domenica 23 novembre 2025

L’abitudine alla guerra

20 Novembre 2025

Il genocidio di Gaza, la guerra in Ucraina, gli stermini in Sudan, ma anche le notizie sul cecchinaggio contro i bambini di Sarajevo. Negli ultimi due anni siamo stati catapultati in scenari prima appannaggio quasi esclusivo dei film di guerra. Stiamo reagendo ognuno a modo proprio, spesso facendo finta di niente, scoprendo che a tutto ci si abitua, tra reazioni di sgomento e condotte di evitamento. Servono momenti in cui pensare insieme e imparare a guardare il fondo dell’abisso per liberarci, ad esempio, dall’idea che aver subito orrore trasforma le vittime in difensori dei più deboli, ma prima di tutto per riflettere sulle responsabilità dei modelli culturali ed economici dominanti, da noi stessi alimentati. Le violenze e le guerre non nascono improvvisamente. E i mezzi con cui cerchiamo di contrastarle non sono più separabili dai fini

Unsplash.com

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Quello che sta succedendo a Gaza ormai da due anni, e che non pare affatto interrotto da un accordo di pace già declassato nei fatti a flebile tregua, in Ucraina da oltre tre, le pur scarsissime notizie che filtrano dalle altre decine di luoghi del pianeta, trasformati in zone di guerra spaventose, Sudan e Nigeria in testa con gli stermini di massa che li abitano, stanno incidendo progressivamente anche sul nostro modo di sentire e reagire, sul nostro psichismo, vulnerabile a ogni esperienza, vissuta anche solo da testimoni: le reazioni iniziali sono state di incredulo sgomento, di sbigottimento davanti alle cronache quotidiane di massacri, agli spazi dei media invasi da realtà che pensavamo appartenere a tempi spazzati via da una inarrestabile civilizzazione, marcata dalla ricerca dell’universalizzazione dei diritti. I meno giovani di noi, cresciuti immaginando e vagheggiando, sull’onda di canzoni divenute inni e miti, “un mondo senza ragioni per uccidere né per morire, un mondo senza confini né avidità, nessun paradiso da guadagnare né inferno da temere, nessuna religione ad imporre dogmi,” eravamo davvero persuasi che, se di sogno matto si trattava, era un sogno bello da sognare, e forte tanto da generare azione.

Il risveglio da quello che si sta rivelando essere stato uno stato soporoso, di ottundimento o di colpevole ingenuità, in cui il desiderio è stato scambiato per realtà, è stato brutale. Innegabile che i decenni appena trascorsi fossero stati carichi di indizi, lì pronti da cogliere se solo lo si fosse voluto: parole quali giustizia, solidarietà, diritti andavano sempre più scansandosi per fare largo a individualismo, indifferenza, competizione, che per le nuove generazioni diventavano il brodo di coltura per una diversa idea di mondo.

Ma ancora nulla a che fare con l’idea di guerra, ripudiata dalla Costituzione, ma soprattutto rifiutata dai giovani totalmente insofferenti anche a quel servizio militare preparatorio al suo svolgersi, obbligo insensato che chi poteva rifuggiva poco nobilmente provando ad imboscarsi e molti altri, più coscienziosamente, a preferirvi il servizio civile, che un senso condivisibile ce lo aveva. Make love, not war era diventato il mantra esibito gioiosamente non solo in oceaniche manifestazioni, ma anche su onnipresenti spille e autoadesivi: infine tanto interiorizzato e normalizzato da non necessitare nemmeno più di essere ribadito. Imparare a imbracciare un fucile, magari strisciando su terreni dissestati, zaini zavorrati in spalla, era ormai considerato un esercizio di machismo, da lasciare a chi ne aveva bisogno per compensare scarsi livelli di autostima, ma capace solo di sottrarre tempo alle bellezze della vita.

Sembrava strada senza ritorno. Eccoci invece catapultati in scenari prima appannaggio esclusivo di quei film di guerra, visti dalla postazione rassicurante di una poltrona cinematografica o dal divano di casa: tutto si risolveva in un paio d’ore di ansia adrenalinica, eccitante intervallo tra più o meno confortanti tran tran da vita civile, magari un po’ noiosa, ma di certo rassicurante.

Poi, quasi senza preavviso, le cronache quotidiane hanno cominciato a parlare un linguaggio esondante di massicci attacchi, linee del fronte, difese aeree, offensive finali, piogge di missili, esplosioni, raid, mentre i droni, oggetti ancora sconosciuti a molti, entravano di prepotenza nel nostro vocabolario, provocando prima sorpresa e ben presto progressiva abitudine.

Molto più drammatico è stata convivere con le immagini, tanto più universali delle parole, perchÉ capaci di scatenare un impatto emotivo dirompente anche quando ci sfilano davanti solo per pochi secondi. I nostri occhi e di conseguenza la nostra mente sono andati registrando il dilagare sugli schermi di uomini trasformati da mitra, bombe a mano, kalashnikov: da esseri umani a macchine da guerra, spaventose e ferali. E poi scenari di edifici rovinanti al suolo a trasformarsi in cumuli di macerie; città in frantumi; fumo ad annerire il cielo.

