Drapetomania è un
termine che pochi conoscono e poco male che si sia perso, insieme a ciò che letteralmente
designava.
Vale però la pena ripescarlo dalle nebbie in cui si è giustamente
dileguato perchè troppo spesso succede che le radici di un passato che ci
illudiamo superato sforino il terreno,
magari in un altrove lontano, e l’albero ricresca con il proprio florilegio di
nefandezze. Riscopriamo allora che, nel corso del 1851, tale Samuel Cartwright
(1793-1863), che di professione faceva il medico e di casa stava negli Stati
Uniti, lo ideò per dare nome a un disturbo
mentale, caratterizzato dall’insano
desiderio di fuga coltivato dagli afroamericani, schiavizzati sul Nuovo Continente
(“…quella fastidiosa abitudine del fuggire,
che hanno molti negri…” diceva). Il tutto per non svolgere il compito a loro
affidato che era appunto quello di fare gli schiavi, secondo i dettami biblici
che prevedevano, a detta di Cartwright,
che al loro padrone rimanessero sottomessi e quindi non desiderassero
andarsene. Non solo i comportamenti, ma anche i desideri, lo sappiamo bene,
sono peccaminosi….
“Se l’uomo bianco …. mantiene lo schiavo nella
locazione che indicano le Sacre Scritture, ovvero la sottomissione, e se il suo
padrone o sorvegliante è cortese con lui, ma senza condiscendenza, e allo
stesso tempo soddisfa i suoi bisogni fisici e lo protegge dagli abusi, il negro
rimarrà ammaliato e non fuggirà. » scriveva in un surreale
articolo intitolato “Relazione sulle
malattie e le peculiarità fisiche della razza nera” pubblicato sul New
Orleans Medical and Surgical Journal, non proprio quindi sul giornalino parrocchiale.
Purtroppo non
tutti i padroni erano dotati della
necessaria sagacia: alcuni erano francamente un po’ troppo crudeli e non
migliori si dimostravano altri, troppo familiari, troppo condiscendenti. Gli
uni e gli altri diventavano responsabili
dell’insorgere della malattia, che poteva fortunatamente essere scongiurata (quando segnali quali una certa rabbia e insoddisfazione ne avessero denunciato i prodromi) con una violenta dose di frustate preventive,
o, con intervento più radicale, con la rimozione degli alluci, atta a risolvere definitivamente il problema rendendo
impossibile la corsa allo schiavo visionario.
Una teoria del
genere, per quanto delirante oggi ci appaia, non viene generata da una mente
semplicemente malata, ma si sviluppa su una visione del mondo ad hoc: quella
dell’illustre medico si era costruita su una rappresentazione dei “neri”, dei quali
rimarcava, rispetto ai “bianchi”, non solo differenze nel colore della pelle,
ma anche altre di tipo anatomico e fisiologico, nel cervello, nella bile, nel
sangue. Differenze alla base della loro diversità e della loro condizione
naturale di sottomissione , che, se debitamente accettata, poteva mantenere
l’ordine naturale delle cose; se respinta, li portava a sentirsi imbronciati e insoddisfatti (!!!), stati
d’animo che fortunatamente l’uomo bianco poteva contrastare alle prime
avvisaglie dell’insano progetto, come già detto, facendo letteralmente uscire
il malumore dal corpo dell’aspirante
fuggitivo con adeguata fustigazione
La teoria,
contrastata da buona parte della psichiatria ufficiale, fu ampiamente diffusa
attraverso la stampa dell’articolo nel sud degli Stati Uniti, dove la guerra
civile (1861-1865) sarebbe scoppiata alcuni anni più tardi e il XIII
emendamento, che aboliva la schiavitù, sarebbe stato ratificato solo il 6
dicembre 1865: il brodo di cultura in cui il concetto di drapetomania ebbe modo di
esprimersi era quindi quello di una società razzista e schiavista. Pleonastico
sottolineare che il termine non abbia da
molto tempo diritto di cittadinanza nella comunità scientifica, relegato
nell’ambito del razzismo scientifico, che tanti abomini ha saputo produrre.
