PUBBLICATO SU COMUNE.INFO 24.03.2024 Le ricorrenze, nel loro preciso ripetersi, tracciano punti fermi nel nostro calendario interiore, richiamando ad una sorta di memento: ricordati, ricordati di ricordare qualcosa che non va dimenticato.
Quelle religiose, per chi religioso si ritiene, dovrebbero anche essere un monito, un richiamo a dogmi, credenze, riferimenti che però sempre più spesso appaiono appannati nel mondo occidentale dove la tendenza in ascesa è quella del fai quello che vuoi purchè ti piaccia. Tanto che dichiararsi credente per molti finisce per limitarsi ad un’etichetta che risulta protettiva, pur nel materialismo dilagante, in quanto assicura nell’al di là la strada verso un’ immortalità sempre agognata, ed è nel contempo garanzia, nell’al di qua, di un’accettazione sociale, basata sull’ostinata equazione religioso uguale buono, capace di fornire una sorta di pregiudizio positivo, per cui non esiste necessità di dovere argomentare: basta la fede, che per altro è dono e non merito.
Tutto bene? Non proprio. Fatto salvo il sacrosanto diritto alle proprie credenze, esistono addentellati, accessori a queste stesse credenze che investono un ambito che non è più quello spirituale intoccabile, ma invade vita e morte di centinaia di migliaia di altri esseri senzienti, nello specifico, quando si parla di Pasqua, di agnelli. La loro uccisione non conosce sosta lungo tutto l’anno, ma, in questa ricorrenza, diventa rito, tradizione, cultura, e rispolvera il postulato, per sua natura indimostrabile, che l’agnello, quello di Dio, è colui che toglie i peccati dal mondo attraverso la sua stessa morte: lui, innocente, indifeso, fragile viene allora condannato ad una morte impietosa così da redimere l’uomo dai suoi peccati. Vecchia storia che si rifà al concetto di capro espiatorio, colui sul quale vengono riversati i debiti umani non pagati che lui, morendo, si dice riscatterà. Chi mai davvero può credere in questa narrazione che è l’apoteosi dell’ingiustizia, per cui il peccatore si salva compiendo un altro peccato, quello dell’uccisione di un innocente, di milioni di innocenti? Torna alla mente la figura, non si sa quanto storicamente dimostrata, dell’whipping boy, il ragazzo che, all’inizio dell’età moderna, affiancava un giovane principe in modo che, quando questi commetteva errori, venisse frustato al posto suo, preservando così il nobile da umiliazione e dolore. Se questa situazione lascia noi contemporanei increduli, non riesce comunque a disappannare il nostro sguardo davanti ad altre ingiustizie del tutto simili che continuiamo serenamente a compiere attribuendo loro significati spirituali. In fondo, per altro, in forme fortemente diverse, la tentazione di far pagare ad altri le nostre colpe non ci è certo estranea, anzi esercita un’ attrazione di non poco conto, sintetizzabile nella convinzione che l’importante è il nostro benessere, chissenefrega se pagato con miserie altrui. E questi altri, i capri espiatori, incaricati della missione, sono sempre i più deboli, quelli privi di diritti, incapaci di vendetta: tutto considerato, in quanto specie che teorizza e sostiene tutto questo, non ne usciamo davvero bene e ci iscriviamo a tutto tondo nella categoria dei codardi.
Ma all’allegra mattanza pasquale degli agnelli si unisce anche uno stuolo di non credenti, che, per l’occasione, rispolvera un attaccamento imprevisto alla tradizione, che incredibilmente affida all’abbacchio, il quale, al forno o alla romana, magari con contorno di patate, dovrebbe essere il mezzo per celebrarla. E l’abbacchio, giusto per ricordare i distratti e gli smemorati, è l’agnello ucciso entro i primi due mesi di vita: insomma appartiene a quello stuolo di decine di migliaia di neonati d’altra specie che già stanno affollando le nostre strade e autostrade, stipati sui camion, belanti di terrore e di sgomento, per arrivare ad essere macellati giusto in tempo per le nostre tavolate.
In un mondo che ogni anno macella circa 70 miliardi di animali, limitando la conta solo a quelli terrestri, hanno forse poco senso la rabbia e il raccapriccio davanti alla strage di questi cuccioli, quasi le nostre reazioni sancissero un loro diritto alla vita maggiore di quello delle vittime di altre specie. Così non è: ma esistono particolari ragioni, o forse emozioni, solleticate da questo scempio, in primo luogo riferite alla abitudine di celebrare una festa, per giunta cattolica, con il massacro di altri esseri, come in questo caso, di assoluta innocenza: quale mai logica perversa può reggere una ingiustizia tanto conclamata?
C’è anche altro a caratterizzare l’uccisione di altri animali, ma non degli agnelli. Uno dei tanti meccanismi messi in moto per sdoganarla è quello che si serve della loro denigrazione: il maiale, per esemplificare, è costantemente rappresentato come brutto, sporco, grasso, dotato di istinti sconci: un vero maiale insomma. Il biasimo di cui lo si ricopre, e non fa nulla se in modo etologicamente del tutto scorretto, è il lasciapassare per la sua orrida eliminazione: uno così, in altri termini, se lo merita proprio il trattamento che gli riserviamo.
