giovedì 5 dicembre 2013

RISPOSTE ARTICOLATE A TRE DOMANDE SEMPLICI: perché amiamo i cani, mangiamo i maiali, indossiamo le mucche.



di Annamaria Manzoni
“Non ci sono domande più pressanti delle domande ingenue” dice Wistawa Szymborska. E “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali, indossiamo le mucche”, le tre domande che Melanie Joy si pone (e pone a titolo del suo libro-Sonda 2012), sono essenziali nella loro capacità di andare dritte al cuore del problema. 


Sui motivi per cui amiamo i cani non ci sono problemi: siamo in grado di rispondere in modo eccitato, perché vengono toccate nostre corde scoperte e diventiamo subito incontenibili nel fornire motivazioni che attengono alle doti di fedeltà, intelligenza, amorevolezza che i nostri animali preferiti, ne siamo certi,  posseggono, e su cui non abbiamo neppure un dubbio che qualche ruolo lo giochi la proiezione. Che se  anche fosse, del resto, che importa? Va bene  così.

 Sono gli altri due interrogativi a provocare in genere più  di un momento di latenza, necessario a riordinare le idee per andare a cercare argomentazioni, davvero faticose, a sostegno di ciò che appare talmente ovvio da farci giudicare le domande irragionevoli, provocatorie nella misura in cui sollecitano spiegazioni su ciò che non ne contempla. Proprio qui risiede il fulcro delle articolate argomentazioni di Melanie Joy: nel non potere, le risposte a queste domande,  essere trovate  se non all’interno di  una spiegazione tautologica  riferita al fatto che la ragione ultima e vera del nostro nutrirci e servirci degli animali si trova  semplicemente nella considerazione che non esiste nessuna ragione se non quella, disarmante,  che semplicemente  le cose stanno così. Nel fatto, cioè,  che siamo talmente immersi in una cultura che, in fatto di rapporto con gli animali, stabilisce regole di riferimento basate sul loro regolare, continuo, scontato sfruttamento, che , pure educati come siamo a mettere in discussione in modo disincantato ogni comportamento, tanto da sottoporre a una ruminazione dubbiosa persino le ragioni della scelta del dentifricio al supermercato, non ci poniamo domande davanti al piatto di carne che consumiamo, e ci asteniamo da riflessioni sulla sua origine ed essenza, che pure vanno a confliggere con  realtà immense per grandezza, importanza, implicita violenza e sofferenza.  

“Carnismo” è il termine che l’autrice conia, aprendo con esso un nuovo campo cognitivo, che si rifa all’esistenza di un complesso insieme di argomentazioni che sono  alla base di questo atteggiamento, riferite ad  uno schema mentale, ad  una ideologia, ad un insieme di credenze, talmente diffuse e radicate da essere  vissute  come   verità e realtà anziché come opinioni e punti di vista, come regole scontate anziché come scelte ponderate.

Quindi “carnismo” non contrapposto a “vegetarianesimo”, che è realtà limitata all’alimentazione, ma piuttosto a “vegetarismo”, termine usato da Edmondo Marcucci già nel 1953, e poi caduto in disuso, che è stile di pensiero e conseguentemente di vita.

E’ all’interno dello schema carnista che si sviluppano le dinamiche psicologiche, operanti e riconoscibili in ognuno, fondamentali nel consentire l’estrinsecarsi  di quella violenza legalizzata, alla base anche dell’alimentazione, che prescinde dalla presenza di tratti di sadismo e brutalità dei singoli ed entra in un universo che è necessario indagare, nel suo essere popolato da persone per bene che supportano direttamente o indirettamente il martirio quotidiano degli animali senza neppure ritenere che la questione valga un dibattito.

Nel mondo occidentale, il sistematico sterminio degli animali avviene, almeno in buona parte,  senza che ve ne sia consapevolezza e che si ingeneri un conseguente senso di colpa: non è considerazione secondaria che, in modo  del tutto analogo, anche le forme di violenza legittima intraspecifiche, che hanno luogo cioè all’interno della specie umana (pena di morte, orridi sistemi carcerari, punizioni fisiche sui bambini…) non siano oggetto di studio,  in se stesse e nelle loro conseguenze sociali, se non in modo indiretto e marginale come per esempio attraverso l’estensione dei fondamentali studi di Stanley Milgram sulla obbedienza distruttiva, che così tanto hanno da insegnare in merito alle dinamiche di funzionamento interpersonale e che possono essere estese alla comprensione di tanti processi interspecifici, per esempio rendendo palese che, pur non potendo misconoscere l’ingiustizia assoluta di cui siamo responsabili nei loro confronti, ce ne assolviamo, proiettandone la responsabilità e gli eventuali sensi  di colpa conseguenti sull’autorità, rappresentata dalla struttura stessa della società in cui viviamo.