Ma ci sono
elementi degni di riflessione, che debordano dai confini razzisti per entrare
in altri a volte meno stagliati: in sintesi si sta parlando di assoggettamento,
reclusione e terribile sfruttamento di esseri viventi, dell’incontenibile
spinta di alcuni di loro a sottrarvisi a qualunque costo, di repressione
violenta, punitiva e feroce di tale anelito e, dulcis in fundo, del suo ingabbiamento in una categoria patologica, da definire
anche nosograficamente grazie ad un
termine che abbia la pretesa di spiegare tutto, evitando che venga dato spazio a riflessione, approfondimento, o
magari anche ammirazione, stupore, empatia, o qualsivoglia altro
rispecchiamento. Per altro la storia della psichiatria attesta di quanto questa
scienza abbia a volte assunto connotazione non curativa, ma repressiva, prestandosi
tranquillamente, per esempio, a rinchiudere in quelle prigioni che erano i
manicomi, matti, delinquenti e prostitute, tutti insieme, uniti dal comune
denominatore della pericolosità sociale. Luoghi, i manicomi, dove soprattutto isolare
il dissenso con l’aggravante di delegittimare dal punto di vista intellettivo
ed etico i portatori di istanze non allineate al sistema.
La drapetomania,
quale etichetta diagnostica con cui svilire e al tempo stesso reprimere dissenso
e anelito di libertà, si insinua oggi, non
come termine obsoleto e pressochè sconosciuto, ma nel significato di cui è
portatrice, in tanti aspetti della vita umana e soprattutto in modo incontestabile nella vita dei nonumani, quelli a cui in
tanti modi diversificati viene tolto ogni spazio di libertà, quelli che vengono
sottoposti a sfruttamento e umiliazioni di intollerabile ferocia, a cui viene
negata ogni espressione di una vita di relazione gratificante e autodeterminata:
schiavi quindi a tutti gli effetti. I luoghi dove questo genere di crimini è consumato sono eterogenei: a partire da quegli
spazi di perdizione che sono gli allevamenti intensivi, passando da circhi e
zoo, attraversando i laboratori di vivisezione, i maneggi, e altro ancora, tutte
situazioni di detenzione per animali, destinati a un fine pena mai.
In moltissime
di queste situazioni i nonumani, esattamente come gli schiavi, sono costretti
ad una acquiescenza dettata dall’impossibilità fisica della ribellione o da una
paura che è terrore, che immobilizza e pietrifica ogni azione, che annienta il
movimento in virtù dell’inconscia spinta a scomparire, a non esserci per non
subire. Ma da sempre esiste un fenomeno, che un tempo non veniva rilevato, ma che
oggi, grazie ad un nuovo interesse dedicato ai nonumani, viene sempre più
spesso posto sotto i riflettori.
E’ quello degli animali che si ribellano, che trasformano
oltraggi e mortificazioni in disobbedienza e rivolta. Nessun animale ne è
escluso, come dimostra una ricca cronaca al riguardo. Numerosissimi quelli che
fuggono da circhi: il giovane giraffotto che galoppa da solo per qualche ora di
libertà tra le strade di Imola alla
larga dal circo Orfei, inseguito, braccato e poi ucciso da una dose eccessiva
di anestetico, che dovrebbe placare la sua irruenza e invece ferma il suo cuore
(settembre 2012). La tigre bianca che
preferisce la passeggiata felpata su una pericolosissima circonvallazione palermitana
alle sbarre del circo Svezia, dove viene costretta a rientrare dopo la cattura
(gennaio 2017); la sua conspecifica che vaga per ore nei dintorni di Parigi
finchè il proprietario del circo, uno di quelli che amano i propri animali
tanto da domarne ogni istinto o almeno illudersi
di essere in grado di farlo, la avvista lungo i binari e le spara, così la
questione è risolta (novembre 2017). In questi casi l’opinione pubblica, tra sospiri di sollievo per il pericolo scampato e
malcelata soddisfazione per un avventura
vissuta di sponda, a basso prezzo e sulla pelle altrui, esprime anche una
solidarietà crescente per i fuggitivi: non è un caso, perché la reazione si
innesta su un crescente cambiamento di prospettiva, che giudica intollerabile,
crudele, primitiva la reclusione di animali esotici nelle strutture circensi:
in un panorama culturale in evoluzione tanto da essere recepito persino a
livello legislativo (!!!), nella fuga dai circhi si riconosce l’espressione di
una rivolta sacrosanta alla quotidiana negazione dei propri diritti, regolarmente
calpestati.
