La
notizia ha uno spessore che travalica la sorte dei singoli cavalli i quali,
quando avranno la ventura di correre a Montechiarugolo, non potranno che stupirsi
nel non essere fustigati, contratti e spaventati come saranno, perché l’attesa delle usuali scudisciate è
essa stessa tormento, nell’impossibilità a sottrarvisi, e perché non esiste
comportamento che li metta al riparo: non è castigo ad una mancanza, a cui potrebbero
imparare a sopperire, ma sorte ineluttabile; perché chi colpisce, e i cavalli
non sanno quando e quanto forte, punisce un peccato non commesso.
Come è il veganesimo a illuminare il carnismo,
vale a dire non si prende atto della relatività di una scelta fino a quando si
viene posti davanti alla prova provata della possibilità di una scelta di segno
opposto, allo stesso modo il divieto di colpire i cavalli induce a giudicare in
modo diverso l’abitudine a frustare, talmente diffusa nel mondo dell’ippica da
non fare notizia, da passare inosservata. La frusta è considerata un accessorio obbligato dell’abbigliamento di
ogni fantino, non tanto diversa da stivali e berretto; trasformata addirittura in
oggetto elegante, tanto che l’industria ne offre di tutti i generi e di tutti i
tipi, con graziosi manici antiscivolo, di alta qualità ma anche in versione
economica per porli democraticamente alla portata del portafoglio di chiunque.
I modelli sono sempre più evoluti, perché l’origine è antica, ma i tempi
richiedono prestazioni più adeguate, vale a dire devono consentire di fare del
male al punto giusto e con la raffinatezza che gli stilisti del settore,
esonerati anche loro da considerazioni etiche, rendono possibile. Le fruste per
altro possono anche alternarsi ai nerbi di bue (o ai nerbi fatti con il pene di
toro! ), come si fa per il Palio di Siena: niente di nuovo; in fondo anche la
Gestapo li aveva in dotazione, e, se le notizie della rete sono esatte, in
qualche stato centro e sudamericano, quali Guatemala e Colombia, normalmente
non citati tra i campioni del rispetto per i diritti umani, l’uso è anche destinato a sedare riottosità
domestiche. La frusta è appendice all’equipaggiamento ippico persino di bambini
alle prime armi (mai espressione fu più centrata): gliela si consegna, certo di
dimensioni adeguate alle loro manine, non appena si avvicinano all’equitazione,
così li si fanno sentire orgogliosi e anche (pre)potenti perché percepiscono
trattarsi di uno strumento in grado di conferire uno status, uno status dominante: conferisce
un senso di forza e importanza, con la benedizione di mamma e papà.
Ecco,
la decisione presa a Montechiarugolo poggia sulla convinzione che uno strumento
di costrizione non può essere considerato normale, naturale e necessario, non
deve essere regolamentato, ma proibito perché crudele. L’input a questa visione
delle cose, racconta Lorenzo Morini (uno dei gestori dell’ippodromo, che da due
anni si batte per un disegno di legge che ne bandisca definitivamente l’uso), è
nato nell’osservare la reazione dei bambini che, a lato delle piste, si
rifiutavano di guardare: “Un cavallo
picchiato in continuazione non è un bello spettacolo”, dice. Non si può
che concordare con lui e
contestualmente, pur nella soddisfazione per l’insight cognitivo, chiedersi
come ad oggi, pressochè dovunque, lo si consideri invece proprio un
bello spettacolo, uno di quelli da
incitare con urla entusiastiche, da osservare con il cannocchiale per
non perdersi i particolari.
Quella
dei cavalli frustati è realtà, norma, spettacolo: incapace di urtare la
sensibilità di scommettitori obnubilati
da puntate rovinose, ma neppure spettatori bighellonanti nell’ ozio domenicale,
e tanto meno gentili signore e signorine in guanti bianchi e cappellini d’ordinanza
sui prati inglesi o decisamente più casual su quelli di altri paesi. Infierire
su animali impossibilitati a difendersi, frustandoli a dismisura, è ancora oggi
non spettacolo per persone rudi e rovinate dal vizio, ma sport of the kings: regale,
illustre, nobile.
