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giovedì 29 novembre 2018

UCCIDERE PER SPORT

      
Per quanto non ci si possano  aspettare notizie confortanti dalla zone di caccia,  dove, con armamentario da  missione bellica,  c’è chi va a  braccare, ferire, uccidere esseri senzienti, il regolare bollettino  di guerra non può non lasciare esterefatti: prescindendo per un momento dalle vittime designate, gli animali,  nel corso delle “stagioni venatorie” morti e feriti umani  occupano cronache quotidiane: per il fuoco amico, che colpisce i compagni,

per quello amicissimo, sbadatamente diretto contro il proprio piede o la propria spalla, e per quello per nulla amico per cui a caderne vittima sono gli altri, i passanti casuali. Tra questi ultimi trovano posto persone impallinate perché scambiate per fagiani; altri così mimetizzati da suggerire la presenza di un cinghiale, presenza talmente desiderata da allucinarla nel pensiero; ci sono bambini colpiti mentre giocavano in cortile;  braccianti impegnati nella raccolta di frutta,  atterrati l’uno dopo l’altro come birilli. 
E ci sono  anche bambini nel ruolo di discepoli portati con sé per un precoce imprinting, aggirando spensieratamente non solo norme di legge, ma soprattutto minimale senso di responsabilità genitoriale. E si può continuare con  i danni collaterali, accidenti imprescindibili di ogni guerra che si rispetti, che, nella forma di infarto o grave malore, colpiscono cacciatori di solito un po’  agé, il cui fisico, ahimè,  come per altro in tante cose della vita, non sostiene debitamente una inalterata passione dei sensi.