Meno solidali,
più stupite, talvolta divertite le reazioni ad animali che fuggono dagli
allevamenti intensivi o dai macelli: in provincia di Padova una mucca si
rifiuta di rientrare nella stalla dopo un normale taglio delle unghie: infuriata, divenuta ingovernabile
e minacciosa verso chiunque si
avvicini, viene reputata pericolosa e, tutti d’accordo, proprietari e veterinari Asl,
viene abbattuta (2 novembre 2017; il
Gazzettino di Padova). Poca solidarietà perché se si continuano a considerare i
bovini e gli altri come “animali da carne”, quindi nati, vissuti e uccisi per l’unico
scopo di farsi mangiare da noi, è complicato essere dalla loro parte quando si ribellano.
Incredibilmente anche nel fatto di cronaca la gente continua a non vedere quello che non vuole vedere; per esempio che la
mucca è un essere capace di emozioni visto che è invasa dalla rabbia e dall’insofferenza verso il suo stato di
carcerazione, in grado di autodeterminarsi visto che si rifiuta di rientrare e incombe
sugli altri con intenzioni definite: a dispetto di ogni evidenza, si continua a
non riconoscerle lo stato di essere senziente e dotato di consapevolezza (per
altro sancito anche a livello scientifico nella dichiarazione di Cambridge del
2012), ma solo quello di “animale da carne” .
Se non le va bene, se va fuori di testa, se ammattisce, va tolta di mezzo, anzi abbattuta, per usare il gergo riservato a quelli come lei. Un interessante link si potrebbe aprire sui meccanismi alla base della conoscenza, dove il bias di conferma la fa da padrone: pregiudizio, errore di pensiero diffuso, per cui risulta raro avvicinarsi ai fatti in modo neutro, con la capacità di accoglierli nella loro significatività; più facile selezionare inconsciamente tra i dati a disposizione quelli che confermano le nostre convinzioni, sottolineandone alcuni e ignorandone altri, così che sia possibile giungere alle conclusioni che da sempre sosteniamo, che appartengono al nostro pensiero. Nello specifico, tutte le informazioni sugli stati d’animo, i desideri, le motivazioni della mucca riottosa vengono ignorati ad esclusivo vantaggio della necessità di ristabilire lo status quo, che lei arbitrariamente mette in discussione.
Se non le va bene, se va fuori di testa, se ammattisce, va tolta di mezzo, anzi abbattuta, per usare il gergo riservato a quelli come lei. Un interessante link si potrebbe aprire sui meccanismi alla base della conoscenza, dove il bias di conferma la fa da padrone: pregiudizio, errore di pensiero diffuso, per cui risulta raro avvicinarsi ai fatti in modo neutro, con la capacità di accoglierli nella loro significatività; più facile selezionare inconsciamente tra i dati a disposizione quelli che confermano le nostre convinzioni, sottolineandone alcuni e ignorandone altri, così che sia possibile giungere alle conclusioni che da sempre sosteniamo, che appartengono al nostro pensiero. Nello specifico, tutte le informazioni sugli stati d’animo, i desideri, le motivazioni della mucca riottosa vengono ignorati ad esclusivo vantaggio della necessità di ristabilire lo status quo, che lei arbitrariamente mette in discussione.
