La vendita di armi è
commercio internazionale che non conosce crisi, in cui gli italiani-brava-gente occupano posizioni di tutto
rispetto: se non è recente la notizia degli indiani dello stato del Madhya Pradesh, disposti a farsi sterilizzare se il
compenso è un’arma, è invece ciclica quella che le annuali fiere
delle armi in varie città italiane registrano un numero sempre crescente di visitatori (lì i
papà ci portano anche i bambini in gita); mai sopite richieste di norme meno restrittive per la concessione
del porto d’armi a privati cittadini
fanno da eco ad ogni argomentazione sul bisogno di sicurezza; se sono
addirittura superflue le osservazioni sulle tragedie sempre in onda negli Stati Uniti, anche in Italia di tanto in tanto si legge che in varie città ”è corsa al porto d’armi”.
Insomma, per motivi solo in parte
coincidenti, il fascino delle armi si esercita sulle nazioni e sugli individui.
Le considerazioni sulla loro diffusione per uso bellico richiedono argomentazioni
politiche, sociali, economiche: ma, quando si tratta di difesa personale, sarebbe
importante non misconoscere la prospettiva
psicologica e concedere attenzione alle disposizioni e reazioni personali, punto di
partenza di ogni altra analisi. Anche i fatti dell’India, il cui governatore, soddisfatto
dell’inaspettato risultato della sua iniziativa, aveva affermato di avere “disinnescato il mito
maschile della virilità con quello ben più forte delle armi”, aiutano ad una
lettura a 360 gradi delle complesse dinamiche che restano vivaci dietro l’invocazione
al diritto alla legittima difesa.
In Italia le diatribe sul tema
delle armi e sui limiti del loro possesso in nome del diritto ad autotutelarsi
da ladri, stupratori e assassini riemergono ciclicamente; il dissenso è tra chi
propugna la necessità dell’autodifesa dei buoni contro i cattivi, e chi si
appella alle esperienze internazionali, che
testimoniano in modo indiscutibile come la detenzione di armi da parte dei
privati cittadini, lungi dall’avere funzione di deterrente al crimine, inneschi
piuttosto un’escalation di violenza.
La imprescindibile osservazione di base è
addirittura banale nella sua essenzialità: chi detiene un’arma, lo fa per usarla,
esattamente come qualunque amante di macchine fotografiche vuole scattare le
sue foto e ogni possessore di auto
desidera guidarle: "non si comprano mazze da baseball solo per guardarle né sci
dell’ultima generazione per tenerli in salotto".
Dal momento che le armi, a differenza di altri oggetti di culto, sono progettate
per fare del male, il loro possessore è inevitabilmente
disposto e preparato a ferire ed uccidere, e solo casuale sarà che non gli
capiti di farlo. Questa fondamentale evidenza viene di norma sottaciuta e
inglobata nel concetto di diritto alla
difesa, concetto tutt’altro che equivalente, perché tale diritto è riferito al
movente causale, non alla modalità di rispondervi: il diritto alla difesa potrebbe infatti essere
esercitato con mezzi del tutto differenti, basati su leggi e interventi adeguati, per non parlare di
politiche che si occupassero delle cause che al crimine inducono.
Se si tace sulla disponibilità ad uccidere di chi invoca il diritto ad armarsi, si
bypassa una realtà che, per scomoda che sia, va invece presa in considerazione: esiste e si fonda su predisposizioni, frutto della complessa
interazione tra componenti innate e ambientali, che sono lontanissime
dall’essere politicamente corrette.
Proprio qui, nello spazio che divide la
cultura della violenza e dell’aggressività dalla cultura del diritto e del
rispetto, prende ad allargarsi la
forbice che separa chi sostiene la liceità del possesso di armi da chi la nega.
La disposizione dell’uomo alla possibilità
di uccidere, l’intrinseca inclinazione anche alla malvagità non hanno bisogno
di argomentazioni dimostrative dal momento che è tutta la storia dell’umanità a
parlarcene, con la sequela ininterrotta di guerre, sia antiche sia
drammaticamente contemporanee, che implicitamente autorizzano e ipocritamente disconoscono lo
smisurato campionario di ogni possibile crudeltà, violenza, sadismo. “Un
terribile amore per la guerra” lo definisce James Hillman nel titolo
illuminante di un suo saggio, che
individua nello “stato marziale dell’anima”, nella “follia del suo amore” la
ragione ultima delle guerre e,
parallelamente, di ogni atto violento.
