Di certo, a trattamenti non di favore
ci è più che abituato: tra gli animali peggio citati, insultati, diffamati, il
posto d’onore va senza ombra di dubbio alla sua specie, a quei maiali, che continuiamo
a non conoscere nonostante li abbiamo
addomesticati , alias schiavizzati nel peggiore dei modi, da un bel po’ di
millenni, dal 6000 A.C. dicono gli studiosi; abbiamo da allora lasciato alla
loro “controfigura”, quella dei cinghiali, un destino di libertà che resta però
vigilata e controllata, soggetta al piacere dei cacciatori, che così, pur
lontano dalle lusinghe dell’Africa nera, possono fingere il brivido della
caccia grossa, da alternare a quella a minuscoli volatili, che, per eccitante
che sia, dopo milioni di individui impallinati e disintegrati, magari finisce
per annoiare un po’.
I maiali hanno la sfortuna di
vivere in ogni continente, se si esclude l’Antartide, adattandosi con una certa
facilità a condizioni di vita differenziate, tanto che, se lasciati in pace,
potrebbero vivere anche un quarto di secolo. Ma lasciati in pace non sono mai stati, dal momento che è dall’antichità che vengono sgozzati per
essere mangiati e non solo: perché, è risaputo, del maiale non si butta via
niente. Conoscenza appannaggio di gran parte dell’umanità, di cui l’uomo pare
darsi vanto nel celebrare la propria diligenza nell’evitare sprechi, e di cui
lui, il maiale, paga lo scotto: non solo
salsicce, prosciutti e salami, ma grasso x candele; pelle e tendini x corde di
strumenti musicali; setole per spazzole e pennelli.
Ma non basta ancora: perché i
maiali sono portatori di una tale (misconosciuta) vicinanza e parentela
genetica con noi umani, che la sperimentazione su di loro non conosce confini e
le valvole dei loro cuori battono in tanti petti umani, in cui hanno sostituito
quelle originali malfunzionanti: realtà di cui non ci piace tanto parlare e
tanto meno mettere in luce le implicazioni anche etiche.
Lo sfruttamento istituzionalizzato a cui i maiali
sono regolarmente sottoposti ha raggiunto livelli numerici stratosferici: se
quelli allevati in Italia sono all’incirca 8 milioni, le cifre si dilatano
negli Stati Uniti, dove si parla di 70
milioni di individui uccisi ogni anno, a fronte della Cina, dove i milioni
sarebbero 500. E’ proprio da questo paese che arrivano le ultime notizie dell’orrore
spacciate per razionalizzazione della
produzione : sono ormai operanti i Pig Hotels, megastrutture che arrivano fino
a 13 piani, nuove frontiere dell’allevamento che sfrutta lo spazio verticale
per carenza di quello orizzontale, lager legali e
ipertecnologici dove ammassare un numero prima inimmaginabile di individui e
ucciderli massimizzando il profitto, dove centinaia di migliaia di
suini e suinetti vivono e muoiono ingabbiati, senza mai avere potuto compiere
un solo passo.
Se i numeri per loro stessa
natura non suscitano empatia, ma al
massimo uno sconcertato stupore, lo stesso non si può dire dell’immensità
della violenza moltiplicata per ogni
singolo individuo suino, comprensiva di evirazioni e taglio della coda, terrore, uccisioni a catena di montaggio, sadismo
nelle forme più sconcertanti che ogni investigazione mette in luce.
Tutto questo su esseri che sono
giocosi, intelligenti, ricchi affettivamente; che fanno un po’ sorridere con i
loro gusti alimentari che contemplano anche golosità articolate, per cui meloni,
banane, mele e tanti altri frutti li fanno sgrufolare dal piacere. Sono
naturalmente riservati e rispettosi di loro forme di igiene, per cui, in
natura, fanno i loro bisogni lontano da dove mangiano e da dove dormono. Amano
sguazzare nel fango che è la loro crema solare, perché ne protegge la pelle
dalle scottature e tiene lontane le mosche. La scrofa è madre amorevole che costruisce
un nido accurato per la prole, accessoriandolo
con ramoscelli e rami che cambia ogni notte. Possono riconoscere i
colori, sognano e, nelle parole poetiche di un loro grande estimatore nonché
studioso, Jeffrey Masson, cantano alla luna. Quando sono liberi in natura,
riconoscono l’odore degli esseri umani a 400 metri, e il fatto che ci evitino
con cura è uno dei segnali della loro intelligenza: mai decisione fu più
saggia. La performance della sedicenne Iris che, ad un talent, si è presentata
con il suo maiale Pongo il quale, scodinzolando e apparentemente sorridendo, l‘ha
seguita in una prova di agility ha mandato in delirio pubblico e giuria, l’uno
e l’altra evidentemente a digiuno di qualsiasi conoscenza di un maiale non
ridotto in salsiccia.
