di caprioli in fuga, inseguiti per giorni, che corrono con la schiuma alla bocca, senza
più fiato, tremanti e sfiniti con la
bocca spalancata per la fame d’aria; racconta di cacciatori che hanno due o
tre mute di cani, per sostituire quella sfiancata nell’inseguimento di un
capriolo, che lui però di sostituti non ne ha; ancora racconta di animali che
si suicidano buttandosi dalle rocce, pur di sottrarsi allo sbranamento annunciato dai
latrati che si fanno più vicini. Nessun animale, lo sappiamo bene, può sottrarsi
alla furia omicida dei cacciatori, che siano elefanti o uccellini di pochi
grammi: “sparerebbero pure alla colomba dello Spirito santo”, sentenzia un bambino nel colorito spirito napoletano[3], che
bene compendia l’impulso ad andare ad ammazzare esseri di ogni genere e taglia,
che volino, corrano, che siano miti o aggressivi: purchè respirino.
La descrizione degli
“annessi e connessi” dell’attività venatoria può sfidare per tasso di crudeltà
quella che trasuda dai tanti musei della tortura, sparsi nelle nostre città, a imperitura
testimonianza della profondità del male che l’essere umano sa creativamente
produrre: ci sono uccellini impigliati nelle reti, quelli accecati così da
richiamare con il canto i loro consimili; quelli ingabbiati
per il medesimo scopo
; c’è l’infierire ignobile contro animali spossati
dalla migrazione o dallo sforzo di sopravvivere a inondazioni, terremoti o
altre calamità. Addestrare i cani ad estrarre a morsi animali dalle tane per sparargli
addosso è attività per la cui connotazione il linguaggio non dispone di
aggettivi appropriati
; non ne dispone per definire il piacere di uccidere orsi in
letargo; oppure elefanti o leoni dal sedile di un elicottero; ulteriori perversioni, già
diffuse in altri continenti, tra cui quella di sparare ad animali esotici,
intrappolati in stretti recinti (canned
hunts ) dopo la dismissione da circhi e zoo o cresciuti
come pet una volta sottratti da neonati alle madri, non sono ad oggi penetrate nel
nostro territorio. Ma non c’è da preoccuparsi perchè il
turismo venatorio supplisce generosamente a questo fastidioso limite: basta
pagare, dal momento che i capi uccisi
devono giustamente essere remunerati con generosità ai legittimi proprietari.
Un discorso a parte
meriterebbero poi altre vittime animali, i cani, trasformati in aiutanti killer
mediante un addestramento vigoroso: le cronache raccontano dell’abbandono e della
soppressione dei “soggetti” non idonei, della detenzione in gabbie che sono
prigioni per tutto il tempo non destinato alle battute, di quelli da annoverare tra le vittime
accidentali di colpi sparati a casaccio. A completamento, è una novella
cacciatrice, Catia, a fornire nella sua intervista on line un grazioso particolare,
quello tanto diffuso da meritare un termine ad hoc, la frustata, vale a dire una fucilata che abitualmente i cacciatori
sparano nel sedere di cani disobbedienti o lenti nell’apprendimento (“la famosa
frustata” dice), metodo di
addestramento da cui lei però si vanta
di smarcarsi.[4]
Ora, oltre a spietatezza, soprusi, crudeltà, esplode in tutto il meccanismo
venatorio un ancestrale bisogno di sangue, che spesso esonda in un crescendo di
esaltazione,
in un delirio fuori controllo, che lascia sul terreno vere e
proprie carneficine: non basta mai, tanto che leggi pur tanto permissive, al
servizio di una più che compiacente politica, devono porre dei limiti al tempo
del cacciare e al numero delle vittime
da uccidere, supplendo con le restrizioni normative all’assenza di quelle
etiche
.
Non a caso, il parallelismo
tra caccia e guerra è stato colto in ogni epoca, essendo l'una e l'altra attività connesse dalla stessa essenza basata su uccisioni di massa: la caccia è sempre stata considerata
una raffigurazione ritualizzata della guerra[5], un
sostituto ugualmente sanguinario, ma tanto più rassicurante vista la
sproporzione delle forze in campo, nonchè la non belligeranza degli animali
che, nemici inconsapevoli di esserlo, cercano solo di fuggire. Se la causa più
profonda della reiterazione delle guerre, come diceva già Freud, sta tutta nelle
pulsioni aggressive e distruttive, insite nell’uomo, altrettanto si può sostenere a proposito della caccia, l'una e l'altra da porre in contesti in grado di fare emergere la nostra ombra più oscura, le nostre
parti più nascoste e abiette.
Alla luce di tutto ciò, si
impone la necessità di scrutare di più nelle emozioni e nei pensieri dei
cacciatori[6], alla
ricerca dell’origine di quel vuoto etico che è il brodo di cultura della loro
passione; si viene così a contatto con elementi che dovrebbero essere fonte di grande
preoccupazione per chiunque abbia a cuore la condizione psichica delle persone,
come sostiene di fare il CONI: nei loro comportamenti prepotenti e brutali la fa
da padrona quella assenza di empatia che esonda in psicopatia nel piacere dichiarato di essere
artefici dell’estrema sofferenza e della morte di esseri senzienti. Soprattutto
appare virulenta una forma grave di sadismo, nell’accezione psicologicamente
corretta del termine, che lo definisce quale “tratto del carattere proprio di
chi si compiace della crudeltà” , tratto innato o collegato ad una risposta a frustrazioni e umiliazioni; diretto alla
ricerca di un piacere generato dal provocare dolore o dal senso di potenza
personale che deriva dalla capacità di sopraffarre l’altro.[7]
Esiste anche un’altra accezione di sadismo, che è strettamente connessa ad una perversione della sessualità: direzione in cui vanno espandendosi studi sulla personalità dei cacciatori, nel cui inconscio, secondo alcuni autori, si troverebbe un vaso di Pandora di elementi sessuali repressi. Lo afferma la psicologa clinica Margaret Brooke-Williams secondo cui il sentimento di potenza che l’attività venatoria comporta è in grado di offrire temporaneo sollievo al disagio esperito dai cacciatori. Teoria suffragata dallo psicologo sociale Rob Alpha secondo cui nella pulsione sessuale e nella compulsione a cacciare e uccidere vengono attivate le stesse aree cerebrali. Alle spalle, una tradizione corposa, dal momento che già lo psichiatra Karl Manninger (1893-1990) sosteneva che il sadismo tipico della caccia rappresenta le energie distruttive e crudeli dell’uomo verso le creature più indifese[8].