Se è innegabile che istanze violente e
aggressive compongono la natura umana,
quello che ha avuto luogo in occidente, entro i confini del nostro
paese, nel corso degli ultimi secoli, è stato un percorso che, in direzione
dello stato di diritto, ha regolamentato i comportamenti stabilendo limiti sempre più stretti all’espressione
della violenza, sia pubblica che privata: ha messo al bando, insieme alla pena
di morte, la possibilità delle istituzioni di togliere la vita in risposta a qualsivoglia crimine; ha tolto diritto di
cittadinanza alle attenuanti per il delitto d’onore perché nessuna passione può
giustificare l’omicidio; ha posto barriere severe all’estensione del concetto di legittima difesa per evitarne ogni
abuso.
Nel costante processo di reciproco
rimodellamento e influenzamento, leggi ed opinione pubblica sono andate
costruendo, in una dinamica dialettica e
inevitabilmente non lineare, una nuova etica: le norme giuridiche,
introiettate, sono divenute norme personali di comportamento: ed oggi in Italia
gli omicidi (se si escludono quelli riferiti alle realtà mafiose in senso lato)
sono un fenomeno quantitativamente ridotto, ingigantiti se mai dall’esposizione
mediatica a cui sono soggetti, sia in
virtù della loro rarità sia al servizio di una politica che ricerca il consenso
attraverso risposte immediate e irriflessive alla paura che essa stessa elicita.
Siamo
tutti figli della cultura in cui viviamo, oltre ad essere gli agenti che la
forgiano: a mano a mano che la vita umana, nel mondo occidentale, è andata assumendo un valore sempre maggiore, le armi sono divenute oggetti strani ed
estranei, che molti di noi non hanno mai visto, se non al cinema, tanto che l’intravedere il rigonfiamento di una pistola
sotto una giacca diventa facilmente fonte di inquietudine. Inquietudine che si rafforza
quando si incrociano pistole e mitra di cui sono armati quelli chiamati a
difenderci nelle nostre città: “Speriamo che non gli scappi un colpo!” è
l’immediato malfidente pensiero di chi,
lungi dal sentirsi tutelato, continua a vedere in un’arma un pericolo
innescato: perché continua ad avere un concetto di cosa significhi protezione
che passa non dalle armi, ma dalla pacificazione sociale.
Il porto d’armi per legittima difesa in
Italia è rilasciato per legge a chi detiene o trasporta valori e a chi è esposto
a rischi di sequestro, di aggressione, di vendetta. Le categorie coinvolte sono
quindi molto ampie: tutti i giudici per esempio corrono pericoli, così come i
periti che lavorano per loro, nonché medici, psicologi, assistenti sociali,
insegnanti a contatto con detenuti.
Ma, tra tutti costoro, solo una ridotta
percentuale decide di richiederlo: il chè è sufficiente a dimostrare che non è
una oggettiva situazione, ma una soggettiva convinzione a indurre le persone ad
armarsi.
Se si escludono i malavitosi di ogni tacca e
gli appartenenti alle forze dell’ordine, nonché parte di chi detiene nel
proprio negozio importanti valori, chi
sono le persone “normali” che girano con la pistola? La tipologia è prima di
tutto al maschile; la condizione economica è elevata; l’atteggiamento di chi
pubblicamente la esibisce o comunque distrattamente la lascia intravedere è di provocatoria sicurezza, di sfida. La pistola appare una sorta di appendice fallica ad un machismo in cerca di
conferme, rinforzato dalla reazione di
intimidito stupore che induce negli
altri. Imparzialità impone di rilevare che l’universo femminile, in genere non
coinvolto in un ruolo attivo, ospita elementi che impersonano una sorta di
archetipo di “donna del boss”, che rinforzano con la loro sensuale ammirazione le imprese virili:
valga per tutti l’esempio delle lettere d’amore solleticate dai vari
Vallanzasca di turno.
Possedere un’arma significa conoscerla e maneggiarla
per rendersela familiare; significa conoscerne segreti e potenzialità; comporta
il prendersene cura, lucidarla; soprattutto significa imparare ad usarla il
meglio possibile. Progressivamente essa si va trasformando in una sorta di
feticcio, di idolo, di oggetto d’amore, importante tanto da modificare la stessa identità di chi la
possiede, in quanto diviene elemento capace
di influire sul comportamento, mezzo per distinguersi dagli altri, fonte di virile autocompiacimento
e di orgoglio.
Quante
volte la cronaca ci parla di persone che, con “un’arma regolarmente denunciata”
hanno un giorno ammazzato un vicino, un amico, molto più spesso un familiare?
