L’attuale massacro russo è la riproposizione di un
copione più volte visto anche in anni recentissimi: a Kiev, Ukraina, nel 2012,
in occasione degli europei di calcio; a Sochi, Russia, nel 2014 dove si
svolgevano le Olimpiadi invernali; in
Marocco, pochi mesi fa, in attesa dell’arrivo di una delegazione FIFA che valutasse la candidatura
del paese ad ospitare i Mondiali 2026.
Quello che si ripete con regolare precisione è che, in occasione di eventi calcistici di
particolare risonanza, in alcuni paesi migliaia di cani, che normalmente vivono
nelle strade in vario modo integrati nel tessuto urbano, o in alcuni casi senza
che nessuno si preoccupi di idonei
interventi di sterilizzazione, divengono improvvisamente elementi di disturbo, dissonanti
rispetto ad una presunta immagine di civiltà, presenze moleste e sgradevoli da eliminare. Sui modi per farlo c’è
grande tolleranza e scarsa pubblicità:
ci sono i bocconi avvelenati e le armi da fuoco, ma nel passato è giunta
notizia persino di cerbottane e picconate, inferte con perizia da squadroni
della morte, composti da volenterosi esecutori di ordini evidentemente non così
sgraditi, resi per altro più appetibili da un riconoscimento in denaro per ogni
“carcassa” presentata. Le autorità sembrano poco preoccupate da una possibile
propaganda negativa, forti del fatto che ogni volta anche la peggior grana è
sfumata in denunce via via sempre più
flebili delle organizzazioni animaliste internazionali, in questa ultima
occasione poco più che silenti, e in rimozione totale della carneficina al primo
fischio di inizio che fa della vasca dello stadio fonte di obnubilamento di
ogni malessere dell’animo, tanto efficace e popolare da fare impallidire al confronto una fumeria
dell’oppio della Cina ottocentesca.
Se è vero che il mondo occidentale non può vantare
innocenza alcuna dati i massacri quotidiani nei mattatoi e le tante altre
ignominie perpetrate contro i nonumani, queste stragi di cani inducono ad alcune
considerazioni specifiche della realtà in cui hanno luogo: colpisce per esempio
il silenzio, che finisce per assumere
valenza di assenso, del mondo del calcio,
tifosi non esclusi, tutti rigorosamente
compatti nel separare il proprio ruolo da qualunque coinvolgimento nelle
vicende in atto, che sembrano non riguardarli nonostante siano le
manifestazioni in programma a dare il via alla “pulizia di specie”. Sono in funzione mastodontici meccanismi di
negazione, che proteggono da fastidiosi sensi di colpa: meccanismi esiziali,
forieri delle peggiori conseguenze. La realtà viene rimossa o negata grazie a
quella abitudine a chiudere gli occhi, a girare la testa dall’altra parte
o a metterla sotto la sabbia, a fare lo struzzo, come ci suggeriscono le
metafore non a caso così comuni nel nostro linguaggio, comuni come lo sono i
comportamenti a cui si riferiscono: si finge di non vedere nonostante
l’accesso alla realtà sia a portata di mano, di occhi, di orecchie e di
cuore, per sentirsi innocenti di un male di cui è scomodo prendere atto. Di esempi
della diffusione di queste forme di
autoassoluzione perché il fatto non sussiste sono piene la storia e la cronaca,
tanto che sono stati in molti a stigmatizzarle: scomodiamo Martin Luther King
che diceva che non è grave il clamore chiassoso dei violenti, ma il silenzio
spaventoso delle persone oneste. E lasciamoci raggiungere dalle parole di
Albert Einstein che ci ricordano che il mondo è quel disastro che è non
tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l’inerzia dei giusti (giusti?!?)
che se ne accorgono e stanno lì a guardare. E da quelle di Antonio Gramsci che sono invettive
contro gli indifferenti di ogni genere: perché l’indifferenza è “la materia bruta che strozza l’intelligenza”.