Insomma morti e feriti di ogni "stagione venatoria",  meriterebbero un interesse di cui non si vede traccia nelle istituzioni:  la caccia non solo non si tocca, costi quel che costi, ma,  tramite iniziative regionali, continua a godere   delle sovvenzioni pubbliche, destinate agli sport; cosa incredibile se giudicata non solo in base ad un barlume di senso etico per cui non vi può essere nulla di sportivo, nel senso di leale, corretto e rispettoso,  nell’andare ad uccidere esseri indifesi, ma neppure volendosi attenere alla definizione  letterale di “sport” data dalla Commission of the European Communities WHITE PAPER  ON SPORT (luglio 2007), fatta propria dal CONI (che riconosce la FIDASC, Federazione Italiana di armi sportive da caccia),  secondo cui il termine sport si riferisce a  qualsiasi attività  fisica che …….. abbia per obiettivo l’espressione  o il  miglioramento della condizione fisica e psichica, lo sviluppo delle relazioni sociali o l’ottenimento  di risultati in competizioni di tutti i livelli”. Le “relazioni sociali” e le “condizioni fisiche” così care all’attività venatoria sono quelle di cui sopra, che, per imperizia, imprudenza, superficialità, incompetenza, discontrollo emotivo, deliri di onnipotenza, dato l’accesso, per certificata idoneità psicofisica, al   fucile caricato a pallettoni,   comportano l’evenienza che tali relazioni risultino mortifere, quindi non esattamente in fase di implementazione e sviluppo come vorrebbe l’autorevole libro bianco: non esiste stagione di caccia che non si concluda con decine di morti e un numero di gran lunga superiore di feriti [1]: il chè testimonia la natura niente affatto accidentale delle vittime umane, che sono invece intrinseche alle dinamiche venatorie.
Quanto all'ipotizzato miglioramento delle condizioni psichiche, beh il discorso, nella sua complessità, risulta quanto mai interessante. A partire dalla considerazione che la caccia , per gli occidentali, è attività di svago e fonte di piacere, alternativa ad una partita a tennis o a calcetto, per intenderci; le motivazioni reali che ne sono alla base sono offerte generosamente dai diretti interessati, i cacciatori, i quali, nei loro siti, la celebrano in estasi con espressioni che diventano mantra: palpitante avventura, eccitazione, magia, ardore, passione, ebbrezza, euforia: se non altro si deve dar loro atto di ottime competenze introspettive, nell’autoriconoscimento di emozioni e stati d’animo.
Temendo comunque di trovare ben poca condivisione al di fuori della loro rassicurante e autoreferenziale cerchia e ben sapendo di quanto la loro passione venga connotata, da una fiumana in crescita di detrattori,  come pesante disvalore anziché estasi mistica, i cacciatori fanno poi seguire giustificazioni ideali, riferite all’ amore per la natura, al dovere di civiltà  e alla missione ecologica di cui si sentono portatori: il tutto sintetizzato nel concetto di “caccia buona, ossimoro linguistico al servizio della mistificazione della realtà, a cui ci sarà sempre qualcuno disposto a credere o a fingere di farlo: un po' come all'idea di "amore criminale" insomma: quello per cui si  accoltella e magari poi anche si brucia quella che si ama tanto. .
La difesa ad oltranza  della loro attività suggerisce ai cacciatori di bypassare prudentemente il punto di vista delle vittime : grandi assenti, nelle loro descrizioni, sono gli animali, il loro terrore, la disperata fuga per la salvezza, il ferimento, gli spasmi, l’agonia talvolta interminabile, la  disperazione di cuccioli vicino alle madri morte, l’annichilimento delle madri davanti al corpo immobile dei figli. Assenti sono  il cervo senza scampo che chiede grazia con le sue lacrime, nelle parole di Montaigne; la cerva che assiste il maschio ferito, con la testa levata al cielo e l’espressione piena di cordoglio, in quelle di Tolstoj; quelli che sentiamo ansimare increduli  nei filmati dai luoghi della carneficina: volpi stanate da buche profonde, rifugio vano da cani che le estraggono strappando loro la pelle, e aprono la strada al cacciatore di turno, appostato nei dintorni. 
E’ un guardiacaccia, Giancarlo Ferron[2], che racconta di caprioli in fuga, inseguiti per giorni,  che corrono con la schiuma alla bocca, senza più fiato, tremanti e sfiniti con la bocca spalancata per la fame d’aria; racconta di cacciatori che hanno due o tre mute di cani, per sostituire quella sfiancata nell’inseguimento di un capriolo, che lui però di sostituti non ne ha; ancora racconta di animali che si suicidano buttandosi dalle rocce, pur di  sottrarsi allo sbranamento annunciato dai latrati che si fanno più vicini. Nessun animale, lo sappiamo bene, può sottrarsi alla furia omicida dei cacciatori, che siano elefanti o uccellini di pochi grammi: “sparerebbero pure alla colomba dello Spirito santo, sentenzia un bambino nel colorito spirito napoletano[3], che bene compendia l’impulso ad andare ad ammazzare esseri di ogni genere e taglia, che volino, corrano, che siano miti o aggressivi: purchè respirino.
La descrizione degli “annessi e connessi” dell’attività venatoria può sfidare per tasso di crudeltà quella che trasuda dai tanti musei della tortura, sparsi nelle nostre città, a imperitura testimonianza della profondità del male che l’essere umano sa creativamente produrre: ci sono uccellini impigliati nelle reti, quelli accecati così da richiamare con il canto i loro consimili; quelli ingabbiati per il medesimo scopo ; c’è l’infierire ignobile contro animali spossati dalla migrazione o dallo sforzo di sopravvivere a inondazioni, terremoti o altre calamità.  Addestrare i cani ad  estrarre a morsi animali dalle tane per sparargli addosso è attività per la cui connotazione il linguaggio non dispone di aggettivi appropriati ; non ne dispone per definire il piacere di uccidere orsi in letargo; oppure elefanti o leoni dal sedile di  un elicottero; ulteriori perversioni, già diffuse in altri continenti, tra cui quella di sparare ad animali esotici, intrappolati in stretti recinti (canned hunts ) dopo la dismissione da circhi e zoo o cresciuti come pet una volta sottratti da neonati  alle madri, non sono ad oggi penetrate nel nostro territorio. Ma non c’è da preoccuparsi perchè il turismo venatorio supplisce generosamente a questo fastidioso limite: basta pagare, dal momento che i capi uccisi devono giustamente essere remunerati con generosità ai legittimi proprietari. 
Un discorso a parte meriterebbero poi altre vittime animali, i cani, trasformati in aiutanti killer mediante un addestramento vigoroso: le  cronache raccontano dell’abbandono e della soppressione dei “soggetti” non idonei, della detenzione in gabbie che sono prigioni per tutto il tempo non destinato alle battute,  di quelli da annoverare tra le vittime accidentali di colpi sparati a casaccio. A completamento, è una novella cacciatrice, Catia, a fornire nella sua intervista on line un grazioso particolare, quello tanto diffuso da meritare un termine ad hoc, la frustata, vale a dire una fucilata che abitualmente i cacciatori sparano nel sedere di cani disobbedienti o lenti nell’apprendimento (“la famosa frustata” dice), metodo di addestramento da cui lei però  si vanta di smarcarsi.[4] Ora, oltre a spietatezza, soprusi, crudeltà, esplode in tutto il meccanismo venatorio un ancestrale bisogno di sangue, che spesso esonda in un crescendo di esaltazione, in un delirio fuori controllo, che lascia sul terreno vere e proprie carneficine: non basta mai, tanto che leggi pur tanto permissive, al servizio di una più che compiacente politica, devono porre dei limiti al tempo del cacciare e al  numero delle vittime da uccidere, supplendo con le restrizioni normative all’assenza di quelle etiche .
Non a caso, il parallelismo tra caccia e guerra è stato colto in ogni epoca, essendo l'una e l'altra attività connesse dalla stessa essenza basata su uccisioni di massa: la caccia è sempre stata considerata una raffigurazione ritualizzata della guerra[5], un sostituto ugualmente sanguinario, ma tanto più rassicurante vista la sproporzione delle forze in campo, nonchè la non belligeranza degli animali che, nemici inconsapevoli di esserlo, cercano solo di fuggire. Se la causa più profonda della reiterazione delle guerre, come diceva già Freud, sta tutta nelle pulsioni aggressive e distruttive, insite nell’uomo, altrettanto si può sostenere a proposito della caccia, l'una e l'altra da porre in contesti in grado  di fare emergere la nostra ombra più oscura, le nostre parti più nascoste e abiette.
Alla luce di tutto ciò, si impone la necessità di scrutare di più nelle emozioni e nei pensieri dei cacciatori[6], alla ricerca dell’origine di quel vuoto etico che è il brodo di cultura della loro passione; si viene così a contatto con elementi che dovrebbero essere fonte di grande preoccupazione per chiunque abbia a cuore la condizione psichica delle persone, come sostiene di fare il CONI: nei loro comportamenti prepotenti e brutali   la fa da padrona quella assenza di empatia che esonda in  psicopatia nel piacere dichiarato di essere artefici dell’estrema sofferenza e della morte di esseri senzienti. Soprattutto appare virulenta una forma grave di sadismo, nell’accezione psicologicamente corretta del termine, che lo definisce quale “tratto del carattere proprio di chi si compiace della crudeltà” ,  tratto innato o collegato ad una risposta a frustrazioni e umiliazioni; diretto alla ricerca di un piacere generato dal provocare dolore o dal senso di potenza personale che deriva dalla capacità di sopraffarre l’altro.[7]