Ogni caso è diverso dall’altro e ogni caso, in assenza di quell’arma si sarebbe
concluso in un modo che non è possibile ipotizzare : ma certo la familiarità
con tale “attrezzo” ha indirizzato la reazione, perché la violenza è anche funzione degli strumenti a
disposizione. Inoltre ripetere un gesto abituale è facile e può diventare
istintivo: se le circostanze, la rabbia, le passioni obnubilano una mente di
solito lucida e prevedibile nel suo funzionamento, diviene una possibilità
tutt’altro che remota mettere in atto un automatismo, che, per sua natura, offre
un canale di scarico adeguato, in quanto diretto e immediato, ad una aggressività in cerca di espressione.
Questa privata “corsa agli armamenti” che è
il porto d’armi è supportata dalla convinzione di dover tenere a bada il male,
che è percepito fuori di sé, in un ipotetico nemico; ma questo nemico non
raramente è invece interno a sé, è angoscia paranoide, sospettosità, diffidenza pervasiva e non riconosciuta, che cerca di oggettivarsi in qualcosa di esterno,
più facilmente osteggiabile. Se il nemico non c’è, lo si inventa: e allora la
rappresentazione del proprio mondo privato va popolandosi di immigrati clandestini minacciosi,
di rapinatori privi di scrupoli, di sinistri individui pronti ad irrompere nella
propria casa e nella propria vita. In
questo panorama il senso stesso di legittima difesa non può avere confini reali: perché se l’altro è proiezione
di un universo persecutorio, per
difendersene bisognerà inseguirlo, distruggerlo, annientarlo: magari a scariche di pallettoni.
Che in tutto ciò giochino un ruolo
esaltazione ed eccitazione è ben più di un’ipotesi: la trasformazione di sé
stessi nel ruolo del giustiziere mobilita la stessa ambigua fascinazione del
male su cui si basa il successo mediatico delle imprese di personaggi alla
Charles Bronson o alla Shwartzenegger, che celebrano non il senso di giustizia,
ma l’apoteosi della violenza.
Quanto alla localizzazione del male, quando
non rappresenta la proiezione delle
proprie angosce, spesso non è nemmeno da ricercare tanto lontano, alla distanza
di ladri e assassini sconosciuti: la
maggior parte degli omicidi e delle violenze, ormai è conoscenza assodata,
hanno luogo dentro le mura domestiche, nella famiglia, tra persone strette da
legami profondi. Questo è tema che merita, e su cui sono in corso, ampie e approfondite
riflessioni: è certo comunque che il desiderio di armarsi per legittima difesa
si appella all’esistenza di un nemico ipotetico, che spesso offusca la reale difficoltà di
relazioni; tale possesso poi finisce per
rendere facile e a portata di mano la violenza estrema contro chi, familiare o
amico, come nemico non è affatto riconosciuto.
“Che
illusi, se crediamo di poter applicare restrizioni sul porto d’armi!” afferma
ancora Hillman, dalla sua ottica sì esistenziale, ma intrisa della cultura americana dove “Uzi e Colt, Luger e Beretta sono gli
idoli di oggi”, dove “la carabina è
divenuta amico, compagno, fratello”: “altro che orsacchiotto!”. Noi alla
carabina non siamo arrivati e siamo ancora in tempo per decidere se quello che vogliamo è davvero “portarci la morte nella borsa” insieme alla pistola.
Per concludere vale la pena ricordare che
il referendum svoltosi in Italia nel 1981
contro la liceità del porto d’armi prevedeva, in caso di vittoria, anche l’abolizione della caccia, in quanto
non venivano fatte distinzioni tra armi
da difesa e armi da caccia, nella convinzione che la familiarità con strumenti
atti a ferire e uccidere, non importa se
esseri umani o animali, si colloca in un unico terreno, che è la cultura della violenza.
Se tale
cultura è unita con un inestricabile intreccio a tutta la storia
dell’umanità, dobbiamo essere consapevoli che ad essa, e non ad altro, si rende
omaggio con la corsa alle armi che quindi la legittimano distraendo dalla
possibilità di incanalare le pulsioni aggressive in più auspicabili percorsi.
Nel bellissimo film "il giocattolo", con Nino Manfredi, viene mostrata questa parabola di violenza portata dalla stessa esistenza delle armi. Grazie per averne parlato, e grazie anche per aver nominato il referendum sulle armi, di cui ebbi l'onore di raccogliere le firme, e che pochi oggigiorno ricordano!
RispondiEliminaAntonella Sagone
Cercherò il film, che non conosco. In fondo anche Alberto Sordi in Finchè c'è guerra c'è speranza, è stato acuto, considerando che si parla di molti decenni fa. Ma pare si debba sempre ricominciare da zero; e magari da un nuovo referendum....Buona giornata. Annamaria
RispondiElimina