A fronte di questo ed altro
ancora, la rappresentazione del maiale continua ad essere quella di un animale lurido,
dotato dei peggiori istinti. Il perché lo sintetizza bene l’etologo Danilo
Mainardi quando dice che “anche il maiale possiede una sua
intelligenza, ha capacità sociali e affettive: ma preferiamo non venirlo a
sapere, perché quest’ignoranza
indubbiamente ci facilita la digestione”.
Ottima sintesi di un processo
psicologico elaborato: possiamo infliggere agli animali tanta sofferenza solo
sulla scorta di una imponente mistificazione. Il processo empatico che agisce
da riconoscimento dell’individualità dell’altro, inibisce comportamenti
aggressivi accorciando le distanze e permette di mettersi nei panni altrui non
ha luogo dove interviene il disprezzo: chi appartiene ad un gruppo che si considera
sfavorevolmente, è escluso dalla nostra attenzione empatica. Se tutti gli
animali sono disprezzati in quanto inferiori a noi, specie eletta, i maiali disprezzati
lo sono ancora un po’ di più: ed è proprio questo enorme surplus dispregiativo a sostenere
l’inenarrabile abuso che facciamo di
loro. E’ questo il motivo ultimo del costante discredito, della
rappresentazione ingiuriosa e diffamante che facciamo di lui, non a caso resistente
ad ogni progressiva conoscenza etologica che ne metta in luce doti, bellezze,
capacità, e che viene diligentemente e prudentemente ignorata. Il maiale è
totalmente reificato nel linguaggio
economico che, attento all’altalena dei prezzi, si preoccupa di distinguere
il “suino pesante” da quello “leggero”.
Ma ci permettiamo persino dileggio e scherno della sua
sofferenza: “Facciamo la festa al porco” è uno dei graziosi slogan che ha
accompagnato una delle tantissime sagre estive a base di scorpacciate di
salsicce, accessoriata con manifesti in cui un maiale sorridente e ammiccante,
corona in testa e forchetta in…zampa, celebra la propria uccisione: oltre il
danno, una beffa oscena. Che compare e ricompare nelle immagini di musi di
maiale a decorazione sconcia nelle vetrine di macellerie o sui tavoli dei
ristoranti. Insomma abbiamo costruito a
bella posta e sosteniamo ad arte lo stereotipo del maiale quale animale
spregevole: questa rappresentazione riveste un potere disinibente e dà la stura
ai peggiori atteggiamenti, i quali, lungi dal provocare disagio, vengono
esibiti con spensierata soddisfazione.
Non si può
certo sottostimare la valenza denigratoria di tutte le bestemmie che ne usano
il nome per insultare divinità da cui ci si aspetterebbe un decisamente
maggiore accudimento e magari anche qualche favore; ma anche un intercalare un
po’ fuori moda non si astiene dall’insulto a lui diretto: porco cane e porca miseria,
ma persino Maremma maiala, nel fioritissimo
linguaggio toscano.
E’ all’interno
di questa totale denigrazione, di una
diffamazione ingiusta e indegna che abbiamo deciso che quelli che consideriamo
i nostri più bassi istinti e il richiamo ad una lussuria peccaminosa non appartengano in
verità a noi come specie (eletta), ma vadano buttate fuori, proiettate su
qualcun altro che raccolga su di sé l’indecenza, che mettiamo in pratica, ma non
ci inorgoglisce. Eccolo lì allora il maiale, ricettacolo di sozzure, indegno e
turpe: un vero porco, insomma, simbolo di carnalità lasciva, bestia immonda che
grugnisce e tiene sempre il muso a terra, e non alza mai lo sguardo verso
l’alto, verso ciò che è puro, teso al divino, come facciamo noi. E’ un gioco
forte di proiezioni, di cui gli animali sono spesso l’oggetto: ne facciamo
simboli e proiettiamo su di loro ciò che rifiutiamo di noi; nel maiale appunto anche
gli aspetti di una sessualità che giudichiamo immonda. Dalla ferita
narcisistica (così la chiamava Freud) infertaci dalla consapevolezza darwiniana
che i nostri avi sono scimmie, quando ci vantavamo invece di essere stati forgiati
dal tocco divino, ci difendiamo puerilmente continuando a rifiutare le nostre
parti oscure, le nostre ombre, che ributtiamo
su altri. Ci crediamo giganti e siamo nani; e di tutto questo gli animali
pagano l’inaccettabile prezzo.
La
trasformazione del maiale in simbolo di lussuria è accanimento che potenzia la
sua diffamazione e giustifica ulteriormente gli orrori di cui lo rendiamo vittima.