Esiste anche un’altra accezione di sadismo, che è strettamente connessa ad una perversione della sessualità: direzione in cui  vanno espandendosi studi sulla personalità dei cacciatori, nel  cui inconscio, secondo alcuni autori,  si troverebbe  un vaso di Pandora di elementi sessuali repressi. Lo afferma la psicologa clinica Margaret Brooke-Williams secondo cui il sentimento di potenza che l’attività venatoria comporta è in grado di offrire temporaneo sollievo al disagio esperito dai cacciatori. Teoria suffragata dallo psicologo sociale Rob Alpha secondo cui nella pulsione sessuale e nella compulsione a cacciare e uccidere vengono attivate le stesse aree cerebrali. Alle spalle,  una tradizione corposa, dal momento che già lo psichiatra Karl Manninger (1893-1990) sosteneva che il sadismo tipico della caccia rappresenta le energie distruttive e crudeli dell’uomo verso le creature più indifese[8].
 La caccia, come la guerra, dà forma a pulsioni aggressive, a cui vengono dati significati di comodo, crea dipendenza e desiderio di ripetizione:  si va ad uccidere spinti da aspetti della propria personalità, e poi  è la ripetizione stessa dell'azione di uccidere esseri indifesi a modificare  lo psichismo di chi lo fa, dal momento che nessuna esperienza può essere vissuta senza che ne restino tracce in grado di modificarci. 