Ancora niente a confronto della straripante disperazione umana: bambini sporchi e disperati a piedi nudi tra le macerie con fratellini più piccoli sulle spalle, che al microfono di chi prova a farli raccontare, rispondono per esempio, con un sorriso mite, che la cosa più brutta è quando di notte piove e i materassi sono tutti bagnati: orrido atto d’accusa verso il mondo adulto. E poi fiumane di gente spossata che si trascina verso chissà dove, bende su corpi feriti, lenzuola ad avvolgere cadaveri di ogni dimensione.

E il dolore misconosciuto di altri esseri, gli asini, fantasmi pelle e ossa obbligati a trascinare pesi immensi e ci si chiede come possano farlo e speriamo manchi poco perché stramazzino a terra verso l’unica liberazione a cui possano aspirare, quella fornita dalla morte: senza il debole sostegno di cui almeno gli umani possono godere abbracciandosi gli uni agli altri. Loro no: in totale solitudine, lontano anche dal conforto di un’ultima carezza che consoli una briciola del loro immeritato martirio.

Noi, testimoni involontari e lontani, abbiamo reagito ognuno a modo proprio, nel tentativo di mitigare lo spettacolo spaventoso che l’umanità, a cui apparteniamo, dà di sé: i più coraggiosi sono partiti per provare ad offrire aiuto, tantissimi hanno manifestato, scritto, raccolto aiuti.

Anche altro sta però succedendo: una sorta di stanchezza per la quotidiana informazione sulle tragedie in atto, che hanno il grande pregio di poter essere cancellate con un click del telecomando o sulla tastiera. E sparire dai nostri pensieri. Così da una parte ci sono quelli che non si possono sottrarre alla tragedia e noi, che ci indigniamo, ma ne possiamo annullare anche solo la percezione perché troppo dolorosa. Non è certo la prima volta che succede: basta pensare ai naufragi a poche miglia dalle nostre coste e alla morte in mare di decine, a volte centinaia, di persone alla ricerca di una vita vivibile. Anche in quel caso lo sgomento dei primi tempi, alimentato anche da puntuali cronache e filmati, si è via via affievolito: relegato a trafiletti sulle pagine interne dei giornali, a informazione di pochi secondi dalle televisioni, ha finito per essere bypassato dalla nostra attenzione e soprattutto dalla nostra compassione e solidarietà. Tutto normalizzato nella sua ripetitività. È una realtà molto preoccupante perché “a tutto ci si abitua” significa che basta un po’ di pazienza e poi tutto quello che è insopportabile diventa accettabile.

Volendo essere un po’ meno severi verso noi stessi e la nostra pericolosa adattabilità al peggio, è giusto ricordare che non sempre si tratta di indifferenza e cinismo: è invece vero che quella che appare come colpevole desensibilizzazione è a volte figlia di compassion fatigue, di un esaurimento, alimentato dall’esposizione prolungata alle sofferenze altrui, in cui ci si identifica empaticamente, ma che si è impotenti a modificare. Se quella sofferenza viene assorbita, può travolgere e sottrarvisi appare l’unico modo per rimanere integri. E allora cambiare canale, leggere altro sull’web perché “non ce la faccio più a guardare”, corrisponde a una strategia di salvezza, certo non esente da sensi di colpa, di inconfessata vergogna, ma comunque salvifica.

Non sempre è possibile: le notizie sono a volte talmente forti da bucare come una lama il ghiaccio delle nostre corazze. Arrivano dai luoghi da cui le informazioni sono più frequenti, a partire dal massacro di Gaza. Una di queste riguarda la strategia di Israele per affamare la Striscia, di cui si parla da tempo: prendere per fame è piano indegno, ma non nuovo, come la storia insegna: per restare a tempi non lontani furono i tedeschi a far morire di fame oltre un milione di civili russi tenendo sotto assedio Leningrado per oltre due anni nel corso della seconda guerra mondiale. Ma nulla può competere in orrore con l’Holodomor, devastante piano genocidario ordito da Stalin negli anni 1932/33, quando vari milioni di ucraini furono letteralmente fatti morire di fame, secondo gli storici per perseguire una collettivizzazione forzata e contestualmente reprimere le aspirazioni nazionalistiche dell’Ucraina stessa. Ne dà una descrizione agghiacciante Vasilij Grossman nel suo Tutto scorre scritto tra il 1955 e il 1963, in cui la descrizione di morti individuali restituisce la dimensione di tragedia umana alla valenza storica dei fatti.