Non va meglio a galline, oche, tacchini, la cui presunta stupidità diventa autorizzazione al loro sfruttamento. I bovini sono invece circondati da una narrazione mistificata che li vede quieti e miti, tanto che La vache qui rit da oltre un secolo è costretta a guardarci felice dalla confezione del formaggio francese, fatto con il latte sottratto al suo vitellino mandato al macello.
Qualche problema in più lo procurano i cavalli, amati da molti quali animali da compagnia, problemi comunque presto accantonati se è vero che l’Italia brilla per i suoi primissimi posti nelle classifiche dei paesi importatori di carne equina dal resto del mondo. Animali di tante altre specie, quali i conigli, vengono semplicemente rimossi, dimenticati, resi invisibili.
Gli agnelli no: sono e restano simbolo di purezza, innocenza, vulnerabilità. Sono bianchi come il latte, il loro vagito è simile a quello dei bambini, sollecitano tenerezza e chiedono protezione. Celebrati nei peluches, smuovono commozione nei bambini, che si rispecchiano nella loro fragilità. Ecco, su di loro che sono simbolo di tutto ciò che è incontaminato dalle brutture del mondo, si scatena la brutalità di chi, per conto terzi, vale a dire industria e consumatori, svolge il lavoro sporco: li afferra per le zampe e li allontana, mentre belano la loro vana richiesta di pietà, dalle loro madri, quelle madri che, se conoscessero per intero la loro sorte ululerebbero come lupi come racconta Josè Saramago nel suo Vangelo secondo Gesù Cristo, quello in cui c’è posto anche per la tenerezza verso tutti gli altri animali. Caricati sui camion della morte, spinti in enormi macelli dove verranno accoltellati e lasciati a morire dissanguati, mentre i loro compagni terrorizzati guardano in attesa del proprio turno, testimonieranno con la loro morte il primato dell’homo necans, quello che afferma se stesso uccidendo altri e che di sapiens conserva davvero poco.
La strage degli agnelli, con i suoi picchi di crudeltà, non è un fenomeno a sé stante, ma piuttosto un tassello della geografia umana: da due anni anche il mondo occidentale è coinvolto nei teatri bellici di Ucraina e Gaza (che per altro sono solo la punta dell’iceberg di almeno altre 60 guerre sparse per il mondo) che gettano davanti agli occhi di tutti l’esistenza di uno sconvolgente potenziale umano di crudeltà: morte ovunque, distruzioni, uccisioni atroci anche di bambini e anziani, torture irraccontabili, sadismo normalizzato. Ora bisognerà pure arrivare a rendersi conto che la violenza è il più contagioso di tutti i virus, che tutte le forme in cui si concretizza e si manifesta si collegano direttamente o indirettamente l’una all’altra, che se qualche inossidabile idealista ambisse ancora e nonostante tutto ad un mondo pacificato, non potrebbe prescindere dalla coscienza che la sua costruzione non può che passare attraverso l’esclusione della violenza tout court: in tutti i campi, contro chiunque diretta, da chiunque praticata.
Diceva Edmondo Marcucci, pacifista di fama internazionale, che “l’uccisione degli animali è un esercizio di violenza che abbrevia la distanza all’uccisione dell’uomo, alla guerra”. Mentre Aldo Capitini, filosofo della nonviolenza, sosteneva che se si fosse imparato a non uccidere gli animali si sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini, perchè la scelta nonviolenta avrebbe avuto ricadute sul nostro modo di essere: tanto che diventò vegetariano negli anni ‘30, convinto che la scelta di non uccidere animali avrebbe sostenuto il rifiuto ad uccidere gli uomini nella guerra che vedeva minacciosamente avvicinarsi.
Era invece Edgar Kupfer-Koberwitz, dalla sua esperienza di internato a Dachau, ad affermare “che gli uomini saranno uccisi e torturati fino a quando gli animali saranno uccisi e torturati e che fino ad allora ci saranno guerre”.
Ora, in questo mondo afflitto dai peggio conflitti, l’attuale strage degli agnelli non può essere derubricata a fatto privo di importanza grazie a quel confronto vantaggioso che, mettendola a confronto con le immani crudeltà sugli esseri umani, consenta di sminuirne il portato, sulla scorta del mantra con tutto quello che succede…! Al contrario sostiene pericolosamente la normalizzazione e l’ubiquità della crudeltà del più forte sul più debole, crudeltà, è bene ricordarlo, che non è opera di sadici o psicopatici, ma è intrinseca al tessuto stesso delle nostre società, che lungi dal condannarla, la sostengono culturalmente, come sostengono tutte le altre violenze legalizzate sugli animali. Fondamentale è allora riconoscerlo il male, e smettere di confondere ciò che è lecito con ciò che è giusto: per capire finalmente che l’uccisione di centinaia di migliaia di cuccioli, lecita, legale, normata dalle leggi, è e resta un crimine morale che nessuna legge morale può essere in grado di assolvere.
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