Nel ripetersi di queste stragi, nella reiterata
domanda del ”Ma io cosa ci posso fare?”,
dell’imperativo morale ad agire, che dovrebbe emergere davanti a qualsiasi
ingiustizia, non si è vista traccia. Dato per scontato che non ci si possano
aspettare sollevazioni popolari, a volte
basterebbe però una minoranza capace di rivolta per cambiare il corso della
storia, anche di una piccola storia di cani russi. Se qualcuno nel mondo del
calcio avesse alzato la propria autorevole voce per condannare il massacro in
atto, minacciando per esempio di disertare i campionati nel caso un altro cane
ancora fosse stato ucciso, molte cose avrebbero potuto cambiare, non esclusa
una reazione a catena in direzione contraria al silenzio . In tanti studi
condotti sui gruppi, emerge sempre che anche un solo dissenziente è in grado di
far crollare il tasso di conformismo. Il dissidente nella Russia dei
Mondiali 2018 non c’è stato. Peccato: una grossa occasione persa: ogni
cane sottratto alla crudeltà di una morte ingiusta avrebbe per sempre portato
con sè la propria gratitudine, come sempre fanno i cani, così pronti a non
recare rancore, nonostante tutto, alla specie umana. Una grossa occasione persa
perché il nostro tempo non ha tanto bisogno di eroi da osannare perché centrano
una rete, quanto ne ha di uomini comuni, di quelli che compiono la banalità del
bene semplicemente oltrepassando la frontiera che separa la passività
dall’azione.
Ancora: quest’ultima guerra unilateralmente dichiarata contro i
cani, come quelle analoghe che l’hanno
preceduta, è scoppiata su un terreno
fertile, reso idoneo non tanto con la produzione di armi, in questo caso
primitive, dal momento che i diligenti
esecutori degli ordini se la cavano benissimo anche con sassi e bastoni, ma
soprattutto con il coltivare e sostenere l’idea che questi animali sono esseri
senza diritti, e in quanto tali assoggettabili all’arbitrio umano, quale che
sia il modo in cui si manifesta. La
trasformazione di chi è senza diritti nel nemico di turno è fin troppo facile:
basta completare il disprezzo con la paura. Non è certo un caso che stragi di
cani, di queste dimensioni e alla luce del sole, non possano avere luogo in alcuni
paesi del mondo occidentale (scandalose
eccezioni sono rappresentate per esempio dalla Spagna, ma non solo) dove il
randagismo non è tanto dilagante, ma soprattutto dove la considerazione dei
cani nel corso del tempo si è organizzata sul riconoscimento di una serie di
diritti e quindi su almeno embrionali forme di rispetto. Non è considerazione
di poco conto: implica la consapevolezza che è la narrazione che facciamo
dell’altro, la cornice cognitiva in cui inseriamo la sua esistenza, a determinare il nostro comportamento nei suoi
confronti; implica che, in mancanza del riconoscimento del suo valore, il confine tra la tolleranza e il più
spregiudicato accanimento sia valicabile con una facilità estrema. Chi è senza
diritti viene regolarmente disprezzato e facilmente il disprezzo confina
con l’idea della sua pericolosità: in questo modo si costruisce il rifiuto e poi la violenza nei
suoi confronti nei pensieri ancora prima che nelle azioni. Su queste basi è
facile poi sostenere e giustificare forme di crudeltà appellandosi alla necessità della
sicurezza, dell’ordine, della pulizia, che sarebbero messe a rischio dalla loro
presenza.
La dinamica non è certo nuova, è
codificata e possiede anche un nome che la identifica: si tratta dell’attribuzione
di colpa alla vittima: sono loro, sono i cani i colpevoli. Un meccanismo analogo da noi si è
ripetutamente scatenato con la caccia all’untore, identificato in altri senza
diritti, nelle mucche colpevoli del dilagare, vero o presunto, della mucca,
resa pazza dalla nostra stessa follia, o nei volatili, che, potenziali diffusori di influenza
aviaria, visto le condizioni in cui li costringiamo, periodicamente e
nell’indifferenza generale vengono gasati a centinaia di migliaia: al primo
allarme, di cui neppure è necessario verificare l’attendibilità, la carneficina diventa doverosa, risposta considerata
etica dagli umani che fronteggiano coraggiosamente
l’emergenza: la narrazione parla della
vittima come del colpevole da distruggere perché pericoloso e quindi indegno di
pietà, e del carnefice come autore di un intervento meritorio e degna di plauso.
Periodicamente anche alcune razze canine, pitt bull e affini, subiscono sorte
analoga sulla scorta dell’improvviso tam tam sulla loro pericolosità, con la
differenza che la caccia al killer, data l’appartenenza alla specie canina, non assume i contorni legali delle altre, ma
resta appannaggio di singoli, entusiasti di poter riversare una aggressività
che li definisce come individui, in una causa al momento popolare: giustizieri
del giorno e della notte, almeno per un po’;
altre volte di solerti amministratori locali, costretti poi a giustificazioni
penose.
