La reazione di rabbia impotente
davanti a tale scempio è acuita dalla certezza che, se due coraggiosi ragazzi non
fossero stati testimoni della scena e
non avessero avuto la prontezza di scattare foto che riprendevano anche il numero
di targa dell’auto, il ritrovamento dei resti sarebbe stato giudicato immeritevole
di ulteriore indagine, perché fatto di consueta
malvagità, come dimostrano i resti di tanti animali ritrovati in discariche con
segni di torture, ai quali solo nel migliore dei casi fa seguito un trafiletto
su qualche notiziario locale.
Alcuni particolari devono ancora essere accertati, ma
quello che è già stato documentato basta a generare, oltre all’ orrore, alcune
riflessioni. Poco importa se Matteo fosse
il cane di nessuno, randagio come tanti; o invece, come raccontano, “appartenesse” al suo aguzzino che lo teneva
legato in campagna, portandogli da mangiare e da bere quando capitava. Quale che sia la realtà, non cambia l’oscenità
di un uomo che infierisce contro un essere incatenato e indifeso, indifferente
alla sofferenza che urla sotto i suoi stessi occhi. Se anche non esiste motivazione
al mondo che possa giustificare tanta protervia, l’assenza di qualsiasi “ragione”
appare particolarmente drammatica: siamo
di fronte al male allo stato puro: ingiustificabile, estremo, opera compiaciuta
di una mente lucida; non uno di quei
delitti d’impeto, generati da emozioni che, esondando, obnubilano i pensieri,
ma massacro programmato e preciso.
Sarebbe interessante se il
processo, che ci si augura venga celebrato, e presto, andasse a scrutare nel
profondo la personalità di un tale uomo, alla ricerca del bandolo dell’oscura
matassa della sua psiche; ma non succederà di certo, perché l’uccisione di un
cane non è ritenuta degna di un impiego
di mezzi tanto onerosi: consulenti, perizie, psichiatri non sono mai al
servizio della giustizia dovuta a un animale. Con buona pace di tutti gli studi
che mettono in luce il link comprovato tra la crudeltà agita sugli animali
umani e quelli non umani. Il chè significa che, anche in presenza di un
colpevole disinteresse per le sofferenze di un cane, almeno la preoccupazione
per gli umani dovrebbe spingere a ben diverse reazioni.
Sono comunque i fatti ad offrire
una chiave di lettura, pur prescindendo dal meticoloso scandaglio dell’inconscio del colpevole: e i fatti
parlano di una personalità in cui la violenza è evidentemente la modalità di
relazione, il modo conosciuto per alimentare un ego bisognoso di autorassicurazioni sul proprio valore a fronte
della sua stessa pochezza: valore che
viene misurato sulla possibilità di
ferire, tormentare, uccidere, perchè questo è il modo miserando di affermare la propria
superiorità. Una pochezza vile, dal momento che la vittima non è forte e
pericolosa, ma debole e indifesa e il
luogo quanto più isolato possibile, per vedersi garantita l’impunità. Se ogni persona è quella che è diventata coniugando il
proprio patrimonio genetico con le vicende di tutta una vita, anche il sig. Antonio R. avrà pure una sua biografia
su cui sono andati sistemandosi i tasselli della sua sadica viltà; conoscerli sarebbe utile per sapere cosa è necessario per
sollecitare le parti peggiori di noi. Parti
che, considerando la diligente precisione con cui ha portato a termine
l’impresa, è lecito supporre che avranno già avuto modo di esprimersi nella
vita del suddetto Antonio, perché le
nostre mani così come la nostra mente non improvvisano ciò che non sanno e ciò
che non sono: lo imparano, su altri corpi, su altre vittime.
Ma c’è dell’altro: perché gli
atti privati sono sempre inseriti in un
contesto e possiedono anche una portata
sociale, come testimoniano tante
situazioni, su cui forse non si riflette abbastanza: è da mezzo secolo
che lo psicologo Philippe Zimbardo approfondisce gli studi che provengono da un
famosissimo esperimento (“L’effetto lucifero”; Stanford University, anni ’70) , che dimostrò con evidenza come il
contesto (in quel caso costruito ad hoc in una prigione) sia in grado di trasformare
in brevissimo tempo le persone rendendole capaci di un male che non avrebbero mai previsto di poter
compiere. E Primo Levi, reduce dallo sconvolgimento del lager, concentrato
delle mostruosità che la mente umana può ideare, ha affidato alla pubblicazione
de “I sommersi e i salvati” la scrittura di pagine preziose sulla considerazione che anche
i peggiori criminali sono esseri umani tristemente ordinari, trasformati dalle
circostanze: non mostri, vale a dire non quegli extraterrestri, su cui ci piace
tanto gettare la responsabilità di quello che di noi stessi riteniamo
inaccettabile, e che invece dimora come Ombra disconosciuta proprio nel fondo
della nostra psiche, parte di noi che può restare silente o esplodere, a
seconda delle situazioni. Ce ne vergogniamo e accusiamo qualcuno con cui non abbiamo niente da
condividere, neppure l’appartenenza alla specie umana.