 Di fatto sono molti i meccanismi che consentono il perpetuarsi dell‘attuale stato di cose, permettendo di non riconoscere il male, proprio perchè legalizzato, insito nel rapporto con gli altri animali: si tratta di meccanismi inconsci, tesi a  proteggerci dall’angoscia che potrebbe esplodere se la realtà in atto venisse vista e decodificata per quella che è. Fondamentale è la cornice antropocentrica in cui ci muoviamo, perchè induce a misconoscere l’animale come essere sofferente e senziente, e finisce  per reificarlo, negandone la natura che gli è propria: ne è estrema testimonianza la sagoma, non raramente usata a scopo pubblicitario, di una mucca divisa in parti corrispondenti ad altrettanti “pezzi” destinati a variegati trattamenti culinari: l’essenza stessa dell’animale è negata in favore della sua riduzione a cibo.

A questa imprescindibile cornice cognitiva, si affiancano rimozione e negazione del problema, resi possibili dal nascondimento dell’eccidio, che è parte integrante del meccanismo di obnubilamento delle coscienze: è incredibile che, pur essendo miliardi gli animali imprigionati negli allevamenti intensivi e macellati, sia possibile che neppure l’ombra della loro presenza venga in contatto con moltissima parte della gente, che  mai, nel corso di un’intera vita, ha l’opportunità di vederli in carne ed ossa, nella loro interezza di esseri viventi e sofferenti, affascinanti nella ricchezza delle loro vite,  anziché irriconoscibili nella riduzione a cibo. Una mastodontica operazione di occultamento dei luoghi infernali dove la violenza viene praticata e la sofferenza supera i limiti di ogni immaginazione è parte fondamentale del funzionamento di questo meccanismo.

Ma siccome può succedere che tale nascondimento venga a volte attraversato da lampi di conoscenza,  occorre anche altro, molto altro: occorre che il mangiare gli animali abbia assunto nelle nostre coscienze i caratteri della normalità, dell’essere un comportamento naturale e necessario, pur contro ogni evidenza scientifica  e logica, tanto da consentirci di negare la responsabilità dei nostri comportamenti, a cui neghiamo il carattere di scelte, per attribuirvi quelli di   atti secondo natura e come tali privati di responsabilità individuale. Da qui paradossi e falle logiche conseguenti, che ribaltano il senso delle cose e, per esempio, costringono a dovere  quotidianamente argomentare le ragioni di eventuali scelte vegetariane e vegane, giudicate contro natura, a fronte della acritica accettazione della banalità del male contenuta nel nutrirsi di cadaveri animali. Falla logica per altro evidenziata già un paio di millenni fa da Plutarco quando diceva: «Mi domandi per quale ragione mi astengo dal mangiare carne. Io d’altra parte mi meraviglio come tu possa appressarti alle labbra la carne del morto animale, mi meraviglio che non trovi ripugnante masticare la carne di animali scannati e smembrati». Due millenni non sono stati sufficienti per raccogliere l’invito a rivedere i termini della questione secondo giustizia anziché secondo comodità e interesse di marchio antropocentrico.

Da non sottovalutare  poi  la  dittatura della consuetudine e    la pervasività stessa del fenomeno, che inducono a proseguire per inerzia: l’abitudine si propaga nelle nostre vite e ci induce a reiterare gesti e comportamenti in automatico, senza un pensiero che le preceda e le accompagni. Semplice continuare a  mangiare ciò che si è sempre mangiato, a partire dal momento in cui una mamma affettuosa e a propria volta inconsapevole invitava sorridendo a mangiare la “carnina” con l’identico tono con cui proponeva il pane o la banana, tutti elementi  accomunati dalla loro funzione di  cibo e niente altro; accanto all’inevitabile accettazione della normalità della proposta, anzi della positività del conformarvisi perché era la mamma a chiederlo, si andava sviluppando un adattamento a quei gusti e a quei sapori, destinato a diventare parte integrante della propria identità, come dimostra l’attaccamento ai cibi di sempre, che risulta evidente in chi, in lontananze struggenti  dal paese d’origine, li ricerca per ritrovare il filo spezzato di una esistenza o, molto più banalmente, per ritrovare aria di casa nel corso di un temporaneo allontanamento.