Ancora
una volta è la narrazione a farla da padrona: la realtà, che è sotto gli occhi
di tutti, viene mistificata, diversamente raccontata, inserita in altra cornice
cognitiva. Nella retorica giornalistica e nella percezione del pubblico, i
cavalli non corrono perché, fustigati, tentano disperatamente di sottrarsi al
dolore, ma sono purosangue (ma mezzosangue, fa lo stesso) slanciati verso un trionfo
da loro stessi ambito; morsi, paraocchi, briglie, redini, speroni non sono stigmatizzabili
mezzi di contenzione e tortura, ma trasparenti, invisibili accessori d’ordinanza.
Qualcosa non torna: o meglio, torna solo
in riferimento a quei meccanismi di cui
la nostra mente sa servirsi così bene al fine di proteggerci nel nostro quieto
vivere. L’idea che ci facciamo delle cose non è frutto della realtà percepita,
qui ed ora; si forma invece e poi si
sedimenta sulle convinzioni del contesto culturale di appartenenza, per
distorte che siano. Aderiamo alle idee, ai modi di vedere che sono quelli del
nostro ambiente o gruppo sociale, lo facciamo senza accendere la capacità di
critica, attraverso i pre-giudizi, aderendo acriticamente all’interpretazione e
alla codificazione della realtà che altri hanno dato prima di noi e che si è
diffusa come fosse verità. Siamo convinti di avere un punto di vista e invece
lo confondiamo con lo stato delle cose, con il punto di vista della maggioranza
che ci influenza e dirige i nostri comportamenti verso quella che è una norma
condivisa. Insomma, vogliamo essere rassicurati che tutto vada bene, che il
mondo in cui viviamo è giusto, e così ci muoviamo avvolti nella cortina
fumogena delle idee che sono dominanti nel contesto in cui viviamo. Si tratta
di meccanismi potenti e prepotenti, tali da indurre una mistificazione della
realtà altrimenti inspiegabile.
Nulla
però è statico: dal magma in movimento in cui ci sentiamo protetti, qualcosa
sfugge, è una pulsione verso la verità, verso la de-mistificazione, la de-costruzione
della falsificazione in atto. Il demiurgo prende le sembianze del
rivoluzionario di turno, spinto a rivoltare il mondo dall’urgenza di verità e
giustizia, ma anche solo del riformatore, che si materializza spesso grazie ad
un clima culturale circostante in evoluzione, all’interno del quale alcuni
comportamenti appaiono del tutto anacronistici, distonici rispetto a nuovi
pensieri e nuove sensibilità
Nello
specifico della situazione in oggetto, il divieto di frustare i cavalli è una proposta
timida, non è un cambiamento epocale, figlio di un’esigenza profonda di
rispetto verso animali sfruttati e del
desiderio di rendere loro la dignità: se così fosse, saremmo qui a parlare
della fine stessa delle corse: tout court. E’ comunque
un imprescindibile iniziale passo che prende l’avvio dalla
consapevolezza della attuale diffusa connivenza con un mondo costruito su intollerabili forme di
sfruttamento e crudeltà.
E’
interessante anche che l’input a tale demistificazione sia arrivato, come ha
testimoniato Lorenzo Morini, dall’atteggiamento di insofferenza dei bambini all’infierire degli uomini sui
cavalli: non ancora coinvolti nel processo di mistificazione, loro sì che possono giudicare la realtà con i propri
occhi, dare diritto di cittadinanza a sensazioni ed emozioni, e molto
banalmente considerare insopportabile che i cavalli vengano frustati: giusto in
tempo, prima che subentri l’incorporazione del loro pensiero in quello
dominante. Apprezzabile ci sia stato chi, osservandoli, ha colto e accolto il loro
messaggio, dando il via ad un processo di demistificazione di una semplicità
disarmante: le frustate fanno male, le frustate sono crudeli, le frustate sono
ingiuste. Il fatto che siano inferte da sempre, lungi dall’offrire giustificazioni, è se mai atto di accusa
potente nei confronti della nostra specie, che, come con infinite altre
nefandezze, ci convive non da secoli, ma da millenni, imperturbabile davanti
alla sua realtà, e anche alla sua rappresentazione: persino Ben Hur, che dagli schermi del colosso cinematografico del 1959 fustigava forsennatamente i cavalli della sua quadriga
per dodici interminabili minuti, ha riscosso entusiasmo filmico per il suo altissimo tasso
spettacolare, meritevole di undici Oscar,
ma non risulta abbia suscitato nessuno sdegno che fosse ante litteram
“animalista”.