E altre ricerche che ci dicono che
anche delitti che riteniamo individuali, totalmente attribuibili alla
responsabilità di un singolo individuo, come la violenza sessuale, in realtà risentono
di altre variabili che, sommandosi l’una all’altra, vanno a costituirne il
brodo di cultura: variabili tra cui è davvero interessante scoprire che possono
trovarsi, per esempio, attività lecite quali la
caccia, insieme alla diffusione di media violenti e al numero di
esecuzioni capitali (la ricerca è svolta negli Stati Uniti, dove , come è
risaputo, è contemplata la pena di morte). In fondo la lezione un po’ siamo stati
capaci di impararla: è da qualche anno che ogni episodio di violenza sulle
donne non provoca solo la richiesta di una punizione adeguata del colpevole, ma
risolleva ogni volta dibattiti e discussioni sulla necessità di contrastare la convinzione
ancora diffusa, per quanto negata o misconosciuta, che vede nelle donne esseri su cui esercitare diritti autoconferiti. Si comincia in altri
termini a capire che il contrasto ai femminicidi non può prescindere dalla
necessità di ridefinire la cultura dominante che resta ancora intrisa dei
residui delle convinzioni esplicitamente espresse fino a pochi decenni fa, che,
con il riconoscimento di cittadinanza al delitto d’onore, sancivano
anche dal punto di vista giuridico la convinzione che non i diritti delle donne,
ma la tutela dell’onore ferito maschile dovesse essere la vera preoccupazione.
Pensiero che sopravvive sotto pelle e si riaffaccia, sotto mentite spoglie,
nella motivazione di tanti comportamenti maschili.
Riflessioni di questo genere sono tutt’altro
che estranee alla vicenda dell’aguzzino del cane Matteo: anzi, in questo caso il
link è molto più diretto e comprensibile e coinvolge altri cani e altri aguzzini. A partire dal fatto che il piccolo paese in cui è stata portata a
termine la tortura solo poche settimane prima era stato teatro, ad opera di
responsabili rimasti ignoti, di sevizie a
danno di un altro cagnolino inerme, prima torturato e poi impiccato. Pura
coincidenza? Se si allarga lo sguardo, la visuale ingloba un territorio più
vasto, che vede la Sicilia spesso in una posizione tutt’altro che lusinghiera
in tema di tutela animale: nelle sue strade ospiterebbe (il condizionale è
d’obbligo in assenza di censimenti) la bellezza di 100.000 randagi, triste
primato europeo; mancano per loro adeguate strutture di accoglienza; le
periferie delle città si trasformano spesso in discariche di cucciolate
indesiderate e i canili fungono da
depositi di cani dismessi. A parte la
squalifica morale, questa situazione comporta uno stato di cose drammatico: gli animali a causa del loro stesso numero
strabordante sono spesso considerati e trattati come pericolosi, quindi
scacciati, presi a sassate o bastonate. Spaventati e in cerca di cibo, può
succedere a qualcuno di loro di rendersi responsabile di un’aggressione a danno
di una persona: e allora la reazione che
era lì pronta ad esplodere trova una giustificazione ad hoc per scatenarsi,
perché, se la vittima è pericolosa, allora del mio infierire non mi devo
vergognare, ma posso anzi inorgoglirmi
spacciandomi per difensore della collettività.
E’ all’interno di queste
dinamiche che periodicamente si
registrano avvelenamenti di massa, qualcuno incapace per la prepotenza dei
numeri di sottrarsi ai riflettori dei media, come fu il caso delle decine di
cani uccisi a Sciacca nel febbraio del 2018. Ma ci sono cronache ancora più
spaventevoli che parlano di animali inermi che neppure tentano di sottrarsi
all’infierire su di loro di umani furiosi, fino alla morte: la pur coraggiosissima
abnegazione di tanti volontari non ce la fa a contrastare tutto questo.