Quando poi nuove consapevolezze inducono a prendere atto della realtà di dolore che tutto questo comporta, ecco allora altri meccanismi che arrivano in aiuto:  si tratta di un’abitudine condivisa, ubiquitaria, “normale” e ciò induce a non assumere il senso della propria  responsabilità, talmente  parcellizzata da risultare incorporea. Non si può dimenticare come le società e le culture si preoccupano delle propria sopravvivenza  riproponendo valori uguali a se stessi: l’educazione, attraverso le istituzioni a partire da famiglia e scuola, trasmette riferimenti  che perpetuano l’esistente e   sostiene come valore quello dell’obbedienza, del conformismo, dell’adattamento alle norme. Cambiare lo stato delle cose, ribaltare le abitudini, sconvolgere le convinzioni richiede invece la capacità di dare corso al proprio sentire anche quando questo segue direzione contraria al sentire dei più, richiede fiducia in sé stessi e nei propri pensieri, richiede il coraggio dell’essere contro. E poi caratteristiche di personalità tali da consentire di trasformare idee e convinzioni in atteggiamenti e comportamenti di protesta, fino alla necessaria ribellione.

Il pensiero divergente deve sempre difendersi dagli attacchi del conformismo, che ha tante frecce al suo arco: chiunque si occupi di difesa attiva degli altri animali , per esempio, ha inevitabilmente dovuto fare i conti con il  confronto vantaggioso, si è in altri termini sentito obbligato a  giustificarsi davanti all’accusa che, secondo il sentire comune condiviso dai più, ben altri sono i problemi del mondo che meritano dispiegamento di energie: le guerre e la fame, le donne violentate e i bambini sfruttati;  ma l’ingiustizia in qualunque luogo è una minaccia per l’ingiustizia in qualunque altro luogo, diceva Martin Luther King in tempi in cui l’utopia sembrava essere ad un passo dalla realtà. E Che Guevara esortava ad essere sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia contro chiunque, in qualunque parte del mondo. Quei chiunque sono sempre e dovunque anche e soprattutto gli animali non umani, tanto disconosciuti come vittime; purtroppo, ed è amarissima considerazione, anche  chi della difesa dei deboli sembra fare ragione di vita spesso sembra ignorarlo.

Non va dimenticata poi la mistificazione della realtà, quella sorta di etichettamento eufemistico che ci parla di mucche felici (di vedersi sottratto il vitellino appena nato, che viene allontanato urlante e disperato), che ci mostra maialini danzanti ( per essere stati evirati, amputati appena nati di denti e coda), che definisce la caccia buona (perché stermina a pallettoni animali in sovrappiù per il gioioso piacere di uomini – e donne!- in assetto di guerra), di macellazione umanitaria (ma gli ossimori sono per definizione termini incompatibili tra di loro):il mondo non sarebbe quel disastro che è se venissero usati termini corretti per descrivere la realtà, dice Tom Regan nelle prime pagine del suo “Gabbie vuote”. Purtroppo non chiediamo di meglio che sentirci rassicurati e la mistificazione della realtà, la negazione dell’insostenibile, che vanno a colludere con  ciò che risulta insopportabile, vengono accolti acriticamente, boa di salvaguardia al mare aperto dove il male ha le dimensioni dell’infinito. Fondamentale sarebbe ricordare che, come sostiene il filosofo Galimberti, la negazione è la prima radice, la più profonda dell’immoralità collettiva: perché il rifiuto a riconoscere le grandi ingiustizie evita la reazione che potrebbe avere luogo se venissero riconosciute. Molti dei grandi massacri della storia non sarebbero stati compiuti se non fossero rimasti inerti coloro che avrebbero potuto intervenire.