Un’inchiesta del Guardian denunciava già mesi fa oltre alla evidente crudeltà anche un intollerabile cinismo da parte di Israele, colpevole di affamare “in modo calcolato” la popolazione palestinese attraverso un preciso controllo delle calorie necessarie alla sopravvivenza, monitorando il divieto di lasciare affluire alimenti proteici per donne e bambini. La notizia è stata ripresa e diffusa a settembre dall’organizzazione umanitaria MUSIC FOR PEACE che ha fatto sapere che, per ordine del COGAT, (organismo che coordina le attività governative nei Territori) i pacchi destinati a Gaza vengono aperti e svuotati da biscotti, miele, marmellata, datteri in quanto proteici e quindi in grado di dare un po’ di forza a una popolazione stremata. Le autorità israeliane hanno calcolato con precisione svizzera quante calorie sono necessarie ai palestinesi per sopravvivere e conseguentemente autorizzato l’ingresso nella Striscia di quantità inferiori. Il Guardian cita un precedente già nel 2006, quando un collaboratore dell’allora premier Olmert disse: “Mettiamoli a dieta senza farli morire”. Ma neppure il solerte collaboratore poteva vantare, tra i suoi pregi, quello dell’originalità. È necessario risalire ancora un po’ a ritroso la corrente del tempo per imbattersi in un altro precedente, il famigerato programma AktionT4: attuato dal regime nazista in centri situati in Germania e in Austria ufficialmente tra il settembre 1939 e l’agosto 1941 (proseguito in forma clandestina fino al termine della guerra), prevedeva l’uccisione sistematica di persone “indegne di vivere” perché affette da disabilità fisiche o mentali, considerate gusci umani vuoti. Ufficialmente si parla di 70.000 morti forse, 250.000/300.000 se si estende la ricerca alle fasi clandestine. Ne fa una tragica ricostruzione il film Nebbia in agosto (2016), sulla storia vera del tredicenne Ernst Lossa, che ne fu vittima, film che bene ripercorre la minuziosa tecnica della riduzione delle calorie nei cibi quale strategia di uccisione silenziosa, attuata da medici, solerti esecutori degli ordini hitleriani, con la loro scienza al servizio del Male, quello con la M Maiuscola.

Insomma una delle forme più subdole di sterminio burocratico, che Israele riprende, traendone ispirazione proprio da quelli che furono i suoi persecutori. Un altro tassello da prendere in considerazione quando ci si interroga su come sia possibile passare dal ruolo di vittime a quello di carnefici. Domanda a cui forse ha già dato risposta Primo Levi nel suo I sommersi e i salvati in cui rifletteva su come il confine fra carnefici e vittime non sempre sia netto e si possa piuttosto collocare in una zona intermedia, abitata dal bisogno e dalle circostanze, che determinano i comportamenti. E lo fa la riflessione psicologica relativa a come le esperienze possano essere interiorizzate nella loro complessità: non sarà avere subito orrore e ingiustizie a trasformare la vittima in difensore del diritto e dei deboli, se ad essere stato interiorizzato è il rapporto di prevaricazione come stile di relazione. Riproponendolo, sarà possibile mettersi dall’altra parte, quella dell’oppressore.

E poi ci sono i casi in cui infliggere il male non è neppure la conseguenza, per quanto ingiustificabile, di averlo subito. Anzi: proviene da chi dalla vita sembra avere tutto: ricchezza, posizione, possibilità di gestire il tempo come gli pare e piace. E, tra ciò che gli pare e piace ci sono le battute di caccia, dove infliggere dolore e sofferenza fino allo spasimo contro vittime indifese eccita e soddisfa. Ma la sindrome di onnipotenza è così pretenziosa da non ritenersi soddisfatta di obiettivi animali nonumani, bersaglio alla portata di tanti altri compagni di fucile da risultare così poco elitaria. E allora le competenze in tema di abilità e di sadismo si possono meglio esprimere su vittime umane, scelte come capita, ma in osservanza di un tariffario della vergogna. È successo a Sarajevo negli anni tenebrosi dell’assedio dove, sta emergendo, alcuni stimati professionisti si spostavano dalle zone ricche del nord Italia per eccitanti week end all’insegna del cecchinaggio contro i bambini, di certo un po’ costoso, ma ne valeva la pena, se mai pareggiando il conto con vittime meno care, uomini e donne, fino ad arrivare agli anziani, di tanto poco valore da poter essere uccisi anche gratis. Orrore? Vergogna? Sdegno? No, non c’è parola al mondo capace di connotare l’essenza che la ricostruzione dei fatti comporta. Il vocabolario non è stato aggiornato.

Migliaia e migliaia di pagine sono state scritte nel tempo nel tentativo di trovare una spiegazione al perché della guerra e della violenza così ubiquitarie nella storia umana né tanto meno di trovare quale sia la strada per escluderle dal tragitto della storia. Nulla di fatto ad oggi. Anzi. Forse varrebbe la pena approfondire lo strano caso, di cui parla il ricercatore Carl Safina, di una comunità di gorilla divenuta quasi pacifica per mancanza di modelli comportamentali aggressivi dopo la morte per tubercolosi dei maschi adulti. Chi sia depositario di tali modelli è di certo meno netto tra gli umani che non tra i gorilla, ma, una volta allargato il cerchio, una seria riflessione sulle responsabilità dei modelli anche oggi in circolazione sarebbe molto più che un ottimo punto di partenza per modificare lo stato di questo mondo che, semplicemente, è un mondo sbagliato.


 

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