E’ necessario riflettere su come questo
genere di situazioni rappresenti il brodo di cultura di comportamenti
desensibilizzati: se la quotidianità è marcata dall’indifferenza verso animali
in evidente difficoltà e stato di bisogno, se la cultura intorno, a partire
dalle istituzioni, lungi dallo stigmatizzare, autorizza abbandoni,
maltrattamenti, ingiurie, tutto si ammanta di normalità: sono di fatto rapporti di forza,
prepotenza, violenza che, essendo tanto diffusi e non perseguiti, vengono interiorizzati e sdoganati come accettabili.
E’ ovviamente una dinamica che coinvolge solo parte della popolazione, a fronte
dei molti che condannano, e ai cittadini (e soprattutto cittadine!) sensibili,
di grandissima determinazione che lottano strenuamente contro questo stato di
cose, pagando prezzi elevatissimi in termini di sofferenza psichica, e non
solo. Ma, in una società civile, la strada non può essere quella di contare solo sull’eventuale appello
all’empatia personale per contrastare un assetto che, nei fatti anche se non
nella teorizzazione, sopporta e
giustifica il male fatto a molti. E il male fatto agli animali è un problema
enorme: la Sicilia, oggi sotto accusa per i fatti di Priollo, non ne detiene
certo l’esclusiva, che anzi, a macchia di leopardo, investe tutte le parti
d’Italia, ognuna con la propria specificità e con altre regioni (in primis
Calabria, Sardegna, Puglia, Campania e non solo), dove il problema è enorme; ma
è innegabile che la vastità del fenomeno la mette spesso sul banco degli
imputati.
E’ in questa ottica che urge approvare
leggi che sanzionino in modo adeguato i maltrattamenti a danno degli animali:
finchè le pene resteranno blande, torturare un animale sarà interiorizzato se
non come lecito, comunque tollerabile, da derubricare nel nostro codice morale a crimine
bagatellaro, perché di fatto tale è considerato nelle leggi:
leggi indispensabili per stabilire delle norme che diventino col tempo
anche morali. Contestualmente alla punizione, è basilare occuparsi della prevenzione, che ha inizio dalla sensibilizzazione della popolazione, a partire
dalle fasce più giovani, al rispetto per
le altre forme senzienti, dalla costruzione progressiva di una cultura in cui qualunque tipo di
efferatezza nei confronti di un essere debole venga ripudiata, in cui la
diffusa assenza di sentimenti di empatia verso la sofferenza corrisponda ad un allarme
sociale, in cui la sensibilizzazione verso tutte le vite senzienti sia
prioritaria in ogni progetto educativo. Discorso non facile, certo, soprattutto
in una terra in cui i diritti umani sono spesso calpestati dalle organizzazioni
criminali; ma non si può cedere alla tentazione del benaltrismo, che,
nell’affermazione che c’è ben altro di cui occuparsi e preoccuparsi, finisce
per trovare giustificazione all’immobilismo: se le violenze, le ingiustizie, le
crudeltà, contro chiunque espresse, sono considerate inevitabili o normali, il risultato non può
che essere l’assuefazione, matrice di
passività e indifferenza; la reazione è
doverosa e non può limitarsi a rabbia, stigmatizzazione, furore reattivo.
Il cane Matteo giustizia non l’avrà mai: non
esiste giustizia per lui, morto di una morte atroce senza nemmeno capire il
perché, come succede ad ogni diseredato sulla faccia della terra, che strappa
ogni giorno di vita con le unghie e coi denti perché la vita è l’unica cosa che
possiede, per quanto umiliata e offesa. Il monumento in Park Lane, a Londra,
dedicato ai milioni di animali coinvolti nella follia tutta umana della prima
guerra mondiale, i monumenti a Roma e nei pressi di Catanzaro al cane Angelo randagio
di Calabria torturato fino a morire da
quattro ragazzotti sfaccendati, sono omaggi tutt’oggi rarissimi alle vittime
animali della nostra violenza: non restituiscono loro neppure un alito di vita: sono però un monito a
guardare dentro di noi per prendere atto dell’abisso di crudeltà di cui siamo
capaci, e che nei confronti dei più miserabili, che sono più di tutti gli altri
i nonumani, esprime il peggio di sé. Il recente sfregio alla statua di Angelo, a Roma, ci
avverte che non è proprio il caso di peccare di ottimismo.
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