Il  discorso  va arricchito di  tante altre considerazioni che vanno a includere il tema della violenza che non può essere distinta a seconda di chi ne è l’oggetto: perché un link indissolubile, a livello sia di responsabilità che  di conseguente sofferenza,  lega quella esercitata contro chiunque: uomini, donne, bambini, animali. Invece ci nutriamo di  affermazioni generali (“la  violenza è da rifiutare”) , i comandamenti sono assoluti (“non uccidere” ), ma poi è insito nelle convinzioni che gigantesche eccezioni possono serenamente essere elevate al rango di  norma: sui bambini la violenza, che è il vero nome delle punizioni fisiche,  è considerata ancora oggi  educativa anche in alcuni paesi del mondo occidentale, come se i bambini non fossero persone, i più deboli tra le persone; e uccidere gli animali non umani non è peccato.

Melanie Joy , nella sua ricerca all’interno dello psichismo umano della chiave che renda conto del nostro colpevole immobilismo, osserva che il numero esorbitante di animali torturati e uccisi, anziché sollecitare una reazione proporzionale, ci anestetizza, in ossequio al meccanismo per cui se una vittima mobilita il nostro coinvolgimento, ne bastano due perché non venga più colta l’individualità dei soggetti interessati e l’intorpidimento emotivo sia la non-reazione in agguato. E aggiunge che il  pregiudizio di conferma induce ad applicare  filtri alla conoscenza in modo da respingere tutte le informazioni che screditano le nostre convinzioni e ad acquisire solo quelle che ci rafforzano nelle nostre idee: che per l’appunto relegano gli animali nei sottofondi dei non diritti. 

Se sono le dinamiche mentali a costruire quel mondo di difese che ci permette di mantenere intatto il nostro funzionamento, nel ruolo di comprimari, sulla scena di un crimine dalle proporzioni enormi, l’autrice sembra credere che la possibilità di un cambiamento esista. Dopo avere smantellato con rigore logico le assurdità, le incongruenze e i paradossi, che sostengono lo schema del carnismo,  è alla parte emotiva della gente che si rivolge in cerca del cambiamento che urge. Ed è nell’esistenza dell’empatia che vede la possibilità del riscatto di un’umanità alla deriva da tempo immemorabile; nella considerazione che il mondo è sì pieno di violenza e sofferenza ma anche di bellezza e potenzialità; nel potere della testimonianza collettiva che impedisca di sotterrare la verità;  nella possibilità del superamento della dissociazione che ci attanaglia e consente che il male, disconosciuto, conviva costantemente con il bene che diciamo di volere. Se davvero la civiltà è un cammino che volta le spalle alla distruzione e persegue lo sviluppo armonico delle potenzialità positive degli individui, allora non è più possibile tollerare che l’amore verso gli animali tanto esibito, nella nostra cultura,  coesista con la loro contestuale riduzione a vittime di crudeltà estrema. Certo, per mobilitarsi è necessario prima diventare  testimoni di tutta la loro sofferenza, e per farlo bisogna superare quell’attitudine al benessere, dato fondante della nostra cultura, che tende a rimuovere dolore e morte in favore di tutto ciò che è leggerezza, gioia, facilità del vivere. Lottare per la liberazione degli animali richiede il coraggio di una full immersion in quanto di più inaccettabile le nostre coscienze riescano ad immaginare, richiede di scendere negli abissi infernali  a prendere su di sé una sofferenza inguardabile, anche se farlo implica il rischio  di  un disagio psichico che sfiora e talvolta sfora i limiti della patologia, che da una insopportabile sofferenza, appunto, viene generata. Non può essere da una pacata analisi del problema che può ripartire il cambiamento: la rabbia, la disperazione, la condivisione sono imprescindibili nella lotta per la liberazione degli animali, così come lo sono stati in ogni lotta di liberazione contro ogni ingiustizia, che ha tratto convinzione e vigore dal coinvolgimento  passionale.

Davvero difficile esprimersi rispetto alla liceità, nell’attuale contesto di infinito degrado, di un approccio ottimistico, che presuppone una fondamentale fiducia nel genere umano e nelle sue potenzialità. E’ comunque doveroso dare atto che non solo sognatori, ma anche disincantati studiosi sono convinti dell’esistenza di una naturale empatia che avrebbe accompagnato da sempre l’uomo, magari rimasta ai margini di una ben più visibile capacità di compiere il male:  Frans de Waal[1] considera questa disposizione  come un tratto cronico e robusto della nostra specie, destinato a non scomparire; Jeremy Rifkin[2] rilegge la storia della civiltà alla luce della presenza di un sottofondo empatico che oggi ha la sua esplosione cosmica e, sulla base di una diversa narrazione delle cose,  per la prima volta può essere in grado di superare  i confini di specie, inglobando nel proprio orizzonte anche gli altri animali.