Ricorrenti le
fughe dei tori: una per tutte, da manuale, vede un maestoso toro bianco che si
imbizzarrisce e si inferocisce mentre viene condotto al macello e fugge nelle
strade di Lecce: finale già scritto ad opera della forza pubblica che gli
spara: si, perché il servizio veterinario non era attrezzato per questi casi,
non li contemplava proprio, il che qualche interrogativo sulla conoscenza che i
veterinari hanno di alcuni animali, corpo e psiche, non carne da macello, lo fa
sorgere. La carcassa viene poi
prelevata con una motopala (maggio
2016) . Anche in questo caso le emozioni di un toro terrorizzato, che pure
vengono usate per descrivere la situazione, non vengono riconosciute come
espressione di un mondo psichico che sarebbe invece obbligatorio ammettere e
rispettare. Carcassa e motopala testimoniano poi spregio
linguistico e reificazione dell’animale.
Meritoria
eccezione la cronaca di un fatto analogo sul Corriere Salentino (27.04.2016) :
del toro che fugge si dice “quando ha
capito che era destinato al macello”, la sua fuga è descritta come disperata e di lui si parla come di “povero animale”: insomma una sorta di
empatia che al disgraziato toro non ha potuto certo portare sollievo, ma che ha
il pregio di provare a sollecitare nell’opinione pubblica il riconoscimento
dell’intelligenza, dello stato d’animo, della determinata impulsività di un
essere vivente che con tutte le sue forze si oppone ad un trattamento feroce.
Altri
nonumani, quelli acquatici non sono da meno; i
delfini, quando sono costretti in quelle prigioni destinate al
divertimento umano che sono i delfinari, soffrono la ristrettezza dell’angusto spazio in cui sono
detenuti, così estraneo al loro habitat
che è il mare grande e profondo, e a volte mettono in atto una aggressività
auto o eterodiretta, facendo del male a se stessi o agli altri. Jacques
Cousteau, famoso oceanografo, descrive il comportamento di uno di loro, morto
picchiando il cranio contro i bordi della vasca in cui era costretto, parlando
di suicidio, come fa anche il figlio
Jean Michel, che riconosce, purtroppo tardivamente, l’indifferenza e il
maltrattamento, appendici dei delfinari stessi, quali generatori della
disperazione misconosciuta degli animali rinchiusi. Dello stesso tenore i
commenti di O’Barry, istruttore dei cinque delfini della serie Tv degli anni
’60 Flipper,
il quale descrive un altro suicidio, quello della delfinetta Kathy, che smise
letteralmente di respirare, infliggendosi così una morte atroce. Se il suicidio
è un’evenienza assolutamente drammatica quando coinvolge un umano, perché
testimonia di una vita talmente insopportabile da rinnegare se stessa, quando
messo in atto da un animale annichilisce: perché loro, anche più di noi,
appaiono immersi nella propria natura corporea, indifesi come bambini, laddove
noi adulti possiamo avere a disposizione meccanismi complessi di difesa e
sublimazione del dolore.
Impossibile
non ricordare Tornasol la cavalla che, nell’estate 2017, si è rifiutata
di correre sulla mitica piazza del palio di Siena: per 90 interminabili
minuti ha risposto con sgroppate e
sbuffi al fantino che le imponeva la corsa agitando il suo nerbo, evidentemente
carico di un richiamo minaccioso ad un uso, conosciuto ma prudentemente non riproposto, vista la diretta televisiva: Tornasol
ha disobbedito, ha con il suo atteggiamento detto NO al trattamento oppressivo
e ingiusto, che le stavano imponendo, lo ha fatto con determinazione decisa e
vincente, incurante delle conseguenze che dal primo momento ha dovuto subire.