Infierire
sui cavalli è azione ripugnante, è causa del loro inascoltato dolore. Ma è anche altro: l’abitudine alla violenza comporta
desensibilizzazione, assuefazione e
dipendenza: l’autorizzazione, anzi il diktat all’uso della frusta per addestrarli, ridurli
all’obbedienza, spingerli oltre i loro
limiti, è talmente intrusivo nelle abitudini dei perpetratori, che finisce per
abbattere i freni inibitori, si autoalimenta, si espande, dilaga. La dinamica è
attestata dal fatto che è stato necessario introdurre normative, per porre limiti esterni, in
drammatica assenza di quelli interni, psicologici e morali, in sintonia con il
clima culturale di ogni contesto: secondo una regolamentazione, il cui cinismo
si commenta da solo, Italia, Inghilterra, Germania consentono che siano inferti
ad un cavallo 7 colpi di frusta ogni 500 metri; la Francia, più comprensiva, ne
ammette 10; Usa e Giappone, campioni di libertà civili, si affidano alla libera
iniziativa personale e non pongono limite al libero sfogo degli impulsi umani,
senza remore né fastidiosi deterrenti legali. Le limitazioni sono in genere mal
sopportate e non mancano certo infrazioni, anche illustri: un fantino di grande fama, Frankie Dettori, nel 2007 aveva un po’ esagerato ed è stato
punito (tranquilli: 14 giorni di sospensione e poi tutto come prima) per avere
inflitto la bellezza di 25 frustate al “suo” cavallo, quello che amava tanto, reo
di non correre come lui voleva: un po’ troppe per i severi giudici, non per lui,
che, intervistato, ha sostenuto avere fatto ciò che era giusto, con colpi che travalicavano anche il limite del
braccio che non avrebbe dovuto alzarsi oltre la spalla, per limitarne la
violenza. Bazzecole, incapaci di modificare le sue radicate convinzioni. Che
dire? Successive condanne allo stesso Dettori per uso di coca qualcosa dicono
rispetto al suo controllo degli impulsi.
Neppure una leggenda dell’ippica, quale Varenne, forte di un mito mondiale
costruito sui suoi successi, ha potuto sottrarsi alle frustate: quando età,
stanchezza, sfiancatezza gli hanno fatto correre una corsa deludente, beh come
poteva mai reagire il suo driver Giampaolo Minucci se non frustandolo? Certo,
finchè le cose erano andate bene, se ne era astenuto, ma insomma, un po’ di
comprensione: quando ci vuole ci vuole. Beninteso nei limiti legali.
Un
pensiero immenso, per concludere, a Tornasol,
il cavallo che in diretta televisiva ha detto NO all’imposizione di correre, lì
sulla mitica Piazza del Campo di Siena, dove, sotto il sole cocente del 2 di
luglio, per 90 interminabili minuti teletrasmessi ha opposto la sua determinata
opposizione al volere umano: a
Trecciolino, il suo fantino (al secolo Luigi Bruschelli, per altro attualmente sotto inchiesta per maltrattamenti) che, incredulo, agitava il suo nerbo (di ordinanza
appunto), ha risposto con sgroppate e sbuffi, e ha mostrato ad un’Italia basita
la rappresentazione equina della disobbedienza civile, non violenta, ma decisa
e vincente. Bello e orgoglioso, anzi no: bella e orgogliosa perché Tornasol è
una femmina, ha semplicemente e coraggiosamente detto NO. E quale che sia stata
la spinta che l’ha indotta a tanto, è assurta ad eroina, paladina degli
oppressi della sua specie, fiera . I veterinari, che, esausti, hanno alla fine diagnosticato
un “alterato stato fisico” nonché “attacchi di panico”, tanto ricordano quegli
psichiatri che, in tempi non così lontani hanno racchiuso, prima ancora che
nelle camicie di forza, in una diagnosi svilente la ribellione di tanti
infelici ad uno stato delle cose intollerabile. Onore a Tornasol, allora, e a
tutti coloro che imboccano strade che gli altri non sanno neppure vedere.
caro Roberto, vedo adesso che non ti ho mai risposto. Confusione da social. Scusami. Hai ragione in quello che dici, e che tocca la complessità del problema: rispetto, compassione, giustizia versus economia, guadagno, profitto: non chè sadism. Strada accidentatissima quella che andiamo percorrendo. Riuscissimo almeno a compattare le forze!
RispondiEliminaGrazie della solidarietà