Forse solo l’ottimismo della volontà, contrapposto all’inevitabile pessimismo dell’intelligenza, può sostenere questa fiducia, perché, non lo si può negare, la realtà è devastante :“Questo mondo non va bene: che ne venga un altro” diceva Saramago, premio Nobel per la letteratura. Il compito di cambiarlo dalle fondamenta è allora davvero ciclopico, imprescindibile da un atto di ribellione totale contro questo stato di cose, che parta da un primo in fondo banalissimo passo che è l’assunzione come stile di vita del vegetarianesimo, “la pratica pacifista più facile” come la definiva Edmondo Marcucci[3], inserendo, oltre sessanta anni fa, il non mangiare animali nella prassi  ineludibile di una società che si voglia non violenta. Posizione per altro condivisa dai grandi pacifisti, quali Tolstoj, Gandhi, Capitini. 

Possiamo scegliere di continuare: l’immenso dolore degli animali è terribile atto d’accusa contro il genere umano; come nell’incomparabile film antimilitarista del 1918 J’accuse di Abel Gance, tutti i soldati morti inutilmente nella guerra, che era allora la prima guerra mondiale, ma poteva essere qualsiasi altra guerra, rinascono dalla piana cimiteriale come moltitudine di spettri mutilati a gridare il loro atto d’accusa contro gli uomini esortandoli a non distogliere gli occhi dall’ orrore che essi portano con sé (si veda “Davanti al dolore degli altri” di Susan Sontag, Oscar Mondadori 2003), tutti gli animali martoriati e uccisi avranno il diritto di entrare nei nostri incubi  a buttarci in faccia il peso della ignominia nei loro confronti.

Possiamo scegliere di  cambiare: è possibile se, come dice Albert Shweitzer “solo una parte irrilevante delle immense crudeltà commesse dagli uomini può essere ascritta a istinti crudeli. La maggior parte di esse è dovuta a superficialità o ad abitudini consolidate. Le radici della crudeltà, quindi, sono più diffuse di quanto non siano forti”. Che il male non sia così profondamente radicato dentro di noi, se è vero,  non può limitarsi a considerazione consolatoria: deve trasformarsi in  un progetto cosmico di trasformazione in cui agli animali, che sono le vittime più innocenti e più inermi della storia del mondo, venga restituita la possibilità di occupare in pace il posto che è loro su questa terra.











[1] “L’età dell’empatia”, Garzanti 2011

[2] La civiltà dell’empatia”, Mondadori 2010


[3] “Che cos’è il vegetarismo”, Edizioni dell’Asino 2011

4 commenti:

  1. Di primo acchito, noto una volta di più e con grande piacere, il nome della poetessa Wislawa :)

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    1. Si, per me è stata una grande scoperta: parla delle cose più banali e quotidiane e incredibilmente le rende poesia.

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  2. Hai scritto "macellazione umanitaria" sottolineando che è un ossimoro. E' vero e per me è insopportabile, come "guerra umanitaria". Eppure, una nota associazione umanitaria, la più nota a livello mondiale, testardamente e doverosamente contraria al concetto di "guerra umanitaria", mi ha invitata a una cena di finanziamento a cui era servito il maiale (oltre ad altri animali). Io ho rifiutato e un rappresentante di questa associazione mi ha scritto che i maiali che loro servono, provengono da una cooperativa che pratica la "macellazione etica". Mi ha anche messo il link della cooperativa. Sapevo che esiste la "macellazione etica", quella che segue il protocollo ICEA ma forse bisognerebbe spiegare a questa nota associazione che esiste anche il protocollo della "guerra umanitaria" che loro ripudiano. Insomma che due cose sbagliate non ne fanno una giusta. Invece per loro la guerra umanitaria non va bene ma la macellazione umanitaria sì. Sono solo maiali... che sarà mai...

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    1. Il linguaggio è il luogo della falssificazione: basta usare parole ed estressioni giuste che la realtà è completamente alterata. Il gioco è evidente. Credo che non ci si debba stancare di opporsi a tutto questo anche se francamente a volte lo sconforto assale. Un abbraccio Paola.

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