E’ stato facile, vista la sua bellezza fiera nel contesto estivo di folla e
colori, esserne ammaliati e farne
un’eroina della disobbedienza civile in forma equina, sola contro tutti come
solo gli eroi sanno fare: è stato facile essere dalla sua parte e sperare che
avesse la meglio su quegli omuncoli tutti presi, nerbo in mano, dal loro chiassoso
protagonismo. La diagnosi di “alterato stato fisico” nonché “attacchi di panico” che i veterinari
presenti si sono affrettati a formulare riattualizza puntualmente quella di drapetomania, connotando
e svilendo a patologia quella che è
invece, a livello umano e nonumano, l’espressione coraggiosa, indomita, insolente,
della propria identità.
Altri ribelli si trovano nelle
storie di maiali, di pecore, di rettili e di altre specie, uniti da una
tensione che accomuna umani e nonumani. Tra gli uni e gli altri solo una parte
infinitesimale arriva ad esprimere prepotentemente l’impulso ad una vita libera
e autodeterminata: quasi sempre sbarre, muri, catene, materiali o metafisiche,
lo impediscono. Si tratta di quelli dotati della forza, del coraggio, della
determinazione, dello spregio delle conseguenze che la ribellione comporta. Si
tratta, tra gli umani, di quella grandezza morale, tanto profondamente
impersonata nell’immagine indelebile di un piccolo uomo, inerme e solo, davanti
ai carri armati sulla piazza di
Tiennamen, che diventa icona e, forse, possibile modello per altri. Tra i nonumani
l’esempio di uno non potrà mai essere conosciuto dagli altri, se non da quelli
lì vicino, ma anche per questo dovrebbe diventare dimostrazione e monito, consegnato ai responsabili umani della
disperazione che li anima.
Si apre un enorme capitolo,
quello che la zooantropologia da anni sta mettendo a fuoco: vale a dire che
nell’occuparsi di animali, gli umani non possono limitarsi a tenere presente il
soddisfacimento dei bisogni primari, puntati alla sopravvivenza e alla salute
fisica, ma è tutto il loro mondo di passioni,
desideri, bisogni a dover essere conosciuto e rispettato.
E un file enorme si apre allora anche rispetto a tanti contesti mai messi in discussione quale per esempio tutto il mondo dell’ippica, dove i cavalli, anche quando non esposti a pericoli di vita e magari ben nutriti, strigliati e tirati a lucido, sono piegati da mezzi di costrizione e umiliati in tutti i loro istinti. Anche canili e gattili, in questa ottica, non possono che dover essere luoghi provvisori di passaggio, destinati alla messa in sicurezza di animali in pericolo, non luoghi di una pur dorata detenzione, ammesso e certo non concesso che dorata sia: ogni volta che un cancello, una porta, una gabbia si richiude dietro l’animale che è entrato, è tutto il suo mondo, fatto anche di abitudini, affetti, sogni ad essere chiuso fuori: in quel fuori che è delitto impedirgli per sempre.
E un file enorme si apre allora anche rispetto a tanti contesti mai messi in discussione quale per esempio tutto il mondo dell’ippica, dove i cavalli, anche quando non esposti a pericoli di vita e magari ben nutriti, strigliati e tirati a lucido, sono piegati da mezzi di costrizione e umiliati in tutti i loro istinti. Anche canili e gattili, in questa ottica, non possono che dover essere luoghi provvisori di passaggio, destinati alla messa in sicurezza di animali in pericolo, non luoghi di una pur dorata detenzione, ammesso e certo non concesso che dorata sia: ogni volta che un cancello, una porta, una gabbia si richiude dietro l’animale che è entrato, è tutto il suo mondo, fatto anche di abitudini, affetti, sogni ad essere chiuso fuori: in quel fuori che è delitto impedirgli per sempre.