Le testimonianze del massacro
appena concluso in Russia sono gallerie degli orrori, le cui descrizioni ci travolgono, inutile negarlo, anche perché a danno dei cani, che amiamo,
perché di loro conosciamo l’intensa vita emotiva e sentimentale, la capacità di
gioire, la vulnerabilità alla paura, la tensione verso relazioni fatte di
attaccamento, di propensione alla condivisione del tempo e dello spazio; insomma
un universo che non finiamo mai di scoprire con ammirato stupore. Proprio la
conoscenza che abbiamo di loro rende insopportabile saperli perseguitati, terrorizzati, uccisi, che siano
cuccioli persi di paura, cagne incinte o sagome vaganti in cerca di compassione.
Indignarsi però resta sterile esercizio
se non si individua una strada per porre
fine per sempre al ripetersi di tanto orrore, strada che passa per la
costruzione di una diversa considerazione degli animali, marcata sul
riconoscimento dei loro diritti e sul rispetto loro dovuto: a distanza di tanti
decenni da quando si è cominciato a parlarne con sempre maggiore frequenza, ne
siamo lontani anni luce e la conseguenza è che, si tratti di cani, di mucche o
di uccelli, i pogrom saranno sempre lì pronti a scoppiare di nuovo. Nella impaziente
attesa che le cose si muovano a livello legislativo, è facoltà e sarebbe dovere
di ognuno prendere posizione, schierarsi, sostituire all’inerzia l’attivismo
con le parole e con i fatti. Ad uno stato delle cose inaccettabile nel corso
della storia si sono opposte persone dalla statura immensa, rischiando la vita:
i Perlasca, le Irina Sandler, i Schindler quando si ribellavano alle atrocità
in corso, rischiavano la vita: noi tutto quello che mettiamo in gioco opponendoci
è un po’ del nostro tempo.
Tempo da dedicare magari anche ad
altri pensieri: la pulizia dalle strade russe dai randagi che
ne deturpavano l’immagine, la loro colpevolizzazione del disordine in atto, il silenzio acquiescente di troppi richiama
con intensità altre pulizie, di umani senza
patria e senza dimora, per questo senza identità e senza diritti, contro cui i
potenti e i prepotenti si accaniscono, convogliando aggressività che hanno ben altra origine e creando il capro
espiatorio del momento.
Tutti uniti, contro chi è debole:
la storia tragica degli animali non è metafora delle altre ingiustizie contro
gli umani, ma appartiene di diritto alla storia, quella in cui il diritto del
più forte, sempre, la fa da padrone.
Il pensiero ora va a loro, a quelle migliaia di
cani catturati, ammassati, massacrati, di cui forse possiamo immaginare
i pensieri che hanno attraversato la mente in mezzo a
quell’esplosione insensata di violenza, guardando negli occhi il nostro di
cane, quando ci fissa in attesa dei nostri gesti da cui sempre fa dipendere
felicità o delusione. Del tutto indifferenti di chi, tra l’entusiasmo
generale, verrà proclamato il vincitore di un campionato, che tutti i
partecipanti hanno già perso in materia di solidarietà, empatia e rispetto.
Purtroppo è così. Lo è ancora di più se di mezzo c'è una attività umana che genera denaro e, al contempo distrae le menti dai problemi reali. Sono uno sportivo ho giocato tanti anni a calcio e mi è sempre piaciuto, ma non a questo prezzo, non sulla pelle di creature innocenti che spesso ci SALVANO LA VITA!
RispondiEliminaMa non cambierebbe nulla anche se queste creature non avessero nessun merito, se non fossero utili (che brutta parola) all'uomo in alcun modo.
Queste operazioni di pulizia di specie non hanno giustificazioni ma hanno un unico responsabile.
La maledetta bestia umana e la sua cattiveria nei confronti di chiunque, tanto più se è impossibilitato a difendersi, tanto più se è l'ultimo dei senzavoce.
È vero occorre impegnarsi tutti i giorni della nostra vita per non buttarla via nell'inutilità del superfluo e della mancanza di empatia.
Questi mondiali non li guarderò, lo devo alle mie Alice e Tofee e a tutte le creature non umane torturate e uccise dell'uomo.
Paolo Barbon
Che dire, hai detto tutto! Condivido chiedendo ai destinatari di leggere e riflettere
RispondiEliminaGrazie Unknown. Scusa l'enorme ritardo della roisposta.
EliminaCredo sia tu a chiedermi un contatto personale. mandami un messaggio su facebook, se vuoi.