In attesa di ulteriori spunti dalle ricerche in corso, è interessante sottolineare che quello della caccia è un territorio in cui la prevalenza maschile raggiunge percentuali bulgare e in cui l’accesso delle donne è visto con l’evidente fastidio che sempre provoca l’ingresso femminile in aree in cui il machismo è tratto distintivo: non è casuale che il primo convegno internazionale di donne cacciatrici, tenutosi a Riva del Garda pochi anni fa, sia stato completamente ignorato dai colleghi maschi.  Un po’ diversa da quella italiana la situazione nei paesi nordici, dove  la presenza femminile nell’universo venatorio è maggiore, in sintonia cona la  convinzione  che parità significhi  adattamento agli standard maschili,  standard che, in quei paesi,  sono incistati in una  cultura, che, per esempio, celebra e ritualizza l’ingresso dei bambini nell’età adulta con il dono del fucile e la partecipazione alla prima battuta: "grande  uguale cacciatore" insomma o vede l'obbligatorietà del servizio militare senza differenze di genere.  Il discorso porta lontano, ma il parallelismo tra caccia e guerra, unificate dal comune uso delle armi, dalla disponibilità ad uccidere, dall’assunzione di una filosofia di vita aggressiva, è innegabile punto di partenza dei necessari approfondimenti.

Se non c'è pensiero che aiuti le  vittime animali della caccia a sottrarsi all’orgia di violenza di cui devono subire l’inenarrabile dolore, urge comunque una rivisitazione della realtà: se attività sadiche, tese alla sopraffazione, al sangue e alla morte di vittime inermi  sono legalizzate e incentivate dalle istituzioni, se vengono definite salutari da organismi internazionali, se sono giudicate utili al miglioramento delle condizioni psichiche e all’implementazione delle relazioni sociali di chi le pratica, beh allora la distinzione tra giusto e ingiusto, lecito ed illecito, civile ed incivile non può che collassare, con tutte le conseguenze del caso. La mistificazione in atto è implicitamente sostenuta in tanti modi: per esempio dalla vendita stessa delle armi  accanto agli sci  o ai costumi da bagno nei negozi sportivi, giusto per sdoganare l’idea che farsi una  nuotata o massacrare un  cinghiale è solo una questione di gusti individuali. Per non parlare della richiesta  sciagurata che i cacciatori possano entrare nelle scuole  presentandosi quali testimonial della natura e, udite udite, difensori degli animali.
Anche da qui, dalla improrogabile rifondazione di un linguaggio, che sia teso a comunicare e non a falsificare la realtà, è necessario ripartire, se vogliamo contrastare l'espressione della parte più oscura di noi, quella che anche nella caccia trova ideale terreno d'espressione, strenuamente difesa da una politica sempre colpevolmente pronta a sacrificare l'etica all'interesse.


[1] Per conoscere i numeri esatti, si consulti il sito www.vittimedellacaccia.org, che possiede archivi dal 2007 e aggiorna costantemente i dati.
[2] “Il suicidio del capriolo”,  Giancarlo Ferron; Biblioteca dell’Immagine 2003
[3] “Nessun porco è signorina”, Marcello  D’Orta; Mondadori 2008
[4] http://www.sabinemiddelhaufeshundundnatur.net/ale/caccia_intervista.htm
[5] Argomento trattato in “Finchè non lo vedrai cadere esangue”, in “In direzione contraria” di Annamaria Manzoni, Sonda2009;
[6] Si veda  “Ai cacciatori il posto d’onore” in “Sulla cattiva strada” di Annamaria Manzoni; Sonda 2014
[7] “Nuovo Dizionario di Psicologia”, Umberto Galimberti, Feltrinelli 2018
[8] https://www.feelguide.com/2016/11/07/hunting-linked-to-psychosexual-inadequacy-the-5-phases-of-a-hunters-life-of-sexual-frustration/

2 commenti:

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    1. Eh si: occorrono i comportamenti individuali, ma è fondamentale il ruolo delle sitituzioni. E siamo messi male...

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