L’atteggiamento del movimento #metoo contro le molestie sessuali, in tutto
questo, lascia sconcertati: nel corso della settimana della moda di New
York, il 10 febbraio, la stilista francese Myriam Chalek, direttrice creativa
di American Wardrobe, ha fatto sfilare modelle, alcune delle quali accessoriate
con ali a riferimento di donne angelicate, ammanettate a uomini, i loro violentatori, il
cui viso era coperto da maschere di maiale: queste rappresentazioni
accompagnate da slogan del tipo #balancetonporc,
#denunciailtuomaiale, #fanculomaiale, ripresi in questi giorni dal quotidiano tedesco, sono insulti non ai
molestatori, non ai maiali, ma all’intelligenza di ognuno. Non c’è niente di
nuovo sotto quel sole che splendeva già nel Medio Evo: in alcuni Musei
della Tortura, che vanno prolificando in tutta Italia, è possibile vedere la Maschera d’infamia: si tratta di una
delle cosiddette Maschere di Derisione,
che aveva la forma di testa di maiale oppure di asino, che doveva essere
indossata dal condannato di turno per umiliarlo pubblicamente; era un supplizio
psicologico usato per privare della dignità la vittima, aggiungendo il dileggio
al supplizio vero e proprio, che veniva consumato sotto la maschera stessa. A
fondo bisognerebbe riflettere sul fatto che il pubblico, lungi dal provare un
qualunque moto di ribellione contro tale accanimento, infieriva ergendosi a
fustigatore: secondo un meccanismo psicologico dalla valenza dirompente,
considerare l’altro meritevole del castigo, impedisce pietà ed empatia.
Il fatto che oggi le donne, donne
fiere, vittime rinforzate, sopravvissute indomabili, alla ricerca della propria
dignità e della condanna di chi cerca di insidiarla, usino l’accostamento maiale–lussuria lascia basiti:
conoscenze, o meglio ignoranze etologiche a parte, nessun movimento può condurre
una battaglia per i propri diritti calpestando ferocemente quelli di altri, che sono sempre ancora un po’ più
deboli: e il primo diritto è quello al rispetto. La strada per la
consapevolezza è lunghissima, è evidente; nel percorso non è però tollerabile
che i più torturati, dileggiati, oppressi tra gli animali debbano prendere su
di sé il peso e la condanna di delitti altrui: perché l’ulteriore diffamazione
di cui sono oggetto non farà che ricacciarli ancora un po’ più giù nella scala
dei diritti, il cui fondo non sembra mai raggiunto. Il modello così proposto si
allontana da quello rispettoso, ugualitario, pacifico per riproporre quello
abusato di carnefice e vittima, in cui dietro l’obiettivo consapevole di porre
riparo all’ingiustizia si intravede una per quanto inconscia accettazione dei
rapporti di potere. Tutto questo non fa che confermare che nessuna visione
della vita che non contenga al proprio interno gli altri animali non può che
essere parziale e ingiusta nel momento stesso in cui si ferma ai confini illusori dell’umano. E con colpevole
dimenticanza ignora il ruolo che le donne individualmente e politicamente hanno
rivestito nella storia passata e recente nel farsi carico della questione
animale, che hanno accostato a quella femminile, in nome della loro empatia, dei loro convincimenti, della loro capacità,
anche, di “sentirsi tutt’uno col dolore degli altri”: lo diceva Rosa Luxembourg
che non era Myriam Chalek, dallo strazio del carcere di Bratislava, che non era
una passerella di moda di New York city.
Che dire? In questo mondo –scrive
un bambino di Napoli sulle pagine di Nessun porco è signorina- gli animali
credono che c’è solo l’inferno, perché vivono su questa terra e non immaginano
che c’è anche il paradiso In paradiso gli parlerò e gli dirò “Scusate se vi
abbiamo trattato male”.
In attesa di un improbabile
paradiso in cui chiedere scuse tardive, è dolce il pensiero di Giancarlo De
Cataldo quando si chiede “Chissà se per tutti i piccoli porcellini il grugnito
di mamma scrofa è come la voce dell’angelo, chissà come se l’immaginano i
maialini, un angelo”. Di certo libero, di sognare, di portarli a correre là
dove si gioca.
Analisi logica e filosofica perfette. Dobbiamo diffondere e provocare vergogna e senso di colpa nella massa umana deprivata di ogni intelligenza etica.
RispondiEliminaLe bestie umane vivono ancora la barbarie del paleolitico. Solo scienza e tecnologia hanno dimensioni evolute. Solo un 10% ha raggiunto il talento proprio dell'animale, non della bestia, homo: Razionalità etica.
Lavoro enorme da continuare, indipendentemente dai risultato, che difficilmente sono quelli che ci si aspetta che siano. Grazie del commento!
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