Quanto mai attuale e comprensivo
il monito di Tom Regan a che tutte le gabbie siano vuote: non un po’ più grandi
o confortevoli: vuote. Se la libertà che noi umani invochiamo non è quella cristallizzata
in suggestione poetica o bandiera da sventolare per la causa o il
partito del momento, siamo tenuti a riconoscerla anche nei nonumani, come
protesta nell’animo ribelle di alcuni e come
sogno in quello sedato e vinto di tutti gli altri.
Cara Anna, la storia dell'umanità, dai primordi al presente, dimostra il suo immenso e violento bisogno di potere su tutto e tutti. Non esiste etica nè empatia. Razzismo, sessismo, specismo. Il forte opprime il più debole e se ne fa vanto. E' stato ridotto alla distruzione un intero pianeta e tutte le sue creature ma la rotta, dominata oggi da una spregevole economia, non viene intaccata se non in apparenza. La mia visione della creatura umana è sconfortante ma ormai radicalizzata: prima ci estinguiamo prima il resto dei viventi ritroverà la gioia di nascere. Noi stessi siamo schiavi, ridotti a macchine da lavoro per compensi ridicoli mentre i potenti si gonfiano le tasche alle nostre spalle: ridotti in schiavitù per tutta la vita in uffici, fabbriche, luoghi di lavoro svariati dove lo sfruttamento è spietato. Non ci tagliano gli alluci, hanno trovato altre armi di ricatto. Ho orrore e rabbia per gli abusi e la crudeltà sugli animali: a loro dò il primo posto nella piramide evolutiva, nelle loro semplice ma viva intelligenza, sensibilità, armonia con le leggi di natura: l'ultimo posto spetta all'umano perfino dopo il mondo minerale.
RispondiEliminaDella nostra specie salvo solo quei rarissimi individui che sembrano arrivare da un'altra dimensione!
Cara Cinzia, mi piacerebbe risponderti con parole consolatorie, ma di fatto so che tu hai ragione nelle tue denunce e nella disperazione nei confronti dei nonumani.solo: una vita da spendere ce l'abbiamo e riuscire a modificare qualche cosa è un obiettivo da perseguire. Per quanto i risultati siano infinitesimali. Dai, buon lavoro a tutti noi
EliminaCondivido ogni tua parola.
EliminaNonostante sia vegana da anni nel profondo dell'anima, mi sento in colpa per non riuscire a fare di più e non solo per gli animali, che cone dici tu hanno il primo posto ma anche per tutti gli oppressi e il Pianeta.
Ci meritiamo solo l'estinzione. E che avvenga al più presto. Grazie per tue parole.
Cara Anna Maria sei sempre meravigliosa.
EliminaFarò leggere il tuo testo a chiunque conosca sperando che inizino a riflettere. Grazie di cuore.
lo farò leggere anche a scuola, per vedere l'effetto che fa.
RispondiEliminagrazie per averlo scritto, tu, e per poterlo leggere, noi
Grazie a te Franz, e a voi :-)
Eliminaciao Annamaria, non conoscevo questa etichetta psciologica, che mi pare una aberrazione, una vera arma di biopotere. NOn è così?
RispondiEliminaTi scrivo perché il mio blog ha ricevuto un primo riconoscimento 'dal basso', una specie di 'award' tra blogger. funziona anche come staffetta: chi viene 'segnalato', deve/può a sua volta segnalare altri 15 blog e blogger che a sua volta ritiene meritevoli. Io ho parlato del tuo blog, inserendolo in questo meme che si chiama 'blogger recognition award' il link è
http://laconfidenzalenta.blogspot.it/2018/02/blogger-recognition-award-la-prima.html
con la sincera speranza che ti faccia piacere :)
Intanto ti ringrazio Giovanni. Poi magari ti contatto per capire
RispondiEliminameglio... non sono esattamente un mostro tecnologico! Annamaria