La caccia, come la guerra, dà forma a pulsioni aggressive, a cui vengono dati significati di comodo, crea dipendenza e desiderio di ripetizione: si va ad uccidere spinti da aspetti della propria personalità, e poi è la ripetizione stessa dell'azione di uccidere esseri indifesi a modificare lo psichismo di chi lo fa, dal momento che nessuna esperienza può essere vissuta senza che ne restino tracce in grado di modificarci.
In attesa di
ulteriori spunti dalle ricerche in corso, è interessante sottolineare che
quello della caccia è un territorio in cui la prevalenza maschile raggiunge
percentuali bulgare e in cui l’accesso delle donne è visto con l’evidente
fastidio che sempre provoca l’ingresso femminile in aree in cui il machismo è
tratto distintivo: non è casuale che il primo convegno internazionale di donne
cacciatrici, tenutosi a Riva del Garda pochi anni fa, sia stato
completamente ignorato dai colleghi maschi.
Un po’ diversa da quella italiana la situazione nei paesi nordici, dove la presenza femminile nell’universo venatorio
è maggiore, in sintonia cona la convinzione che parità significhi adattamento agli standard maschili,
standard che, in quei paesi, sono incistati in una cultura, che, per esempio, celebra e ritualizza l’ingresso dei bambini nell’età adulta con il dono del fucile e la partecipazione
alla prima battuta: "grande uguale cacciatore" insomma o vede l'obbligatorietà del servizio militare senza differenze di genere. Il discorso porta lontano, ma il parallelismo tra caccia e guerra,
unificate dal comune uso delle armi, dalla disponibilità ad uccidere, dall’assunzione
di una filosofia di vita aggressiva, è innegabile punto di partenza dei
necessari approfondimenti.
Se non c'è pensiero che aiuti le vittime animali
della caccia a sottrarsi all’orgia di violenza di cui devono
subire l’inenarrabile dolore, urge comunque una rivisitazione della realtà: se attività sadiche, tese alla sopraffazione, al sangue e
alla morte di vittime inermi sono legalizzate
e incentivate dalle istituzioni, se vengono definite salutari da organismi
internazionali, se sono giudicate utili al miglioramento delle condizioni
psichiche e all’implementazione delle relazioni sociali di chi le pratica, beh
allora la distinzione tra giusto e ingiusto, lecito ed illecito, civile ed
incivile non può che collassare, con tutte le conseguenze del caso. La
mistificazione in atto è implicitamente sostenuta in tanti modi: per esempio dalla vendita stessa delle armi accanto agli sci o ai costumi da bagno nei
negozi sportivi, giusto per sdoganare l’idea che farsi una nuotata o massacrare un cinghiale è solo una questione di gusti individuali. Per
non parlare della richiesta sciagurata che i cacciatori possano entrare nelle scuole presentandosi quali testimonial della natura e, udite udite, difensori degli animali.
Anche da qui, dalla improrogabile rifondazione di un linguaggio, che sia teso a comunicare e non a falsificare la realtà, è necessario ripartire, se vogliamo contrastare l'espressione della parte più oscura di noi, quella che anche nella caccia trova ideale terreno d'espressione, strenuamente difesa da una politica sempre colpevolmente pronta a sacrificare l'etica all'interesse.
Anche da qui, dalla improrogabile rifondazione di un linguaggio, che sia teso a comunicare e non a falsificare la realtà, è necessario ripartire, se vogliamo contrastare l'espressione della parte più oscura di noi, quella che anche nella caccia trova ideale terreno d'espressione, strenuamente difesa da una politica sempre colpevolmente pronta a sacrificare l'etica all'interesse.
[1] Per
conoscere i numeri esatti, si consulti il sito www.vittimedellacaccia.org, che
possiede archivi dal 2007 e aggiorna costantemente i dati.
[2] “Il
suicidio del capriolo”, Giancarlo Ferron;
Biblioteca dell’Immagine 2003
[3] “Nessun
porco è signorina”, Marcello D’Orta;
Mondadori 2008
[4] http://www.sabinemiddelhaufeshundundnatur.net/ale/caccia_intervista.htm
[5] Argomento
trattato in “Finchè non lo vedrai cadere esangue”, in “In direzione contraria”
di Annamaria Manzoni, Sonda2009;
[6] Si
veda “Ai cacciatori il posto d’onore” in
“Sulla cattiva strada” di Annamaria Manzoni; Sonda 2014
[7] “Nuovo
Dizionario di Psicologia”, Umberto Galimberti, Feltrinelli 2018
[8] https://www.feelguide.com/2016/11/07/hunting-linked-to-psychosexual-inadequacy-the-5-phases-of-a-hunters-life-of-sexual-frustration/
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RispondiEliminaEh si: occorrono i comportamenti individuali, ma è fondamentale il ruolo delle sitituzioni. E siamo messi male...
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